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8.11.25

Carla Monni: «Con l’intelligenza artificiale creo ponti tra l’isola e il mondo»L’artista di Orune tra i protagonisti di Connessioni Future 2025 «La tecnologia non sostituisce la creatività, è uno strumento che aiuta l’arte»

 da  ms.it 

C’è un punto d’incontro in cui mito, identità e tecnologia smettono di essere mondi separati e si incontrano, grazie all’intelligenza artificiale. In quel luogo virtuale si trova il lavoro

di Carla Monni artista sarda che sarà tra i protagonisti di Connessioni Future 2025. Racconterà come l’intelligenza artificiale possa diventare strumento creativo e, insieme, leva imprenditoriale per chi ha idee ma non dispone per forza di budget hollywoodiani.

Di cosa parlerà al pubblico di Connessioni Future?
«Vorrei mostrare che l’intelligenza artificiale può essere un alleato della creatività. Racconterò il mio percorso e i modi alternativi di costruire impresa partendo dall’arte. Monniverse è un progetto nato dal desiderio di democratizzare lo storytelling, di togliere il monopolio ai grandi colossi come Disney e restituire la possibilità di creare anche a chi non dispone di risorse economiche enormi. Monniverse l’ho creata come una nuova Atlantide digitale, ispirata alla Sardegna tra passato e futuro».

Come funziona una mostra di Monniverse?
«Ogni esposizione racconta un diverso “regno” dell’universo che ho immaginato, ognuno legato a un aspetto della Sardegna. L’obiettivo è che chiunque, un sardo, un americano o un coreano, possa riconoscervisi. L’estetica è pop e internazionale, ma dietro c’è la memoria delle leggende sarde. In alcune tappe ho messo a disposizione generatori d’immagini: i bambini potevano creare i propri personaggi e sentirsi parte della storia, un’esperienza immersiva».

Quando ha capito che l’intelligenza artificiale avrebbe cambiato il suo lavoro e il suo modo di fare arte?
«Nel 2018, a Helsinki. In quel periodo si cominciava a parlare di intelligenza artificiale e arte generativa. Ho seguito corsi universitari e mi sono accorta che la tecnologia poteva diventare un’estensione del corpo, quasi un organo nuovo del pensiero. Ho iniziato a concepirla non come una minaccia ma come un’estensione della mente creativa».

Molti temono le conseguenze dell’Ia, lei come la vive?
«È un po’ come avvenne con la rivoluzione industriale: alcuni lavori spariranno, ma ne nasceranno altri. L’intelligenza artificiale è un mezzo potentissimo, il problema non è la macchina ma la gestione dei dati. Bisogna sapere a cosa si acconsente, quando si clicca “ok” sui cookies o si usa il riconoscimento facciale. La responsabilità resta umana. L’etica dovrà essere la bussola delle istituzioni».

C’è il rischio che possa sostituire la creatività umana?
«No. È come se si trattasse di un pennello nuovo. Quando uscì photoshop molti dissero che l’arte digitale non era arte: oggi nessuno lo pensa più. La tecnologia accelera, ma non sostituisce. Due persone possono usare lo stesso modello e produrre risultati completamente diversi: la differenza resta nella mente, non nel codice». 

Quale consiglio darebbe a chi vuole sperimentare?
«La cosa più importante è sempre la comunicazione. Bisogna imparare a parlare. Lo dico sul serio: la macchina ti costringe a essere chiaro. Scrivere un buon prompt è come tornare alle analisi logiche di scuola: impari a ordinare le idee, a dare priorità, a tradurre la visione in parole. L’Ia ti insegna a comunicare meglio, e questo migliora anche la creatività».

Come immagina l’intelligenza artificiale nel futuro?
«Ci sarà una fase di crisi. Un’azienda può già creare dieci agenti digitali che gestiscono social, mail, agenda: è inevitabile che molti ruoli scompaiano. Ma poi arriverà un nuovo equilibrio. La cosa più grande che accadrà sarà la democratizzazione del sapere: non serviranno più università costose per imparare. L’accesso all’informazione diventerà sempre più libero, e riuscirà ad abbattere molte barriere sociali».

