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3.9.21

Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

   corriere  dela sera  ed  Bologna  3 settembre 2021 (modifica il 3 settembre 2021 | 15:33)

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Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

Il Centro Protesi Inail a Vigorso di Budrio è dietro alle vittorie di tanti atleti italiani, da Zanardi a Bebe Vio. Gregorio Teti (Area tecnica): «Noi facciamo lo 0,5% del lavoro»

La lavorazione di una protesi
La lavorazione di una protesi

L’ultima in ordine di tempo è quella di Martina Caironi, bergamasca di nascita e bolognese d’adozione che ha vinto l’argento nel salto in lungo, ma nell’infinito bottino di medaglie alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 – superato il record di Seul1988 – c’è lo zampino di un’eccellenza tutta bolognese come il Centro Protesi Inail che ha sede a Vigorso di Budrio. Da lì sono passati tutti i grandi nomi dello sport paralimpico italiano: da Alex Zanardi a Bebe Vio, fino appunto a Martina Caironi. E in questi giorni a Tokyo c’era anche Gregorio Teti, direttore dell’area tecnica del Centro di Vigorso, che era sul campo per seguire nove dei 113 atleti della spedizione in Giappone.

Gregorio Teti
Gregorio Teti

Direttore Teti, la spedizione azzurra alle Paralimpiadi sta andando alla grande. Quanto c’è del vostro lavoro in questi successi?
«Innanzitutto c’è grande gioia: in questi anni si è costituita una sorta di famiglia molto allargata con diverse atlete, tra cui Martina Caironi, Monica Contrafatto, Ambra Sabatini e Veronica Plebani, bronzo nel triathlon. É vero che noi mettiamo la competenza tecnica nella costruzione dei dispositivi protesici, ma senza i giusti feedback da parte degli atleti non avremmo il materiale su cui fare analisi e studi per migliorare le performance dell’atleta stesso. É un grosso lavoro d’equipe, ma nei risultati lo 0,5% viene da noi e il 99,5% dagli atleti: è come in Formula 1, a parità di mezzo tecnico vale la qualità del pilota».

Il lavoro che fate con gli atleti migliora anche le protesi dei vostri pazienti?
«Assolutamente. Non tanti sanno che l’atleta è l’attore principale del team non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il lavoro sulla protesi: ci dà le sue sensazioni, i feedback sull’arto e poi sta a noi mettere in campo le varie soluzioni e le tecniche progettistiche che, tramite filmati e analisi, ci consentono di verificare il miglioramento atteso. É proprio la sensibilità dell’atleta che, insieme al lavoro di allenatore e preparatore, ci dà le strade giuste per migliorare il dispositivo tecnico: lo sviluppo del prototipo per un atleta agonista si riversa successivamente sui cicli di produzione per i\ dispositivi di normale uso quotidiano e va appannaggio di tutti gli assistiti che accedono al nostro centro protesi, che siano pazienti Inail o invalidi civili».

In questi giorni era a Tokyo, che lavoro fate «sul campo»?
«Siamo intervenuti domenica scorsa sul dispositivo di Ambra Sabatini e martedì proprio su quello di Martina Caironi con cui ha gareggiato e vinto l’argento nel salto in lungo. Siamo a completa disposizione degli atleti: li seguiamo sia sui campi di allenamento sia su quelli di gara. Come Inail abbiamo un accordo quadro di stretta collaborazione con il Cip, il Comitato Paralimpico, che impegna entrambe le parti a rispettare determinate norme per supportare gli atleti e collaborare con le varie istituzioni. Come istituto statale non abbiamo finalità di lucro e la nostra opera tocca sia la prevenzione che la ricerca: la nostra anima tecnica consente sia l’attività di ricerca sia quella riabilitativa».

Gli atleti paralimpici sono esempi di forza di volontà, ma quanto sono stati d’ispirazione per chi ha avuto gravi menomazioni? A Vigorso qualcuno ha iniziato ad interessarsi allo sport paralimpico vedendo il lavoro che fate con gli atleti?
«Tutti gli atleti agonisti passano per una sorta di limbo, un approccio allo sport di tipo amatoriale: per chi ha subito un’amputazione o un grave trauma lo sport è rimettersi in gioco, è voglia di superarsi. Una sfida con se stesso e un’occasione di integrazione con gli altri. Chi accede al centro, una delle maggiori realtà a livello mondiale, vive quel mondo e vuole mettersi alla prova, testarsi nonostante la condizione di sfavore dovuta a un grave trauma: è una rivincita personale, per far vedere che al mondo si può andare oltre la disabilità. E il nostro obiettivo come Centro è ricostruire sempre il paziente anche a livello personale: non c’è solo il lavoro sull’arto ma è una presa in carico totale per supportarlo a livello psicotico, medico e fisioterapico grazie alla nostra equipe».

2.8.21

olimpiadi tokyo 2021 le storie parte III il bellissimo gesto di timberi ( medagia d'oro salto in alto ) ed altre storie


le puntate precedenti 


 Ho  scelto d'aprire  le storie   d'ogggi con quella  di Timberi  salto in alto    . perchè  oltre  ad essewre  una storia  di riscatto   è  anche  una  storia  di  solidarietà , di sportività    dato che  ha deciso    d'accettare    anzichè     avanti ad  oltranza per  cercare  un vincitore     e  continuare a saltare e spareggiare oppure chiudere lì la sfida.  ha  scelto    di  chiudere    la  sfida ,     per  non   togliere  all'avversario    la gioia della vittoria,  di  prendere   una medaglia   ad  exquo  . 

