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27.1.23

Suzette Tartarone l'Anna Frank napoletana: trovate altre lettere dalla prigionia , L’anarchico Luigi Peotta, che non arrivò mai a Mauthausen e Walter Schellenberg, Ss morto a Torino: le esequie pagate da Chanel

in  sottofondo
Nomadi la canzone del bambino nel vento(Auschwitz)


Ecco  le  ultime  tre  storie   e  con questo     è  tutto    ed  adesso  prima  del  grande  silenzio per  parafrasare  la  canzone     citata  in  sottofondo  questa  poesia   piena  di speranza  

  repubblica    27\1\2023

di   Paolo Popoli

Suzette, l'Anna Frank napoletana: trovate altre lettere dalla prigionia A recuperarle Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del Museo di Napoli



"Carissimo babbo, sono lieta di avere tue buone notizie. Vedo che la tua vita si svolge sempre metodica, regolata come un orologio, come pure la mia e se continua così non sarò di ritorno a casa nemmeno per Natale del 2.000": inizia così una delle nuove lettere ritrovate di Suzette Tartarone, la " Anna Frank napoletana".

Nove epistole, indirizzate al padre Alfredo nella casa di via Roma, scritte tra il 1941 e il 1942 nei campi di prigionia delle Marche: a recuperarle sul mercato antiquario è stato Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del Museo di Napoli - Collezione Bonelli, che dodici anni fa ha scoperto la prima missiva di questo carteggio e ha fatto così emergere dall'oblio la storia tragica e appassionante della giovane napoletana di origini ebree, padre napoletano e madre francese, imprigionata non solo per motivi razziali, ma soprattutto per l'avversità al regime fascista e per i costumi emancipati, liberi, ma giudicati allora licenziosi e da condannare.


Rabbia, disillusione e l'affetto tenero per il genitore passano attraverso le parole impresse sulla carta dalla giovane donna, durante la detenzione, in questi nove inediti simili per contenuti alle altre cinque lettere già rinvenute da Bonelli a partire dal 2011. " Questo corpus offre nuove verità e nuove emozioni a un commovente diario epistolare della prigionia - spiega Bonelli - e conferma che Suzette Tartarone è stata detenuta non solo nel campo di Pollenza, ma almeno in altri due campi sempre nei pressi di Macerata: Castelraimondo e Caldarola".
Quattro anni di prigionia, dal 1940 al 1943, in condizioni dure e a chiedersi sempre " perché". Il 12 giugno 1941, Suzette parla di " 13 mesi di prigionia senza motivo valevole. Faccio i capelli bianchi qui dentro". Le nove epistole comprendono cartoline e biglietti al padre Alfredo, assieme a due risposte di quest'ultimo alla figlia, da lei conservate durante la prigionia, prima di evitare la deportazione ad Auschwitz e del ritorno a Napoli (grazie all'intercessione di uno zio prefetto a Torino) dove morirà negli anni Settanta. Della sua vita, però, non si sa altro.


"Le lettere portano il timbro "verificato dalla censura" - continua Bonelli - Forse Suzette ingannava i controlli, scrivendo nelle prime righe quasi sempre di convenevoli al padre, mentre più avanti lascia spazio a sfoghi e richieste di aiuto per ritrovare la libertà". "Vai a Roma, ti prego - scrive il 14 gennaio del ' 41 - non avrò pace finché la mia libertà non mi sarà resa". E sempre al padre che l'aiuta, dice il 6 giugno: " Peccato che l'on. Min. dell'Interno non sia come te".

Il 12giugno parla invece della polizia che si ricorda " benissimo della mia moralità sulla quale non c'è assolutamente nulla da dire. Spero che consentiranno a farmi tornare un giorno a casa. Il campo (di internamento, ndr) libero mi interessa poco. È un'altra schiavitù". Suzette racconta poi la sua rassegnazione ("La mia volontà non conta più niente", " Qui sono una cosa malleabile senza personalità") e rivendica l'ingiustizia subita: " Io sono nata libera". Nell'agosto 1941 vorrebbe tornare a Napoli: " Non ho paura delle bombe nemiche".

