Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».
Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».
In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».