Ecco perché Tamberi e Barshim si sono scambiati sul podio le medaglie



Gianmarco Tamberi e Mutaz Essa Barshim hanno regalato agli appassionati di sport momenti indimenticabili, che resteranno nella storia delle Olimpiadi.


   


 Prima la scelta di condividere l’oro del salto in alto,  possibilità contemplata dal regolamento dell’atletica ma senza precedenti in una finale olimpica. Poi, al momento della premiazione, lo scambio delle medaglie con il marchigiano che la infila al collo del campione del mondo in carica qatarino e viceversa. I due sono grandi amici, un rapporto cementato anche dalla sofferenza comune: entrambi infatti si sono rotti il tendine d’Achille all’apice della carriera, hanno sofferto e sono tornati in cima al mondo proprio a Tokyo.






Sulle ali di Tamberi: "Ho ascoltato il cuore, stava per esplodere"
dal nostro inviato Fabio Tonacci








TOKYO - Semplicemente Gimbo. Niente più barba rasata a metà, basta capelli bianchi, addio i look della follia. Gimbo è cresciuto, è maturato. Con la sofferenza, con la fatica. Ha visto che cosa può crollare addosso a un sogno. Cinque anni fa ha scritto una promessa a se stesso sullo stivale di gesso che gli imprigionava il tendine d'Achille spezzato ed è venuto fino a Tokyo per mantenerla. "Era arrivato il momento di tirare fuori quello che sono". Lui è Gianmarco Tamberi, 29 anni di Civitanova Marche. Il più grande saltatore in alto della storia dell'atletica italiana. L'uomo che vola in cielo e atterra su una stupefacente medaglia d'oro. Semplicemente Gimbo.
"Non credevo che vincere l'Olimpiade fosse un'emozione così potente, mi sentivo esplodere il cuore", è la prima cosa che riesce a dire dopo la gara, quasi giustificandosi di quei venti minuti di esultanza tarantolata a saltellare sulla pista dell'Olympic Stadium di Tokyo. "Non mi volevano neanche far fare il giro... e come facevano a fermarmi?". Si è inginocchiato, si è gettato a terra, ha urlato, ha pianto, si è fatto il segno della croce. Steso sulla pedana che lo ha visto saltare 2 metri e 37 centimetri, non riusciva a respirare. Una mano sul cuore e l'altra sulla testa. Che poi è anche il modo migliore di raccontare la sua meravigliosa prova.
Testa e cuore. Mentalmente sempre presente, ha fatto sette salti perfetti, fino a quando l'asticella è stata alzata a 2,39, la misura che nessuno dei finalisti è riuscito a superare. Neanche Mutaz Barshim, l'atleta 30enne del Qatar che balza felice sul gradino più alto del podio insieme a Gimbo. I due si conoscono da tanto tempo, Barshim ha voluto Gianmarco anche al proprio matrimonio. Sono i vincitori ex aequo. Perché la storia del successo di Gimbo è prima di tutto la storia di amicizia profonda. Maturata sulle pedane di mezzo mondo, cementata dall'aver entrambi provato la rottura del tendine. Tamberi prima di Rio, Barshim subito dopo aver vinto in Brasile l'argento . Stessa  voglia di riscatto    come  Jury Chechi 
Dunque, la gara. Siamo al decimo salto e non si capisce cosa sta succedendo. I pochi spettatori si guardano smarriti. Chi ha vinto? Gimbo e Barshim hanno fallito entrambi, per tre volte, la misura 2.39. Il giudice olimpico si è avvicinato loro e ha bisbigliato: "Conoscete il regolamento? Sapete cosa succede ora?". Possono scegliere: continuare a saltare e spareggiare oppure chiudere lì la sfida. "Nessuno dei due voleva togliere all'altro la gioia della vittoria, solo io so cosa ho passato. E so cosa ha passato lui. Non ci siamo detti niente, abbiamo seguito il cuore". Gli amici, quando sono veri, non hanno bisogno di parole. Si capiscono con gli sguardi, con le emozioni. Va bene condividere l'oro, ci sarà tempo per stabilire chi è il numero uno. Anche se Tamberi non sembra avere dubbi. "È lui il miglior saltatore", dice mentre scherzando lo spintona, seduti su una panca prima della conferenza stampa dei medagliati. "Two is better than one", risponde Barshim. E vai con gli abbracci.
Gimbo raggiunge nell'Olimpo dei saltatori Sara Simeoni, l'unica azzurra prima di ieri a vincere medaglie ai Giochi (oro a Mosca nel 1980). Gimbo, che è figlio d'arte (il padre Marco è anche il suo allenatore), da piccolo voleva giocare a basket e suonava la batteria. Gli piaceva il rock. Invece salta e studia: si è iscritto al corso di Economia e management dell'Università Luiss di Roma. "Se questo oro me lo avessero raccontato cinque anni fa mi sarebbero venuti i brividi. Lo avessi conquistato a Rio, sarebbe stato diverso: oggi non ho vinto l'Olimpiade, ho fatto qualcosa di molto più grande, di immenso". Prima della finale, una telefonata con Chiara, la donna che sta per portare all'altare. "Era tesissima, mi ha detto: "Ho paura per te, spero che vada tutto bene". Tu goditi la gara, le ho detto. Al resto ci penso io. Lo sapevo che era una giornata magica, me lo sentivo". E magia è stata.
Quando è stato ufficializzato che Gianmarco Tamberi aveva vinto l'oro, Marcell Jacobs si avvicinava ai blocchi di partenza. Stavamo per assistere agli undici minuti che hanno rivoluzionato la storia dell'atletica leggera di casa nostra. "Gli ho urlato con tutta la forza che avevo in corpo, forse gli ho trasmesso anch'io un po' di forza per fare quell'incredibile tempo". Nella sera di Tokyo c'erano due campioni che si abbracciavano. Gli italiani che fecero l'impresa. Citius, altius. Più veloce, più in alto. È il motto dei Giochi olimpici. Da ieri è l'inizio di una favola azzurra.