 

E poi ci sono i momenti di affetto, i ringraziamenti al padre per regali come sandali, calze e dolci. " Queste lettere andrebbero lette nelle scuole - conclude Bonelli - e spero un giorno possano diventare un libro o una rappresentazione teatrale. I nove inediti li ho acquistati due mesi fa, ma ho voluto diffonderli nella Giornata della Memoria e in questo momento di guerra in cui la sofferenza di Suzette, la costrizione della libertà e la vessazione in generale debbono fungere come monito".

L’anarchico Peotta, che non arrivò mai a Mauthausen

Ai tempi dei processi alla banda dell’anarchico Sante Pollastro, del quale era stato il braccio destro, lo avevano definito l’uomo dalle identità molteplici: era stato Giulio Coccari, Luigi Bimbo, Carlo Locati, Garibaldi Pedrocca. E in uno dei dibattimenti in cui era stato imputato dopo l’arresto in Belgio nel 1927, e poi condannato a oltre vent’anni di galera, Luigi Peotta, nato a Grancona (Vicenza) il 16 maggio 1901, vissuto fra Novi Ligure e Sesto San Giovanni, stampatore tipografo e anarchico individualista, non aveva forse detto al magistrato che lo stava interrogando: “Ma non mi chiamo Peotta: è questo che mi preme precisare. Consta a lei che mi chiami Peotta?”.

La storia ufficiale della deportazione nei lager nazisti recita che l’uomo dai tanti volti sarebbe morto a Ebensee, un sottocampo di Mauthausen. Il viaggio del “Bimbo” verso il lager dell’alta Austria era cominciato dal campo di concentramento di Fossoli il 21 giugno del 1944, per concludersi quindi il 24 giugno a Mauthausen. La deportazione di Peotta e quella

dei suoi compagni, nota come il “Trasporto 53”, è stata accuratamente ricostruita, così come sono noti i nomi dei prigionieri.

Lui era la matricola numero

76668, inserito nella categoria

“Berufs Verbrecher”, vale a dire “delinquente, criminale di professione”. Secondo i documenti tedeschi, Peotta, prigioniero dal 24 luglio del 1944 a Ebensee, sarebbe deceduto il 2 maggio 1945. Un decesso su cui concordano anche gli storici del movimento anarchico.

Ma un conto è la storia ufficiale, un altro conto è la verità nascosta. Proprio Sante Pollastro, graziato alla fine degli anni Cinquanta, confidò negli anni Settanta al suo amico e biografo Luigi Brignoli che il “Bimbo” era morto a Sesto San Giovanni nel 1965. Aggiunse inoltre di essere andato al suo funerale, dove si mise a piangere. Scrive Brignoli: nel libro Le confessioni di Pollastro, l’ultimo bandito gentiluomo: “Durante un bombardamento, gli alleati devastano il penitenziario (1943)”; quindi Peotta “viene trasferito al carcere di Verona da cui evade. Ripreso dai tedeschi e fatto prigioniero riesce ad evadere ancora una volta e a scappare. Si nasconde nei pressi di Milano (Sesto S. Giovanni) dove rimane sotto falso nome fino alla morte avvenuta nel 1965. Pollastro, ormai libero, andrà in incognito ai suoi funerali”. Peotta a Sesto San Giovanni “avrebbe lavorato per una nota casa editrice”, vendendo libri. La “nota casa editrice” sarebbe stata la Feltrinelli, visto che una parente del “Bimbo”, Bianca Maria Dalle Nogare, aveva sposato Giangiacomo Feltrinelli a Sesto San Giovanni nel 1947.

