Nonostante l’allarme per i suicidi, nelle classi di tutta Italia aumenta l’intolleranza, tra pestaggi e bullismo. Nelle grandi città si concentrano le storie più tragiche, di emarginazione e violenza. Ma le istituzioni non intervengono
Scritta omofoba all'ingresso del Liceo ''Scotti/Einstein'' di Ischia"Se sei frocio, non venire a scuola… vai a battere!”. Così, inciso col gessetto bianco sulla lavagna, mentre in classe se la ridevano dietro i libri alzati sui banchi. Succede in Italia, nel 2014, quello che l’Arcigay ha definito “annus horribilis” dell’omofobia, ma che sulle cronache e nel dibattito politico è stato un anno qualunque. Quella scritta contro un ragazzino è stata cancellata pochi minuti dopo da un professore. Ma il caso è rimasto confinato nei corridoi dell’istituto tecnico lombardo, senza trapelare. «Mi raccomando», ha detto il preside, «la cosa finisce qui». Non per Marco, però, 15 anni ad agosto, che ha raccolto libri e quaderni, si è rimesso lo zainetto in spalla e se ne è andato via. Ora se le trova scolpite nella mente, quelle parole, proprio come sono incise sul porfido davanti
all’istituto Galileo Ferraris di Roma gli insulti a un altro gay: “Frocio”, hanno dipinto in strada pochi giorni fa, seguito dal cognome del ragazzo. E non basta certo una spugna per lavare un insulto, quando arriva dritto dai coetanei, dal suo stesso, piccolo mondo di amici che, all’improvviso, sono diventati i suoi aggressori. Quelli con cui fino a poche settimane fa giocava a pallone o alla play station, quelli che lo facevano ridere e all’improvviso si divertono a vederlo piangere: «Io amo la vita», racconta Marco a “l’Espresso”, «ma da quel giorno non faccio altro che ripensare a quelli che si sono uccisi, gettandosi nel vuoto». Un vuoto interiore, un vuoto che la scuola italiana fa fatica a colmare. Perché nelle nostre classi l’omofobia è una piaga che nessuno cura. La violenza più nascosta e insidiosa. Un allarme inascoltato che sale dai banchi, forte quanto i calcinacci che cadono dai tetti, le aule diroccate, gli impianti che non funzionano.
Un allarme ignorato dalle istituzioni, censurato dai genitori e spesso anche dagli insegnanti . E così, anno dopo anno, sono sempre di più i casi che emergono grazie a Facebook. Gay giovanissimi che, alla faccia del silenzio dei grandi, sfilano al Pride, a partire da quello di sabato 7 giugno a Roma, per far sentire la propria voce. Sono studenti delle superiori, vittime di insulti e violenze, in marcia fianco a fianco ai loro coetanei che, già a 14 o 15 anni, hanno fatto invece il “coming out”. Una nuova generazione di omosessuali e lesbiche che vive più apertamente. E, nel farlo, finisce per scoperchiare l’omofobia rimasta sotto il muro dell’omertà.
SENZA UNA RETE
Basta un dato: in Italia non esiste una statistica dei casi di discriminazione nelle scuole. Ognuno fa da sé. Da una parte c’è l’Unar, l’ufficio contro le discriminazioni di Palazzo Chigi, dall’altra l’Arcigay che ogni anno raccoglie un report sull’omofobia, fino al Gay Center di Roma che ha attivato un telefono amico. Così, mentre l’Istat, nell’ultimo report sui gay maltrattati, ha interpellato solo maggiorenni, lasciando nell’ombra ciò che avviene a scuola, proprio dalla capitale giunge un segnale allarmante: soltanto nell’ultimo anno sono più di duemila i minorenni che hanno chiesto aiuto alla Gay Help Line. Di questi quasi il 50 per cento aveva meno di 16 anni. Se si aggiunge la fascia d’età che va da 18 a 21 anni, si sale a quota 5 mila. Sono decine di ragazzi ogni mese. Insultati, picchiati, mobbizzati in quegli istituti che dovrebbero dare loro un’istruzione. C’è Andrea che s’è trovato i libri imbrattati di frasi oscene. C’è Fabrizio che si è stancato dei cori omofobi dei bulletti della scuola, che gli gridano “frocio” alla fermata dell’autobus. E ancora Giorgio, bersagliato dalle continue insinuazioni di un insegnante.
Poi c’è Giuseppe, 14 anni appena compiuti. A scuola l’hanno sempre preso di mira, «per via delle mie movenze», racconta. «Sono effeminato e per loro è più facile colpirmi». Solo che un giorno le parole sono diventate violenza fisica, nei corridoi di scuola. «Prima venivo solo emarginato, poi un giorno mi hanno seguito. Io gli ho gridato di lasciarmi in pace, ma loro volevano darmi una lezione, fare i bulli». Così l’hanno bloccato e picchiato, lasciandogli pure i lividi sul collo e sulla schiena. «Non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno, tanto meno ai miei genitori. Ho detto di essere caduto dalla bicicletta, ma non è così… Non è per questo che ero ferito. Sto pensando di scappare di casa e di lasciare la scuola», si sfoga.