Equitazione, una donna batte gli uomini: la tedesca Krajewski oro nel completo. Hoy bronzo a 62 anni

Julia Krajewski (ansa)


Prima volta al femminile nella storia olimpica della specialità. Argento al britannico Tom McEwen e bronzo all'eterno Andrew Hoy, 62 anni, alla sua ottava partecipazione. Susanna Bardone è diciottesima


Una donna su un trono finora occupato solo da uomini. Per la prima volta nella storia del Completo il gradino più alto del podio è al femminile: la tedesca Julia Krajewski in sella ad Amande de B'Neville, ha messo in fila il britannico Tom McEwen e l'eterno Andrew Hoy.
Hoy sul podio a 62 anni, 18/a Bardone
La trentaduenne tedesca era salita al comando della classifica provvisoria nella prova di qualifica con un percorso impeccabile che ha poi bissato con un secondo giro sugli errorabili macchiato solo dall'aggravio sul tempo. Argento a Tom McEwen che, insieme al suo Toledo, dopo aver conquistato l'oro a squadre ha saputo far meglio del più blasonato connazionale Oliver Towned, giunto poi quinto.
Applausi a scena aperta, invece, per Andrew Hoy che, a 62 anni e alla sua ottava partecipazione olimpica, è riuscito a salire sul gradino più basso del podio con Vassily de Lassos. Diciottesima l'italiana Susanna Bardone che, dopo essersi qualificata alla finale grazie a uno strepitoso percorso di qualificazione di salto ostacoli, ha commesso un errore nella seconda parte di gara



Hubbard, la prima transgender alle Olimpiadi eliminata ma felice: "Grazie Cio, lo sport è inclusione"


La neozelandese, 43 anni, esce subito di scena nella categoria +87 chili del sollevamento pesi. La sua medaglia è comunque la partecipazione: "E' stato stabilito che lo sport è per tutte le persone, inclusivo e accessibile"


TOKYO - Laurel Hubbard, la sollevatrice di pesi transgender di 43 anni, è stata subito eliminata: non è riuscita a completare nemmeno uno dei suoi primi tre esercizi nella categoria +87. Ma questo conta poco rispetto al messaggio di Laurel, prima transgender nella storia a partecipare a una Olimpiade. Alla fine il suo vero premio sono state le dichiarazioni di Richard Budgett, capo dello staff medico del Cio: "È una donna e competerà secondo le regole della sua federazione. Noi dobbiamo rendere onore al suo coraggio e alla sua tenacia che l'hanno portata a qualificarsi per i Giochi olimpici".
Troppa emozione, tre nulli
La neozelandese è stata eliminata in meno di mezz'ora, non riuscendo a concludere la prova di strappo con un'alzata valida: tre nulli alla fine. Sicuramente è stata tradita dall'emozione ed è crollata nel tentativo di rispondere alla dichiarazione dell’americana Robles (120 kg) e per restare in scia alla cinese Li Wenwen, partita addirittura da 130 kg e poi autrice, a quota 140 kg, del nuovo primato olimpico. Al suo ingresso in pedana, molti dei presenti, tecnici e non, hanno applaudito, ma alcune delle rivali non hanno nascosto la loro contrarietà alla partecipazione. "Rispetto lei - ha dichiarato la belga Anna Vanbellinghen - ma ribadisco la mia posizione: è un brutto scherzo".
"Grazie al Giappone e al Cio"
A fine gara, prima di uscire dalla sala, Laurel si è congedata mettendo la mano destra sul cuore in segno di saluto ai presenti. Quindi, dopo giorni di silenzio, ha finalmente parlato: "Vorrei solo ringraziare il popolo giapponese per aver ospitato le Olimpiadi in circostanze così straordinarie - ha detto Hubbard -. Penso che tutti conoscano i sacrifici che sono stati fatti e la situazione attuale in Giappone, quindi quanto è stato fatto è straordinario ed è encomiabile". "Non sono ignara delle polemiche che circondano la mia partecipazione a questi Giochi. E per questo motivo vorrei ringraziare il Cio per aver affermato il suo impegno per i principi olimpici e per aver stabilito che lo sport è per tutte le persone, inclusivo e accessibile", ha aggiunto Laurel Hubbard.