Pollastro non aveva motivo di mentire. E Luigi Peotta, essendo comunque sempre un condannato per reati gravi (rapine, uccisioni di carabinieri e pure di fascisti), fu costretto a farsi credere morto per ancora vent’anni. L’anarchico che ai giudici rispondeva pirandellianamente di essere uno, nessuno e centomila, come un Mattia Pascal beffò i nazisti e l’italia antifascista ma non troppo.


  sempre   dalla stessa   fonte   


Schellenberg, Ss a Torino: le esequie pagate da Chanel

Su La Stampa di martedì 1 aprile 1952, nella rubrica “Stato civile” della cronaca, i lettori appresero che a Torino, il 31 marzo, era morto un certo “Schellenberg Walter di Guido, a. 41, via Magenta 24”. Quel cognome, però, non dovette suggerire niente a chi vi si era imbattuto. E non sollecitò la curiosità neppure dei cronisti, che all’epoca erano soliti leggere con molta attenzione i necrologi. Strano ma vero. Solo tre anni prima, il 14 aprile del 1949, su Stampa Sera si era dato conto di quel Walter Schellenberg. Era uno dei nazisti imputati in uno dei procedimenti, il cosiddetto “processo dei ministri”, nati dal dibattimento di Norimberga: “Walter Schellenberg, capo della sezione spionaggio dell’s.d., responsabile del massacro di prigionieri di guerra russi”, condannato a sei anni di reclusione.

Ciò che Stampa Sera non diceva è che Schellenberg, generale delle SS, era stato assistente del gerarca Reinhard Heydrich e tra i principali collaboratori del “Reichsführer” Heinrich Himmler nella veste di capo del suo servizio di controspionaggio. Lo Schellenberg deceduto a Torino per un tumore al fegato nella lussuosa Clinica Fornaca di corso Vittorio Emanuele II, in quell’inizio di primavera, era proprio l’alto ufficiale nazista, anche se i torinesi e gli italiani non lo avrebbero saputo. I servizi segreti americani, invece, e forse pure i nostri, che peraltro erano stati ricostituiti dagli angloamericani, ne erano informati. Lo testimonia una nota della CIA del 20 ottobre 1952 sul “General Walter Schellenberg”, in cui si asseriva che “fonti hanno confermato, sulla base di un’investigazione, che il Soggetto si è sentito male mentre stava viaggiando in treno nel nord Italia. Quando il treno è arrivato a Piacenza, il Soggetto è stato caricato su un’ambulanza che ha proseguito per Torino, dove il Soggetto è stato ricoverato nella clinica Forcava [cioè Fornaca]”. Lì “egli è morto il 31 marzo per arresto cardiaco, cirrosi al fegato e infezione della bile”. Sembra che l’ex generale delle SS fosse riuscito a evitare il carcere riparando in Svizzera. Aveva raggiunto poi il Lago Maggiore, fermandosi per qualche tempo a Pallanza e a Domodossola. Quando si sentì male era probabilmente “diretto a Roma, forse per incontrare qualcuno interessato alla pubblicazione delle sue memorie oppure per altre ragioni più oscure, legate al suo passato e verosimilmente ai contatti che già prima della fine della guerra aveva avuto con gli angloamericani. Certo è che il funerale del nazista venne pagato dalla stilista Coco Chanel, già amante di Schellenberg e agente segreto al soldo del Terzo Reich. Non è noto se il soggiorno torinese di “Schellenberg Walter di Guido” fosse stato dovuto soltanto alla malattia. Di sicuro, in quei giorni, nella città piemontese viveva indisturbato Marcel Déat, detto “l’hitler dei francesi”, condannato a morte nel suo Paese. Lo avevano cercato ovunque, ma l’ex socialista divenuto nazista abitò sotto la Mole fino alla morte, nel gennaio del 1955.

    “Pure un giorno la sospirata
Primavera tornerà
E dai tormenti desiderata
La libertà rifiorirà
La libertà rinascerà”

( Wir Sind Die Moorsoldaten )

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