Cambieranno anche i rapporti tra persone e culture?
«Assolutamente. L’intelligenza artificiale cancella la necessità del luogo fisico. La globalizzazione culturale è già realtà: le nuove generazioni non vedono differenze di nazionalità. Online puoi essere una sirena o un fungo e dialogare con chiunque. È un mondo senza confini, dove l’identità diventa scelta e racconto. Ci saranno rischi, certo, ma anche un’enorme possibilità di connessione».
«Noi in Italia e in Europa siamo privilegiati: altrove una donna può usare il telefono per lavorare o studiare, pur vivendo in un contesto che le nega libertà. Per molte persone la tecnologia non è un gioco, è una via d’uscita. È su questa prospettiva globale che bisogna misurare le paure occidentali verso l’Ia».

Oggi Monniverse è anche un archivio di miti sardi reinterpretati.
«Una delle figure che amo di più è la Surbile, la strega-vampira che, secondo la tradizione, rubava l’anima ai bambini non battezzati. Nel mio mondo è diventata una sirena un po’ folle, ossessionata dal tempo. È il mio modo per dire che le storie antiche possono rinascere e parlare ancora di noi, se usiamo linguaggi nuovi. Mi piace pensare che la tecnologia non allontani ma avvicini. Monniverse è un ponte tra memoria e futuro, tra la mia isola e il mondo. L’arte, oggi, è il modo più potente per costruire connessioni».

27.9.22

L’ODISSEA DEL GRECO GIANNIS Vita e miracoli del cestista di origini nigeriane Dalla miseria al titolo Nba

  da  il fatto  quotidiano del  27\9\2022
 La National Basket Association lo ha capito decenni fa. Se vuoi vendere un prodotto a tutto il mondo non basta mettere in campo gli atleti più forti in quello sport e far giocare loro sfiancanti partite ogni tre giorni tra stagione regolare e playoff. Va costruito un lavoro di storytelling. Tutto reale, beninteso, ma che sia condivisibile, di esempio in ogni angolo del mondo, vendibile dalla Cina all’europa. Da Bill Russell, nero a Boston fischiato dai suoi stessi spalti pur essendo quell’incredibile giocatore che era, alla complessa vicenda di Lewis Alcindor, nero pure lui, pacifista, che prese il nome islamico di Kareem Abdul Jabbar e portò il primo titolo della storia ai Bucks di Milwaukee. E ancora, la sfida tra Magic Johnson (Los Angeles Lakers) e Larry Bird (Boston Celtics) degli anni 80, i cattivissimi Pistons di Detroit che seguirono a quelle dinastie, il brand del “più forte di tutti i tempi” Michael Jordan, che negli anni Novanta diventa scarpe, maglie, addirittura figura stilizzata di un’icona con lui che schiaccia a una mano. Tutto si vende.

LA STORIA di Giannis Antetokounmpo, nato ad Atene 28 anni fa da genitori nigeriani, per intenderci, è già un film Disney, Rise, in cui si racconta la storia dei quattro fratelli alti due metri che con sudore, lacrime, famiglia, un pallone da basket e un paio di scarpe in due (scena abbastanza drammatica quella che vede il maggiore, Thanasis, levarsi le scarpe per far entrare in campo il minore, Giannis), riescono a cavarsi dalla povertà e a giocare tutti in Nba. Storia disneyana, appunto.

In Giannis Antetokounmpo, Odissea, edito da 66thand2nd, Andrea Cassini ci mette attorno la cronaca di quella storia. E la cronaca è più brutta, meno disneyana.