Daley, l'oro olimpico che lavora a maglia in tribunadal nostro inviato Maurizio Crosetti

Tom Daley



Immortalato mentre faceva la maglia allo stadio. Il campione che si batte per i diritti Lgbt, oro nei tuffi sincronizzati, su instagram ha un intero campionario: maglioni, coperte, copri teiere, plaid, pupazzi, unicorni





TOKYO – Tom sferruzza guardando le gare, e il mondo guarda lui. E’ un uomo e lavora a maglia: embé? E’ anche un campione, il britannico Tom Daley, medaglia d’oro nei tuffi sincronizzati in coppia con Matty Lee dopo i bronzi di Londra e Rio, un campione olimpico e un gay. "Orgoglioso di essere entrambe le cose", ha detto l’altro giorno in conferenza stampa, seduto accanto agli atleti russi e cinesi che aveva appena battuto: nei loro paesi, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è vietato dalla legge.




Immagini subito virali, quelle di Tom con i ferri in mano, la sua grande passione. Nel profilo Instagram “madewithlovebytomdaley” è possibile ammirare un intero campionario di lavori e lavoretti: maglioni, coperte, copri teiere, plaid, pupazzi, unicorni, persino una poltroncina per il gatto e un gilet per il cane. "Da anni mi applico al lavoro a maglia, e durante il lockdown mi sono perfezionato perché ho avuto ancora più tempo a disposizione".



Non è solo una curiosità a margine dei Giochi, ma un altro punto (senza croce) a favore di questo sport olimpico così inclusivo, del quale Tom Daley è stato un precursore: il suo coming out, uno dei primi tra campioni di livello planetario, risale infatti al 2013. Da tempo Tom si batte per i diritti Lgtb, oltre che per la lotta al cancro che gli portò via il suo amato papà. Sposato con lo sceneggiatore americano Dustin Lance Black, premio oscar per il film “Milk”, Daley è stato precoce in tutto: nell’agonismo di altissimo livello, visto che a 14 anni già disputava la prima Olimpiade, a Pechino, e naturalmente nella vita e nelle sue scelte.






E’ una persona molto amabile, si fa voler bene e soprattutto nessuno ha strabuzzato gli occhi in quella tribuna del Tokyo Aquatics Centre di Tokyo, quando Tom si è messo a sferruzzare. Per tutti è stato normalissimo, perché lo è. Sempre più uomini si dedicano al crochet, e comunque i Giochi stanno dicendo al mondo che non esistono steccati tra generi, e che in questo immenso e libero spazio ognuno si esprime, ama, gioca, gareggia, si ritira e vive come vuole.



Tom è anche padre di Robbie, che porta lo stesso nome del nonno che non ha conosciuto. Tom Daley e il marito Dustin lo hanno avuto tre anni fa grazie alla maternità surrogata. In un post sui social, Dustin aveva scritto a Tom: "Questo bambino vedrà suo padre diventare campione olimpico". Detto fatto. Quel bimbo un giorno vedrà anche il video di papà mentre sferruzza, e quello di Tom sul podio con gli occhi rigati di lacrime, una perla di pianto che scivola dalle pupille e cade dentro la mascherina. A proposito, tra i lavoretti a maglia di Daley c’è anche un profetico “porta medaglia”. Aveva cominciato a lavorarci prima di Tokyo, sicuro che non sarebbe stato tempo perso.











L'ora di Ondra, l'intellettuale che incanta Tokyo dal nostro inviato Giampaolo Visetti
(reuters)


Adam Ondra è il Phelps, il Bolt, la Pellegrini o il Djokovic delle salite in palestra e su roccia. Non è rimasto un bambino-prodigio: è il fuoriclasse capace di superare costantemente i propri exploit e di spingere il suo sport sempre un passo oltre il limite: “Un arrampicatore alle Olimpiadi vale il primo uomo sulla luna”




