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2.7.18

mi sa che siamo ritornando ancora di più ai tempi di nanneddu meu

IL  post  d'oggi  , soprattutto per  noi  sardi  o   sardi  d'oltre mare  o  sardi acquisiti     dovrebbe  è sintgetizzabile  ed  posso   se   vogliono  evitarlo  d  leggello   .  da   questa  poesia    po trasformata  in canzone     tradizionale  rappresentata    qui in due  versioni  una classica 


 ed  una   moderna 



   che  con il testo qui  la  traduzione    descrive benissimo   la  situazione    non  solo  della mia isola  ma   della  nostra  amata  \  odiata    italia 


Nanneddu meu su mundu est gai,
a sicut erat non torrat mai.

infamidades e carestias;
Semus in tempos de tirannias,
gridende forte "cherimus pane".
commo sos populos cascan che canes

Famidos nois semus pappande
terra ch'a fangu, torrat su poveru
pane e castanza, terra cun lande;
senz'alimentu, senza ricoveru.
Semus sididos, issa funtana
Cussas banderas numeru trinta
de binu bonu mudana tinta;
appena mortas cussas banderas
non pius s'osservan imbriagheras.
e tantu l'ides: su mundu est gai
pretende s'abba parimus ranas.
Abbocaeddos, laureados,
buzzacas boidas e ispiantados.

Adiosu Nanni, tenet'a contu,
a sicut erat non torrat mai.
fache su surdu, ghettad'a tontu;






Infatti vedendo la mostrta , organizzata da L'ISRE – Istituto Superiore Regionale Etnografico 
e la casa editrice Ilisso ,Max Leopold Wagner – Fotografie della Sardegna di un linguista antropologo
Nuoro, Museo del Costume, 25 maggio-30 settembre 2018 orari: 10.00-13.00 / 15.00-20.00 (lunedì chiuso) ne ho tratto questa considerazione : Se siamo quello che siamo lo dobbiamo a loro . Cultura che stiamo perdendo o rendendola a folkore . c Pensiero che spiega benissimo il perchè della scelta di tale canzone . 

Consiglio vivamente  di vedere sia il museo anropologico di Nuro sia la mostra In essa si descrive La Sardegna in ottanta scatti, o meglio, in ottanta “punti”: ottanta fotografie che vanno oltre gli elementi oggettivi che le compongono per fissare alcune tra le più emblematiche immagini del mondo agro-pastorale sardo. E fanno emergere aspetti emotivi dolorosi come ferite. 
E’ l’Isola (che non c’è più ) vista dall’occhio di Max Leopold Wagner, “il padre della linguistica sarda”, nato a Monaco di Baviera nel 1880 e morto a Washington nel 1962,
L’esposizione – operazione voluta e patrocinata dall’Isre (Istituto Superiore Regionale Etnografico) e dalla casa editrice Ilisso - è un omaggio all’incommensurabile amore, fermamente ricambiato, di Max Leopold Wagner per la Sardegna. L’antropologo linguista con la sua opera non solo portò alla luce gli aspetti più importanti dell'idioma isolano, dalla fonetica alla morfologia, dalla formazione delle parole al lessico: ma ne ritrasse alcuni momenti irripetibili, in un gioco di rimandi che è insieme assenza nella presenza. 
Da queste fotografie emerge un invisibile, che ci guarda e agisce sulla nostra memoria. Infatti secondo la presentazione fatta dal'Isre sardegna [---] La sua tipologia di approccio fotografico è di natura documentale: immergersi il più a lungo possibile nel sociale più primitivo, fra la gente che non avesse «un certo grado d’istruzione», intercettando nel linguaggio la «struttura sintattica della frase», sentendo con essa il pensiero, arrivando quindi in profondità ai caratteri coi quali entrava in contatto. Dunque Wagner non si fa solo mero compilatore di «una lista di parole»: vuole conoscere a fondo e dall’interno la cultura che sta esaminando. 
La sua ricerca fotografica va per gradi, attraverso un climax costante: il primo livello è quello dello spectrum: il villaggio viene fotografato da lontano, nel suo insieme, immerso nel suo paesaggio; successivamente l’immagine si ravvicinava sempre più, entrava nelle vie, nelle strade. Cerca, passo più difficile, di varcare la soglia delle abitazioni, posandosi infine sulle cose e sugli uomini. [---] Ciò che si nota vedendo leìle quattro sale della mostra ( possibilmnete unite ad un a visita del resto del museo )

