In essi s , come in tutti i suoi scritti , sa esprimere quello che sento da tempo e che non riuscivo a descrivere a parole !!!
CHIUNQUE SIA STATO
Non voglio nemmeno sapere se si tratti di immagini vecchie di mesi e diffuse ad arte in questi giorni, per suscitare scandalo e raccapriccio (e preparare l'opinione pubblica a un intervento militare da parte del "democratico" Occidente). Non m'importa conoscere gli autori della strage. Sono stati i ribelli islamisti, affermano alcuni esperti. No, replicano altrettanti esperti, è opera del regime di Assad, quel regime "criminale" che però la Russia continua a proteggere e con cui europei e statunitensi hanno intrattenuto cordiali rapporti fino a pochissimo tempo fa (com'è avvenuto per Mubarak, appena scarcerato).
Chiunque sia stato, è stato. Perché una cosa sembra sicura: le foto dei fanciulli, morti per asfissia dopo un attacco chimico, sono autentiche.
Questo è l'inferno, urlano i giornali. Non lo è. I bambini non evocano mai l'inferno. I bambini sono sempre paradiso. La morte dei bambini, che assillava Dostoevskij fino a fargli dubitare dell'esistenza di Dio, indica invece solo la nostra sconfitta. La morte dei bambini è la morte di Dio; ma anche il suo giudizio. Un giudizio definitivo e spietato, da Cappella Sistina.
I bimbi allineati in sudari bianchi o esanimi nelle braccia degli adulti hanno volti splendidi e statuari. Le palpebre chiuse emanano una luce pasquale, molto più vivida degli occhi solcati da fugaci passioni.
È la loro inanimata gravezza. La bellezza insopportabile e ormai rappresa che ora ci accusa.
L'orrore, l'inferno è avvenuto prima. Quando quei volti si sono scompostamente contratti. Quando hanno agonizzato nella disperata ricerca d'uno scampolo d'aria, con in gola un incredulo perché. I bambini si fidano, non possono percepire il tradimento degli adulti: loro padri, madri, fratelli e origine. Se gli adulti li tradiscono, ne sono annientati.
I bambini su cui è piovuto il male del mondo o hanno esperito un volo mistico lasciano il sorriso ma non la serenità. I loro visi riaffiorano nivei nell'innocenza ideale, tanto più rigorosa quanto più inerme. S'invera in essi il monito "Sarete giudicati dall'amore".
L'amore è esigente e non tollera giustificazioni. È luce che abbaglia analisi meschine, vacue strategie, ignavia d'un consesso mondiale incapace di trovare soluzioni accettabili per interi popoli, da decenni in lotta fra loro. Un'ignoranza voluta, quindi doppiamente colpevole. Più che fredda, tiepida: che è molto peggio. Manca il fuoco, la carne viva attraverso cui l'amore terreno si raffina e diviene carità.
I bambini siriani sono morti per tiepidezza, per mancanza di carità. Che sono l'altro volto, altrettanto disumano, della violenza. È mancato, a quei bambini, uno sguardo femminile nel senso inteso da Edith Stein: nei calcoli politici "vi è sempre il pericolo di decidere a tavolino, di combinare i paragrafi più perfetti, senza tener davanti agli occhi i rapporti concreti e le conseguenze pratiche. La femminilità si oppone a questo atteggiamento astratto, è suo intimo bisogno valutare l'elemento concreto, umano: può perciò fungere da correttivo. L'oggetto, che per il politico spesso sta al primo posto e spesso detta legge, è l'interesse del partito. Ma nell'attività legislativa questo suo atteggiamento può condurlo alla più grave mancanza di oggettività".
Oggi ci si arrovella su quelle morti, a chi giovano, chi ne è responsabile, che certo merita la più severa punizione, ma senza dimenticare l'umano. Sono bambini, non pretesti né strumenti. L'ultima bestemmia sarebbe usare quei volti trasfigurati per scatenare l'ennesima guerra d'interessi e sfruttamento. Quei volti non chiedono vendetta. Quei volti c'inchiodano alle nostre responsabilità, proprio quando esprimono - ed esigono - una pace perenne e definitiva.
© Daniela Tuscano
UN CASO DI RAZZISMO
Ottantasei anni fa venivano giustiziati sulla sedia elettrica, da innocenti, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Già la parola fa rabbrividire, al punto che alcuni ne esigono la cancellazione dal vocabolario. Giustiziare il verbo giustiziare, insomma, non sarebbe una brutta idea, specie se, come in questo e in
molti altri casi, si accompagna al suo contrario, cioè l'innocenza dei condannati.