TOKYO – “E’ pazzesco essere finalmente qui. Immagino sia la sensazione di un astronauta che posa il piede sulla luna, il sogno di una vita che si realizza. Io ho sperato di poter arrampicare alle Olimpiadi da quando avevo otto anni: non avrei immaginato di doverne aspettare altri venti”. Adam Ondra è il Phelps, il Bolt, la Pellegrini o il Djokovic delle salite in palestra e su roccia. Non è rimasto un bambino-prodigio: è il fuoriclasse capace di superare costantemente i propri exploit e di spingere il suo sport sempre un passo oltre il limite.
L’arrampicata sportiva, grazie al boom mondiale di passione tra i giovani non solo di montagna, domani debutta ai Giochi e la stella ceca di Brno è il grande favorito per la conquista della prima medaglia d’oro nella storia delle salite. Se il successo dipendesse solo dalle discipline classiche dell’arrampicata naturale, il lead e il boulder, il pluricampione mondiale di entrambe sulla carta non avrebbe rivali. La combinata olimpica prevede però anche lo speed, la velocità su plastica, che Ondra e altri atleti non gradiscono che e continuano a considerare uno sport a sé: al punto che già a Parigi 2024 avrà una medaglia riservata. Gli aspiranti al primo titolo olimpico, anche tra le donne dove l’Italia punta sulla romana Laura Rogora, tra i 40 qualificati così aumentano: in corsa giapponesi, americani, spagnoli e francesi, oltre alla slovena Jania Garnbret e alla svizzera Petra Klinger.
A Tokyo 2020 tutte le lancette sono però puntate “sull’ora di Ondra”, l’unico uomo sulla terra a scalare vie sia 9c+ che 9a+ a vista, il solo ad eccellere in tutto e ad aver ripetuto in libera la terrificante “Daw Wall” su El Capitain. Più che un astronauta è un marziano e ai Giochi, dopo gli ultimi allenamenti nell’Aomi Urban Sports Park affacciato sull’oceano, teme più di tutto le condizioni climatiche. “C’è sempre molta umidità – dice – le prese scivolano e nemmeno il magnesio asciuga le mani. Forza, resistenza e tecnica devono così essere supportate da una attenta strategia di gara”. Durante i lunghi mesi del lockdown Ondra si è allenato in patria, nella palestra di casa. Sostiene che “questo tempo della sofferenza” potrebbe cambiare perfino il mondo dell’arrampicata, prima concentrato solo sugli exploit. “Tra le molte cose che causa Covid non saranno più come prima – dice – ci siamo anche noi. Finora abbiamo riscoperto il piacere di stare in famiglia e con gli amici, presto saremo chiamati a trasformare tutto in vera solidarietà. Essere generosi è il segreto per superare anche i problemi nascosti nelle pareti”. Ondra, laureato in economia, parla cinque lingue ma nel mondo delle scalate non è rispettato solo per essere “l’intellettuale verticale”.
Appena divenuto maggiorenne, dieci anni fa, è diventato donatore di midollo osseo, testimonial più giovane del progetto “Climb for Life”, che diffonde tra gli arrampicatori la cultura della donazione per salvare i malati di leucemia. “Non sono un eroe – dice – solo uno dei tanti: per i cuori liberi non limitare l’orizzonte a se stessi è naturale, come camminare sulle montagne della terra”. L’arrampicata sportiva è una delle discipline più spettacolari e telegeniche di questi Giochi e per la prima volta una gara sarà trasmessa in diretta mondiale. Adam Ondra su una parete vale Messi su un prato. Ha cominciato ad arrampicare a cinque anni con mamma Eva e papà Miroslav. A sei anni, a Rovigno, era già sulle falesie di 6a. Il primo 9a, limite insuperabile per molte guide, quando aveva 13 anni. Due anni dopo, superando la mitica “Action Directe” aperta da Wolfgang Gullich e risolvendo in libera la “WoGu”, tra le vie più lunghe e più difficili del pianeta, è entrato nel gotha dei rocciatori. Diritto alla storia confermato a 17 anni in Madagascar: qui il minorenne Ondra ha scalato in libera e in giornata “Tough Enough”, 400 metri di granito per dieci tiri di corda da a 8c. “L’importante – ripete – è visualizzare il ritmo di una parete, capire dove poter decontrarre almeno un po’ per alcuni secondi. Poi si deve spegnere il cervello e salire come si deve”. Escludere i pensieri per abbassare lo stress, in Olimpiadi condizionate da pandemia, assenza di pubblico dal vivo e isolamento, è l’ossessione di tutti gli atleti. Il debutto dell’arrampicata sportiva impone però a chi punta a una medaglia anche la polivalenza. Molti specialisti di boulder e lead hanno rinunciato. Ondra no, ha raccolto l’ennesima sfida. “Mi alleno sette ore al giorno – dice – mi piace tutto e cambiare stile è la cosa più divertente che ci sia.
Alla fine anche qui a Tokyo è decisivo prendere decisioni il più rapidamente possibile e poi crederci fino alla fine”. Il suo sogno, dopo i Giochi, è tornare su El Capitain per superare a vista una delle vie-mito del free climbing, ma pure “alzare sempre più la quota delle ascese su roccia” esplorando Himalaya, Patagonia e Groenlandia. “Resto uno da scarpette – sorride - non da scarponi. Ma è tempo di abbattere il muro culturale che ancora divide alpinismo e arrampicata sportiva”. Per un campione nato in un Paese dell’ex blocco sovietico, grande ambasciatore di una Ue “con sempre meno barriere”, un oro in Giappone sarebbe il primo calcio all’ultimo confine che taglia le montagne.






30.7.21

storie olimpiche tokyo 2020\21

 lo so che ancora le  olimpiai non sono    finite  .  ma  poi  vai  e  ritrovale    le  storie





repubblica 29- 30\7\2021






Tokyo 2020, coming out Boari: "Grazie alla mia ragazza"
Il video messaggio della compagna in collegamento da Casa Italia: "Ti amo, orgogliosa di te"Afp


Coming out di Lucilla Boari dopo la conquista della medaglia di bronzo ai Giochi di Tokyo 2020. Nel collegamento da Casa Italia è arrivato un messaggio video all'azzurra. "Ti amo tanto, sono molto orgogliosa di quello che hai fatto, non vedo l'ora che ritorni, ti sto aspettando per darti un grande abbraccio", ha detto Sanne de Laat, arciera compoundista olandese, a Lucilla Boari, che ha poi commentato: "Grazie alla mia ragazza".