 
è un atmosfera magia: un ritratto corale, d’insieme e particolareggiato nello stesso istante: un’istantanea storica del sociale più primitivo, dalla cui profondità emerge l’anima e il pensiero dell’Isola dei primi anni del secolo scorso , ormai distrutta o quasi dall'impetuoso sviluppo della modernità ( la costa smeralda e le industrie di rapina diventate poi cattedrali nel deserto ) . 


Wagner visitò numerose località della Sardegna, per molte delle quali non ci sono rimaste documentazioni fotografiche. Questa mostra - come si evince dagli scritti - mostra la sua predilezione per i villaggi rurali piuttosto che per le città, le cui dinamiche, condizionate da sempre dalla maggiore frequenza degli scambi con l’esterno, sono state di minore interesse per i suoi studi da antropologo. 
Il tedesco - che usò una camera 9 x 12 con cavalletto - non era certo un maestro della fotografia: le sue immagini risultano spesso sfocate, difformi per qualità se guardate nell’intero corpus. La connotazione tecnico formale in Wagner non è scevra se vogliamo da una certa trascuratezza o imperizia tecnica, cui sono da imputare i numerosi difetti delle immagini, sovra e sottoesposizioni, mossi, impronte digitali sulle emulsioni, graffi e abrasioni dei negativi, non sempre dovuti a una corretta conservazione. Ma nonostante ciò c’è una profondità diversa, nelle sue immagini: che non è la classica profondità del campo. E profondità dell’anima dell’autore che fa emergere, nitida e abbagliante, quella più autentica e più profonda di una Sardegna ormai perdutao strandardizzata ad uso del turismo di massa .
                               


 N.b        le  foto sono mie






 

15.9.17

spesso anche le questioni di lana caprina posso no essere interessanti .Si dice Costume Sardo o Abito tradizionale?



stavo cercando su http://www.ladonnasarda.it/home.html uno stralcio sulla vicenda riportata solo in cartaceo o a pagamento online del secondo quotidiano dell'isola l'unione sarda di Daniela Morgan ( suo account fb ) ragazza inglese che ha studiato un anno in sardegna e poi ha fatto la tesi di laurea sull'indipendentismo sardo ma ho trovato quest'altro articolo interessante sulla Sardegna  sempre dallo  stesso sito




Si dice Costume Sardo o Abito tradizionale?
 


di Ilaria Muggianu Scano | 1 giugno 2017






A partire dalla processione di Sant' Efisio a Cagliari,passando per la Cavalcata sarda di Sassari, fino alla manifestazione religiosa del Redentore di Nuoro, buona parte dell'anno in Sardegna si vivifica la frizzante diatriba sul nome del ricco complesso vestimentario tradizionale che rende l'isola famosa nel mondo. Dunque qual é la dicitura corretta da usare: "Costume" o "Abito tradizionale"?





Certamente non sono da considerarsi sinonimi. Non esiste giornalista sardo infatti che, impiegando l'una o l'altra definizione, non abbia dovuto rendere ragione della propria scelta. Analoga situazione si verifica in una conversazione su forum d'argomento folclorico, o una discussione sulle "piazze" social, o ancora più semplicemente durante una chiacchierata tra amici al bar.
Il termine 'costume', che oggi risulta essere improprio, serve però ancora a individuare diffusamente la cultura vestimentaria femminile della Sardegna che rivestiva un significativo ruolo comunicativo, tanto da trasmettere a colpo d'occhio tante informazioni sulla donna che lo indossava. In altre parole, seppure il termine non è ritenuto corretto da parte di alcuni studiosi della materia esso non è un termine ambiguo e nel parlare di costume sardo c'è chi non trova alcunché di incomprensibile.