Inizia a Sepolia, distretto operaio di Atene a forte immigrazione: albanesi, russi, europei, africani. Un’immigrazione di braccia, da lavoro nero (l’85% degli africani immigrati in Grecia è per le statistiche disoccupato), da comunità chiusa. Nel 1991 Charles e Veronica arrivano qui dalla Nigeria, dove hanno lasciato il primogenito Francis. Nascono in quegli anni Thanasis (1992), Giannis (1994), Kostas (1997), e Alex (2001), quattro nomi greci, ma senza un documento a poterlo testimoniare: non si sa nemmeno come si scrive, in greco, quel cognome “Adetokunbo”, che tiene assieme le radici adé, corona o maestà, e ti òkun bò, venuto dal mare.

Come le altre braccia nere arrivate in Europa, quei nigeriani non hanno cittadinanza, sono apolidi, e i loro figli con nomi greci non sono greci e non c’è nessuna legge per cui possano mai esserlo.

I due si arrabattano, il padre diventa il tuttofare del quartiere, la madre è un po’ domestica un po’ donna delle pulizie, i fratelli andranno a vendere merce contraffatta nei pressi dell’acropoli affollata di turisti. E poi c’è il basket, una cosa che in Grecia è trattata con rispetto, non solo dalle parti dell’olympiakos e del Panathinaikos, storicamente tra le due più forti squadre del Vecchio continente.

NEGLI ANNI 90 quei due lungagnoni di Thanasis e Giannis li trovi al campetto del Tritonas, a Sepolia, fino a tardi. Poi vanno a chiedere un bicchiere d’acqua al Kivotos Café. “Ogni volta, Yannis allunga ai ragazzi anche qualcosa da mangiare”. Sono altissimi e magrissimi. Quando Giannis farà le visite mediche a Milwaukee gli scoprono “un fegato provato dalla denutrizione, più vecchio dei suoi 18 anni”.

I due fratelli trovano una squadra in cui giocare. È il Filathlitikos, prima del loro arrivo mai salita oltre la terza serie greca. Filothei è un quartiere ricco, a nord della città. I due fratelli arrivano agli allenamenti a piedi da Sepolia e se fanno tardi dormono sui materassoni in palestra (non conviene se sei grosso e nero avviarti di notte al buio per quartieri in cui l’estrema destra di Alba Dorata inizia a far proseliti). A 16 anni questo 2 metri e spicci (diverranno 2,11 alla fine dello sviluppo), con leve lunghe e una falcata che taglia il campo in pochi passi, prende botte sotto canestro nella seconda serie greca. È un giocatore “nuovo”, uno di quelli nati col mito dell’nba, di un irregolare come Allen Iverson, una guardia che si butta dentro il pitturato col suo metro e 83 e ne esce con un canestro, un assist, un fallo, un’invenzione. Solo che Giannis è grosso, e i grossi nel basket degli anni 90 sono centri, vanno sotto canestro a usare gomiti e ginocchia. E nella seconda serie greca ci sono grossi gomiti e grossi volumi da fronteggiare. Insomma, a vederlo anche così “secco” nei video dell’epoca, si capisce che è fatto per l’nba. Nessun “lungo” di quell’epoca prenderebbe mai un rimbalzo in difesa per correre veloce palleggiando fino a schiacciare nel canestro avversario.

Come immaginerete la storia finisce, disneyanamente, bene. Giannis vince il titolo Nba con i Bucks nel 2020-2021 (è Mvp – il miglior giocatore – della serie finale) e nei due anni precedenti è Mvp della stagione regolare. Ma per arrivare là, sull’olimpo, anche solo per poter lasciare la Grecia per gli Stati Uniti ha bisogno di un documento. Ha bisogno che la Grecia, dove è nato, gli riconosca la cittadinanza. La federazione di pallacanestro preme, ma il primo ministro Antonis Samaras resiste. In una nazione in cui l’immigrazione è diventata scontro politico, perché dare la cittadinanza a questo “nigeriano” nato in Grecia? Il risultato è un accrocco: il 9 maggio 2013, Giannis e suo fratello Thanasis ricevono una “esenzione speciale” governativa. Solo loro due. Nasce ufficialmente il cognome Antetokounmpo.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...