DOPPIO TABÙ
Eppure nessuno parla mai di loro. Nessuno vuole sentire quella parola, omosessualità, dentro le mura di una scuola. È un doppio tabù: l’istituzione pubblica e l’età troppo bassa. Basti pensare che a Piacenza, solo poche settimane fa, il dirigente dell’ufficio scolastico provinciale ha inviato a tutti i dirigenti degli istituti superiori una circolare di tono medievale. Poche righe che vietano la distribuzione agli studenti delle classi quinte di un questionario conoscitivo sull’omosessualità. “Si ritiene opportuno non distribuirlo”, ha scritto il dirigente pubblico in una nota, costringendo i presidi a obbedire. Poche parole, in burocratese, per non sporcarsi le mani, per non esporsi alle critiche. E intanto Mauro, 16 anni, si era buttato dalla finestra della scuola a Roma. E poche settimane prima un altro ragazzo, 14 anni, si era tolto la vita lanciandosi nel vuoto dal balcone di casa. E un altro ancora a ottobre. La ragione? Sempre la stessa. Quei silenzi dei grandi che coprono gli insulti dei più piccoli. Quel mondo che non sembra dare loro una speranza, né fra i coetanei né fra i cosiddetti educatori.
Pasquale è un giovane volontario del Gay Center. E passa parecchie ore alla settimana a rispondere alla Help Line. È uno di quelli che ascoltano, cercano di dare un consiglio alle vittime dell’omofobia. Uno di quelli che compilano le statistiche e che, dopo due anni di lavoro quotidiano, si stupisce ancora quando si rende conto che al telefono c’è un ragazzo di 13 o 14 anni. «Sono quasi il 3 per cento delle chiamate», spiega. «Una percentuale altissima, se si pensa che a quell’età la paura è spesso più forte della voglia di reagire. Molti non hanno il coraggio di dire il proprio nome, altri fingono di chiamare per conto di un amico, oppure mentono sulla propria identità, sulla scuola che frequentano, anche sulla città in cui vivono». Già, perché le storie non riguardano solo i piccoli centri sperduti nella campagna italiana, o le periferie estreme delle metropoli. Proprio nelle grandi città, Roma e Milano in testa, dove l’attenzione dovrebbe essere più alta, si concentrano invece gli episodi e le storie più tragiche: «È vero che nelle città c’è meno omertà e, statisticamente, ci sono meno paure a denunciare», spiegano al Gay Center, «ma è vero che la casistica ci dice che il fenomeno è radicato e diffuso e che c’è un maggiore senso di protezione, di impunità». Sono centinaia di storie. Storie di emarginazione e violenza che il più delle volte passano sotto silenzio: «È difficile per questi ragazzi reagire, perché spesso i genitori non sanno della loro omosessualità e quindi si ritrovano ancora più soli. Sono costretti a subire le violenze, perché non hanno il coraggio di denunciarle, per paura che la famiglia diventi un ulteriore incubo quotidiano da affrontare», racconta il volontario del telefono amico.
PORTA A PORTA
E così, per far fronte a quella che sta diventando una vera e propria emergenza giovanile, mascherata dall’ipocrisia delle istituzioni, a Roma è stato il GayCenter a mettere in piedi una prima rete di azione. Una rete di scuole, costruita con il porta a porta, parlando con insegnanti e dirigenti, cercando attenzione, collaborazione. E incassando l’appoggio della Regione Lazio: «Abbiamo coinvolto circa trenta scuole e alcune migliaia di studenti di Roma e del Lazio in un progetto di sensibilizzazione», spiega il presidente del Gay Center, Fabrizio Marrazzo: «Abbiamo organizzato dei laboratori formativi, coordinati da insegnanti e da esperti, e oltre 500 studenti hanno realizzati 16 video per dire no a omofobia, bullismo e discriminazioni nelle scuole italiane. Eppure, sempre più spesso, anche nelle istituzioni c’è chi polemizza con questi progetti contro la violenza, incuranti del dato statistico che dimostra come la scuola sia uno dei luoghi in cui si percepisce di più il bullismo omofobico». E così alla Moscati, una scuola media, i ragazzi hanno raccontato “Stop Bulling”, invitando nel loro cortometraggio una coppia di ragazze lesbiche a fare coming out. All’Itis Armellini, invece, gli studenti hanno prodotto “The Talking Wall”, spronando tutti gli studenti romani a cancellare le scritte omofobe sui muri delle scuole e della città. E ancora al Socrate raccontano in “Come Morgan Freeman” una scuola ideale, dove i diritti dei gay diventano materia di studio come la matematica e il greco. Un successo, al punto che il governatore laziale Nicola Zingaretti ha annunciato proprio due giorni fa l’istituzione «del più grande piano nazionale contro l’omofobia nelle scuole», partendo proprio dall’iniziativa del Gay Center.