Tanti gli antropologi che negli ultimi anni si sono confrontati con la curiosa questione che somiglia, per certi versi, alla quadratura del cerchio. Impossibile citarne solo alcuni perché se ne scontenterebbero altri, ma certamente chi se n'è occupata con rilevante continuità è stata la studiosa Gerolama Carta Mantiglia.
Il mare, ritardante sugli effetti della modernità, ha funto d'altra parte da conservante di quei tratti caratteristici che, dall'abbigliamento alla lingua, sono divenuti essenziali e riconoscibili elementi identitari, unificatori di un popolo. Con uno sguardo si poteva accedere ad indiscrezioni sull'età, la provenienza, lo status sociale e persino la professione di chi lo portava.
Ragazza in abiti signorili. Inizi '900 Si distinguevano, inoltre, gli abiti per le giornate di festa e quelli giornalieri, le varianti per le donne sposate, per le ragazze nubili e per le vedove. Nei piccoli borghi indossare l'abito tradizionale è un'abitudine ancora sedimentata nel vivere quotidiano, in altri è una pratica che viene svolta in occasione di commemorazioni e funzioni religiose, per la festa del patrono o semplicemente la messa domenicale.
Ma quando è avvenuto il passaggio dall'abbigliamento tradizionale a quello moderno per la donna? Gran parte degli studiosi di demo-etnoantropologia popolare sarda è concorde nel ritenere che nel passaggio all'epoca industriale - sebbene il processo di snaturamento della cultura regionale fosse iniziato in epoca unitaria - il popolo sardo abbia preso a vivere complessi d'inferiorità nei confronti della propria lingua e del proprio abito, che possiamo complessivamente definire costume nel senso di insieme di abitudini, di "costumanze".
Il sardo ha assunto un atteggiamento svalutativo tanto da «proiettare gli aspetti deleteri attribuiti a chi lo parla (ignoranza, povertà nei mezzi di istruzione e arrettratezza)» come dichiara lo studioso di Cultura sarda Giovanni Mura. Per ciò che riguarda strettamente l'abbigliamento, eloquente, più di ogni saggio, sono invece le celebri tavole di Tarquinio Sini, brillante caricaturista sassarese, morto sotto gli ordigni bellici del '43.





Cartolina anni '30 - tempera Tarquinio Sini




Soggetti prediletti di Sini sono le fanciulle desulesi che, avvolte nello sfavillante abito del paese, osservano le licenziose e civettuole signore del Continente in abiti moderni, con tanta curiosità e forse un po'di invidia. Inizia per queste giovani un lento innesto alla realtà che scorre fuori da casa e sagrato del centri rurali. Sini seppe interpretare con una carica di sottile umorismo il fenomeno di "sprovincializzazione" con la serie di celeberrime tempere "Contrasti", in cui registrò argutamente gli umori di questa transizione culturale, non senza venarla di una ironica polemica che restituisce l'idea di ciò che comportò psicologicamente un passaggio alla modernità che fu tutt'altro che un automatismo.
Nel progressivo passaggio al comfort dell'abito "civile", soprattutto la donna rinunciò al bagaglio simbolico, e ancor più materiale, intrinseco al vestiario sardo. In che senso precisamente? Le vesti e i gioielli passavano da una generazione all'altra e costituivano parte non secondaria della dote. Erano ritenuti un bene di rifugio e un investimento. Infatti non è trascurabile «l'aspetto economico del gioiello, il quale può quasi essere considerato come una forma di tesaurizzazione al riparo da qualsiasi evenienza imprevista. Il gioiello può essere utilizzato in qualsiasi momento come moneta di scambio», dichiara Vittorio Angius. Dunque la scelta della mimetizzazione nella società civile riesce ad avere la meglio sulla ricchezza identitaria, perché questo richiedono i tempi, soprattutto alla donna.