Simone Biles, i demoni in testa hanno un nome: sono i "twisties"

(reuters)


La campionessa aveva ammesso di aver avuto un crollo mentale. E ha spiegato di cosa soffre

Un blocco mentale, una perdita di spazio ed equilibrio. Simone Biles ha i demoni, ma i demoni hanno un nome, un effetto e una causa, anche se non si sa quale sia. Quando Simone Biles ha parlato di salute mentale per spiegare i ritiri dalle gare a squadre e dalla gara generale ha detto: "Ho i twisties". Cosa sono i "twisties"? Per le persone normali non sono nulla, per i ginnasti sono un incubo: una sorta di blocco mentale. Improvviso.
Un blocco che fa perdere il senso dello spazio e della dimensione quando è in aria, che fa perdere il controllo del corpo e che, durante un volteggio o una capriola, può far perdere il controllo del corpo e rende incapaci di atterrare in sicurezza. Anche se l'atleta ha fatto la stessa manovra per anni senza problemi. Anche se sei una leggenda. Anche se sei la migliore. Disorienta. Come se corpo e cervello si scollegassero. Il corpo semplicemente non collabora, il cervello perde traccia di dove è il fisico nell'aria. L'atleta scopre dov'è il terreno quando atterra. E la paura diventa paralizzante.
Ci sono atlete e atleti che hanno capito cosa stesse passando Simone Biles quando ha perso il senso dello spazio durante il volteggio della gara a squadre, quando si è ritirata. La ginnasta britannica Claudia Fragapane alla BBC ha raccontato di essere caduta dalle parallele asimmetriche e sulla trave nei turni di qualificazione e poi nell'aprile di quest'anno è caduta di nuovo a seguito di un blocco mentale e non è riuscita a qualificarsi per i Giochi di Tokyo. La ginnasta svizzera Giulia Steingruber in un documentario di qualche anno fa ha raccontato che durante un volteggio "non avevo più la sensazione di dove mi trovavo. Ruotare e capovolgere il corpo è disorientante".
Il talento di Simone Biles è proprio nel suo eccezionale "senso dell'aria" come lo chiamano gli atleti. Il controllo del corpo mentre è in volo. Se l'atleta lo perde non ha scelte: deve fermarsi.



Il caso del tiratore iraniano: l'oro nella pistola 10 m accusato di essere un terrorista

                             dal nostro inviato Fabio Tonacci


Javad Foroughi fa parte del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, inserito da Donald Trump nella lista dei gruppi terroristici




Infermiere di notte, terrorista di giorno, campione di tiro a segno nel weekend. L'iraniano Javad Foroughi avrebbe almeno tre vite, e una di queste non c'entra niente con le Olimpiadi. Chi è davvero il vincitore dell'oro nella disciplina pistola ad aria compressa 10 metri? E perché sempre più voci chiedono al Comitato olimpico internazionale di riprendersi la medaglia?
Un clamoroso caso internazionale scoppia a Tokyo 2020, quando il programma delle competizioni è arrivato alla seconda e ultima settimana. Protagonista è l'infermiere 41enne Foroughi. Lavora in Iran ma ha prestato servizio anche negli ospedali da campo in Siria, a Palmira, e in altre zone di guerra. È un operatore sanitario, e fin qui niente di male. È anche membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, milizia paramilitare composta da 125 mila uomini e istituita dall'ayatollah Khomeini nel 1979 poco dopo essere ritornato dall'esilio durato 15 anni. Ha giurato di difendere la Guida suprema dell'Iran. Jayad Foroughi è un fiero pasdaran.






Dice di aver cominciato a praticare il tiro a segno sportivo nel 2017. Dopo aver vinto l'oro a Tokyo, la televisione pubblica iraniana ha trasmesso un servizio in cui medici e infermieri del Baqiyatallah Hospital a Teheran, gestito dai pasdaran, esultavano per il successo del collega. Il leader del Corpo, Hossein Salami, ha celebrato Foroughi definendolo "un esuberante Guardiano della rivoluzione islamica".
La questione si complica definitivamente di fronte al fatto che la milizia, nel 2019, è stata inserita dall'amministrazione Trump nella lista delle organizzazioni terroristiche. Non era mai successo che gli Stati Uniti prendessero tale provvedimento nei confronti di una forza militare di un'altra nazione. Una mossa - sostengono gli analisti - servita a Trump per giustificare l'imposizione di nuove sanzioni contro l'Iran.
"Come può un terrorista salire sul podio?", si chiede il tiratore coreano Jin Jong-oh, sei volte medaglia olimpica. "È la cosa più assurda e ridicola che abbia mai sentito": Jin Jong-oh se la prende con il Comitato Olimpico Internazionale: "Come può permettere una cosa del genere?". Il suo rimprovero arriva dopo che United for Navid, l'associazione iraniana che tutela i diritti umani degli atleti, ha sollevato la questione, chiedendo ufficialmente al Cio di ritirare la medaglia a Foroughi. "Quel riconoscimento è una catastrofe per lo sport iraniano, per la comunità internazionale e specialmente per la reputazione del Cio. Foroughi è un membro di vecchia data di un'organizzazione terroristica", si legge nel comunicato di United for Navid.
Il Cio prova a spegnere l'incendio che sta divampando in seno a Tokyo 2020. "Se hanno delle prove di ciò che dicono, ce le facciano avere: noi siamo qui", dice il portavoce Mark Adams. Ma nel frattempo sui social sono partite petizioni per togliere l'oro al tiratore iraniano.