(Nella foto, Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonte' in "Sacco e Vanzetti" del 1971 |
La storia dei due anarchici italiani la conoscono tutti, grazie anche al potente film di Montaldo magistralmente interpretato da Gian Maria Volonte' e Riccardo Cucciolla. Un j'accuse in piena regola, che ci restituisce intatto il clima incanaglito e spietato di quei tempi. Un ritratto per così dire chirurgico e, riconosciamolo, lombrosiano dei protagonisti dell'atroce storia. Gli italiani (noi italiani) nei panni dei diversi, il nordico Vanzetti e il meridionale Sacco accomunati dalla stessa sorte di "negri bianchi" come venivamo amabilmente considerati. I compatrioti con quell'aria mutila, gli occhi sempre un po' strabici, scuri come ossidiana, quasi alla ricerca dell'aria da respirare, che in questo caso erano, tanto per cambiare, le parole: lessico storpiato e inafferrabile, che essi non capivano mai del tutto e che temevano in quanto strumento del potere. I più lombrosiani non erano tuttavia loro, ma gli accusatori wasp: in primis il giudice Tayler, il cui razzismo ostentato e, addirittura, vantato portò alla creazione d'un nuovo verbo, "taierizzare", divenuto sinonimo di modo prevenuto e iniquo d'esercitare la magistratura. Non era da meno il pubblico ministero, quel Katzman la cui arringa accusatoria è stata resa con lucida puntualità da Montaldo: Sacco e Vanzetti dovevano essere condannati perché anarchici, perché terroristi, ma soprattutto perché nemici di quella civiltà superiore e avanzata in cui si erano inseriti come corpo alieno e infetto; figli di sponde estranee, imbarcatisi a milioni su natanti di fortuna e accolti dal paese ricco e prospero. Certo, si potevano comprendere i disagi, ma che questi estranei tramassero pure contro la civiltà superiore, no. Sacco e Vanzetti erano "contro la nostra democrazia", cioè l'unica e l'autentica. Nell'indegna requisitoria del Katzman si avverte l'eco di quella "Relazione sugli italiani" redatta dall'Ispettorato all'Immigrazione pochi anni prima (1912): "Generalmente sono di piccola statura, di pelle scura, non amano l'acqua e molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane; si costruiscono baracche di legno nelle periferie delle città dove vivono gli uni vicino agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti, fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra loro. Dicono che sono dediti al furto e che ostacolati diventano violenti; i nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere con espedienti o addirittura attività criminali".
Questi sub-umani, anzi, questi insetti, erano odiati e temuti.Sacco e Vanzetti furono uccisi dal pregiudizio, dall'umiliazione cui vennero sottoposti al processo, dove li costrinsero a indossare scure coppole sotto lo sguardo divertito e sanguinario degli yankees ansiosi di vendicarsi. Erano carne da macello. La politica, l'anarchia? Per i due l'anarchia era un ideale serio. Senza potere, senza violenza. Ma la politica non era che un pretesto. L'anarchia "democratica" di Sacco e Vanzetti aveva il torto di non identificarsi col consumismo capitalista. Gli eroi di Sacco e Vanzetti non si chiamavano Rockefeller ma erano gli anonimi operai distrutti da venti ore di lavoro. Proponevano una visione "altra", inaccettabile e da respingere per il totem del liberalismo. Non volevano "quella" democrazia perché ne desideravano di più. Non accettavano la colonizzazione culturale del paese ospite. Li si accusò anche d'ingratitudine e a prima vista poteva trattarsi d'un'imputazione sensata. Italiani, greci, spagnoli, portoghesi, slavi - come snocciolava con evidente disprezzo il procuratore Katzman - provenivano da nazioni prive di libertà, spesso dittatoriali (era anche il nostro caso) e, una volta giunti nel "paese di Bengodi", pretendevano d'imporre i loro costumi, le loro strampalate, misteriose, selvagge abitudini. Quale scempio!
Sì, la democrazia italiana era meno evoluta, o meglio, non esisteva affatto, ma gli italiani non rappresentavano un monolito. Sacco e Vanzetti ne erano un esempio e offrivano un'alternativa ai modelli imperanti del totalitarismo, dal quale provenivano, e dal liberalismo, nel quale si trovavano a vivere.
Non occorre un grande intuito per notare che le descrizioni suesposte combaciano in maniera impressionante con la nostra percezione degli immigrati attuali.
Non avevamo problemi, il che sarebbe stato del tutto comprensibile. I problemi esistevano,così come oggi esistono tra noi e i fuggitivi della sponda sud del Mediterraneo. No. Noi eravamo il problema. Quando le persone sono solo problemi, e non anche risorse, è già avvenuta la disumanizzazione. Se questi sono i cardini la democrazia liberale, Sacco e Vanzetti fecero bene a rifiutarli perché tale democrazia non escludeva lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non eliminava le discriminazioni, non negava il razzismo, anzi lo alimentava soprattutto in periodi di crisi. Allora come oggi.
I nostri connazionali vennero riabilitati solo nel 1977 e, a distanza di quasi un secolo, testimoniano una delle pagine più nere d'un odio "perbene" e quindi più insidioso e durevole. La loro vicenda suscita ancora profonda indignazione. Sacco e Vanzetti ci fanno davvero capire cosa significhi essere aborriti per il solo fatto di vivere, perché non si è previsti né utili al sistema. E il sistema elimina, inflessibilmente e legalmente. In perfetta coscienza. Come recita la battuta finale della pellicola montaldiana: "Come vuole la legge, io ti dichiaro morto".
© Daniela Tuscano
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