Il discorso è assai articolato e più complesso di un semplicistico riferimento ad un avvicendarsi di mode e costumi. La vera rivoluzione nel vestiario concerne per lo più le classi popolari perché la moda dei ranghi superiori ebbe una contaminazione costante nel tempo e l'abito femminile si teneva di pari passo alle mode "continentaleggianti".Certo è che il diffuso sentimento regionalista, di gusto poeticamente identitarista, si affievolì nel momento in cui molte fanciulle dai piccoli centri rurali si trasferirono nelle città in cerca di lavoro e dovettero adeguarsi alle mode urbane, non tanto per civetteria quanto per adeguarsi ed ambientarsi al vivere cittadino. La complessità della riflessione prende le mosse anche dal periodo storico in cui la transizione della cultura vestimentaria femminile sarda si verifica, tra ansia di modernità e rispetto della tradizione. La cultura sarda è sottoposta alla competizione di due forze politiche contrarie.






Entroterra barbaricino anni '80




Siamo nel pieno del Ventennio fascista che incoraggia le antiche pratiche rurali, esasperando la difesa dei caratteri rustici del folklore, dall'altro lato la spinta modernista della borghesia emancipazionista ispirata alle conquiste di una forte industrializzazione d'ispirazione cittadina che dall'ambito socio economico non tarderà a rifletteri sul campo culturale. L'abbandono dell'abito tradizionale non fu, insomma, una scelta compiuta in silenziosa solitudine ma una presa di posizione densa di significato, sia per quante decisero di abbandonare il "costume" sia per coloro che, con garbata festosità, ancora colorano le strade dei paesi sardi con la loro scelta di tenerlo.
L'imponente percorso di ricerca del sociologo Luigi Lorenzetti "Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee del XIX-XX secolo" evidenzia che nei centri dell'entroterra sardo il lavoro extra domestico fosse inteso dalle donne come umiliante, indicava una condizione di necessità che gli uomini non erano stati in grado di onorare.
"L'aspirazione delle donne non era quella di lavorare fuori casa ma al più di lavorare per la propria famiglia-azienda. Era soprattutto questa condizione ad essere ritenuta un privilegio dalle donne, ed a questa esse miravano".
Non è del tutto esatto, dunque, estendere il cambiamento della moda vestiaria all'idea di una rivendicazione femminista. O per lo meno non fu solo questo.




Donne in abito tradizionale e compaesana in abiti moderni. Fine anni '50



La riflessione che ha originato il nostro ragionamento, il secolare utilizzo del termine "costume", muove proprio dal passaggio progressivo, ma non sempre graduale, all'abito moderno. Ciò che era abito quotidiano viene riposto nel guardaroba, senza nostalgia, con il nome di costume, di artificio mascherativo, a cui attribuire una funzione folcloristica e, via via turisticizzata, solo durante le occasioni festive.
Gerolama Carta Mantiglia sul tema non scende a compromessi: «È il caso di spendere qualche parola a proposito dell'uso che si continua a fare (e che non si dovrebbe fare) della parola costume e dell'uso che non si fa (e che invece si dovrebbe fare) dei termini vestiario e abbigliamento popolare».
Per l'antropologa il vocabolo 'costume' ha una valenza negativa legata all'auto concezione di cultura sarda come subalterna. A questa concezione la studiosa attribuisce la preservazione del solo abito della festa, quello sfarzoso, in virtù della gioielleria annessa, e allo stesso tempo, imperdonabilmente, nessuna cura verso il vestito quotidiano considerato retaggio di lavoro e umiltà, da cui il termine asettico e distaccato di costume.
Solo in tempi recenti, nel clima di un rinato rigore identitario è ripresa con un certo rimpianto l'affannosa ricerca sulle origini dei vari tipi di vestiario e con essa un rifiuto categorico da parte degli studiosi del termine "costume" considerato dispreggiativo di una realtà tutt'altro che caricaturale o riconducibile a situazioni lontanamente carnascialesche. La conclusione del pensiero antropologico in materia di cultura popolare é pressoché concorde nell'ammettere che il nuovo vigore della ricerca non sia un nostalgico archeologismo ma l'esigenza di una funzione aggregativa ricca dei valori della tradizione indispensabili al futuro del popolo sardo.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...