Il re di Wall Street aiuta l'atletica Usa: "Un assegno da 30mila dollari a 65 campioni per arrivare al podio"dal nostro inviato Ettore LiviniStephan Schwarzman con gli atleti di Team Usa

 
Stephen Schwarzman, ex-sprinter e numero uno del private equity Blackstone, è il primo donatore privato della Us Track & Field Foundation con 17 milioni di dollari. Per molti membri della spedizione statunitense i suoi soldi sono l'unica entrata certa del 2021


TOKYO -La corsa all’oro olimpico di 65 ragazzi della squadra Usa di atletica ha alle spalle il supporto economico di un ex-atleta d’eccezione: Stephen Schwarzman, numero uno e fondatore di Blackstone, il grande fondo di private equity di Wall Street. Uno degli uomini più ricchi del mondo che compra e vende aziende come figurine Panini guadagnando una fortuna (610 milioni nel 2020) ma anche un ex-sprinter di mediocri fortune all’epoca del college a Penn State diventato oggi per nostalgia dello sport il primo donatore privato degli olimpionici a stelle e strisce. Ultimo atto: l’assegno di 30mila dollari a testa girato a 65 membri della spedizione Usa per sostenere i costi dell’ultimo difficilissimo anno di costi e trasferte.
Il Babbo Natale di Wall Street ha girato l’assegno tra gli altri al martellista Alex Young, al campione dei 5mila Paul Chelimo, al triplista Donald Scott alla lunghista Britney Reese. Un elenco di campioni in discipline meno “visibili” di 100 metri o maratona che negli ultimi 12 mesi - causa il taglio al budget di molti sponsor di abbigliamento sportivo in difficoltà per la pandemia - hanno faticato a trovare risorse per allenarsi. “Sono ragazzi che anno dedicato anni e sacrifici per arrivare ai Giochi – ha detto Schwarzman -. Sono orgoglioso di loro, rappresentano gli Stati Uniti e il mio è solo un piccolo contributo per aiutarli a mostrare al mondo il loro talento”. Quest’ultima donazione porta a 17 milioni di dollari tra borse di studio e gratifiche personali dirette i fondi stanziati dal fondatore di Blackstone (e grande sostenitore di Donald Trump) all’atletica Usa.
Il finanziere ha deciso di dare una mano allo sport olimpico nazionale nel 2012. Stava guardando alla tv i 1500 femminili alle Olimpiadi di Londra. Al penultimo giro l’americana Morgan Uceny è inciampata nella gamba di una rivale, è caduta ed è stata costretta al ritiro. L’ex atleta Schwarzman ha intuito subito il dramma sportivo ma anche – da uomo di numeri – quello economico. “Quella caduta mandava in fumo anche i soldi di potenziali sponsor”. Da allora ogni anno gira il suo assegno alla Us Track & Field Foundation e invita in una sorta di mega pranzo sociale tutti i beneficiari nella sede della Blackstone a New York, solo per sentir parlare almeno per un giorno all’anno di sport e sogni olimpici e non di dollari.
“E’ l’uomo più generoso che abbia mai incontrato”, ha detto la Reese in gara domenica nel lungo femminile. Gli atleti delle leghe professionistiche Usa come Nba e Nfl hanno uno stipendio minimo garantito figlio di una contrattazione collettiva. Per lei invece l’unica entrata certa di quest’anno sono i 30mila dollari di Schwarzman. Reese ha firmato anche un accordo di sponsorship con la Nike. Ma viene pagata a performance. Un primo step è scattato con la qualificazione ai trials (altrimenti non avrebbe preso un centesimo), il secondo sarà proporzionale al risultato della gara. Il suo munifico donatore – come ogni Olimpiade – la guarderà in tv. ”L’atletica è stata una parte fondamentale della mia vita dalle medie al college – ha spiegato -. E’ un mondo da cui ho imparato l’importanza del lavoro di gruppo, degli allenamenti e la gioia quando tu o la tua squadra vince”. E se la Reese salirà sul podio festeggerà felice, sapendo che in fondo e anche un po’ merito suo.