IL PROF MINACCIATO
Ma c’è anche un rovescio della medaglia: le discriminazioni dietro la cattedra. Già, nemmeno essere gay e insegnante, nell’Italia del 2014, è facile o a lieto fine come nei film americani alla “In&Out”. Lo sa bene un prof di una media nel Lazio, che chiede l’anonimato: «In classe non ho mai fatto cenno alla mia omosessualità, ma quando alcuni studenti hanno scoperto che ero gay, da Facebook, per me è cominciato l’inferno», racconta. Scritte sulla lavagna, insulti, cori in classe, fino a episodi di bullismo come quando si trovò chiuso a chiave in uno sgabuzzino, senza possibilità di uscire né di comunicare con l’esterno: «Da te non ci facciamo insegnare nulla, frocio!», gridavano in classe. In più, a dar man forte ai bulli anti-gay anche un gruppo di genitori, schierati in difesa dei figli anche di fronte a comportamenti violenti. E di casi del genere ce ne sono molti, anche se le cronache non ne parlano: «Denunciare pubblicamente questi casi rischia di compromettere la carriera del docente, soprattutto se è a contratto. Si rischia il posto, si rischia l’isolamento. E anche quando gli altri docenti sanno che sei tu la vittima, ti consigliano un basso profilo, ti suggeriscono di tacere, di non alzare polveroni», si sfoga l’insegnante.
Un allarme nazionale che deve trovare una risposta immediata, è l’appello del presidente di Arcigay, Flavio Romani, proprio perché l’omofobia a scuola è un arma a doppio taglio. «Colpisce i più giovani, quindi i più deboli, e al tempo stesso non garantisce che proprio dai banchi parta l’educazione degli italiani di domani alla diversità», spiga Romani: «È proprio sulla scuola che si deve intervenire subito, perché solo partendo da qui si può immaginare di portare una conoscenza corretta di che cosa siano i gay, le lesbiche e i trans, formando futuri adulti che abbiano in sé l’antidoto al veleno dell’omofobia».
Eppure è difficile agire negli istituti. Ci sono freni, ostacoli, dighe culturali che impediscono di agire nelle classi: «Un’azione seria e capillare contro l’omofobia e la discriminazione a scuola viene bloccata scientemente da chi pensa che la scuola sia un proprio terreno esclusivo», continua il presidente di Arcigay. «In Italia ci sono ancora forze clericali che impediscono di avviare progetti negli istituti scolastici, perché considerano la scuola cosa loro. Non è così, invece, la scuola è di tutti. E l’Arcigay continuerà a estendere nelle classi il proprio lavoro di volontariato, pur con molta fatica e poco ascolto da parte della politica. Talmente poco che, da qualche anno, ci siamo resi conto che sono proprio i ragazzi più giovani, quelli che trovano il coraggio di mostrare la faccia, a cambiare le cose».
AUTODIFESA
Sì, perché esiste un’Italia dei più piccoli, che si difende da sola contro le discriminazioni e contro il silenzio degli adulti e delle istituzioni. Tanto che si moltiplicano i volontari minorenni che chiedono di poter avere parte attiva nei progetti contro l’omofobia. Così come sempre più giovanissimi raccontano i propri amori ai compagni di classe, cercano di cambiare quella scuola italiana, che insorge per la lettura di alcune pagine di “Sei come sei” di Melania Mazzucco, ma poi non ha strumenti per punire i bulli che frequentano quelli stessi corridoi, che imbrattano i muri dei licei, che picchiano o insultano il “frocio”. È la storia di Francesco, 16 anni, studente di una scuola alberghiera. Frequenta il terzo anno, non l’ha detto a mamma e papà, ma fuori casa vive apertamente la propria sessualità, partendo proprio dalla sua classe: «Ho detto semplicemente: sono così e non devo renderne conto a nessuno», racconta. «Da quel momento non ho mai sofferto vere discriminazioni a scuola, non seriamente almeno. Nessuno mi ha mai detto “muori frocio!” o “finocchio al rogo”, né ho subito violenze fisiche. Anche se sono consapevole dei sorrisetti e delle frasette che qualcuno mi butta dietro le spalle».
Poi c’è Nicolas, 17 anni: «Ho fatto coming out un anno fa. Lo dissi a mia madre e lei la prese bene. Io non ho conosciuto l’omofobia sulla mia pelle, il mio liceo è il Cavour, lo stesso dove un ragazzo si è suicidato pochi mesi fa, quello passato alle cronache come “Il ragazzo con i pantaloni rosa”, ma io non ho mai avuto problemi». Di quel drammatico episodio non si parla più nei corridoi, e nemmeno in classe: «Molta gente è stata male dopo questa tragedia, professori e alunni, e la storia è finita un po’ in sordina». Una delle tante tragedie di cui si parla troppo poco. Una delle tante ferite dell’omofobia che, passata l’emozione del momento, si preferisce dimenticare. Fino alla prossima vittima.
ha collaborato Simone Alliva
la seconda invece è tratta da l'unione sarda del 6\VI\2014