Judo, un tatami di pace: lo storico abbraccio tra l'atleta saudita e israeliana


Raz Hershko (che ha vinto) e Tahani Alqahtani non hanno rinunciato al combattimento, tre giorni dopo i rifiuti di un judoka algerino e di uno sudanese di combattere contro l'israeliano Tohar Butbul. "Un passo avanti - ha scritto la federazione internazionale judo - a dimostrazione di come lo sport possa andare oltre".
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Jessica Rossi e Mauro De Filippis: "Separati nella vita, tiriamo insieme senza litigare"dal nostro inviato Fabio Tonacci

Jessica Rossi (reuters)


Gareggeranno insieme nel trap misto. La portabandiera azzurra: "Vogliamo il riscatto. Su di noi solo gossip e falsità: il privato resta tale". L'ex marito: "So comunque di avere al fianco la migliore tiratrice possibile"


TOKYO. Separati alla meta. I due cuori e una fossa (olimpica) non ci sono più. È stato bello finché è durato, grazie della favola ma adesso in pedana scendono Miss Rossi e Mister De Filippis. Uno accanto all'altro, la portabandiera azzurra e l'ex marito numero uno nel ranking mondiale. A sparare per l'Italia. A sperare per l'Italia del tiro a volo, il cui bottino al momento è sottile quanto un piattello. Jessica Rossi e Mauro De Filippis sono stati selezionati dal ct Pera per gareggiare nel misto questa notte. È l'ultima chiamata per andare a medaglia."Tutti e due abbiamo qualcosa da riscattare, in questa Olimpiade", esordisce Jessica, che incrocia per un attimo lo sguardo di Mauro. Parlano gli occhi, il volto è coperto dalle mascherine. Sono qui sotto gli spalti vuoti dell'Asaka Shooting Arena. Il sole sta tramontando, si è alzata finalmente una leggera brezza. È la prima volta che accettano un'intervista insieme. Un plauso per la disponibilità, non è una giornata facile: hanno entrambi mancato la finale del trap individuale, che a Londra aveva visto Jessica Rossi prendersi l'oro e portarsi a casa il record del mondo di 99 piattelli sbriciolati su 100. Jessica e Mauro, 29 anni lei e 40 lui, sono notoriamente riservati. Dopo la loro separazione, comunicata lo scorso maggio alla Federazione, lo sono ancora di più. Se gossip deve essere, non verrà da loro. Per dire i caratteri: dopo Londra Jessica era stata tempestata di richieste di partecipazioni e comparsate, ma le uniche che ha accettato coincidevano con due sogni: scendere la scala del Festival di Sanremo e scendere la scala di Miss Italia. Poi si è chiusa nella sua Crevalcore, con le piante, la natura e il suo dobermann che, per non sbagliarsi, ha chiamato Olimpia. Nel 2015 si sono sposati. Non è durata.

La gara è domani. Sensazioni?
Jessica: "Siamo carichi, vogliamo quella medaglia".
Mauro: "Sarà durissima, il livello tecnico degli avversari è alto. In qualifica nell'individuale avevamo fatto prestazioni buone, ma non è bastato per arrivare in finale. Nel misto sicuramente ce la giochiamo".

Vi ha disturbato il chiacchiericcio sulla fine del vostro matrimonio? Si è parlato quasi più di questo che delle vostre prestazioni sportive.
J: "Fa parte del gioco, lo sapevo. Non posso dire che mi dà fastidio, va così...quello che mi amareggia è quando vengono dette e scritte falsità sul nostro conto. Ho letto di tutto, che io non volevo sparare con Mauro, che mi rifiutavo di fare il misto con lui... Scemenze. Siamo due professionisti, il ct ci ha scelto e io gareggerò".
M: "Nel bene o nel male, purché se ne parli... No dai scherzo. Devo essere sincero, mi sono estraniato da tutto. Non ho ascoltato chi straparlava, ho mantenuto discrezione. Non voglio mettere la nostra storia sotto i riflettori. Come sono andate le cose tra me e Jessica, i motivi per cui ci siamo lasciati, le parole che ci siamo detti, lo sappiamo io e lei. Il gossip non mi interessa".

Il tiro è uno sport di testa. Per i piattelli che decidono una medaglia, capita che il vissuto personale venga fuori e renda il braccio meno sicuro. C'è questo rischio anche per voi?
J: "Assolutamente no".
M: "Ci conosciamo tanto, abbiamo percorso un tratto di vita insieme. So che accanto a me avrò la tiratrice più forte e la compagna di squadra più talentuosa che si possa avere. Farò il mio, lei farà il suo. Il nostro rapporto può essere soltanto una forza positiva".

Jessica, sinora in competizione ha sentito la pressione di essere la portabandiera dell'Italia?
J: "Non direi, anzi: è qualcosa in più, che mi lascerà un ricordo bellissimo di Tokyo, comunque vada".

Come si fa a evitare che il personale influenzi la preparazione e la prestazione?
J: "Non è che se abbiamo litigato cinque minuti prima faccio zero apposta, abbiamo un obiettivo comune. Anche quando eravamo sposati non ci siamo mai dati fastidio".
Avete trovato un vostro modo per separare le cose?
J: "Quando vado in pedana riesco a isolarmi e a chiudermi in me stessa. Spero di riuscirci anche nei prossimi giorni. Comunque se andrà bene o andrà male non dipenderà dalla nostra situazione".
M: "Da sposati, hai un'estrema fiducia nella persona che hai a fianco perché la conosci, sai cosa pensa, come reagisce, cosa prova. Da separati, conosci comunque il valore indiscutibile dell'atleta".

Ma vi capita di litigare?
J: "Stiamo andando un po' oltre il tiro secondo me (ride, ndr)... Prima litigavamo come tutte le coppie normali. Abbiamo fatto un patto: il nostro privato non uscirà mai. Né dalla mia né, penso, dalla sua bocca".

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