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27.10.11

La fine d'un mondo

Era proprio Finisterre. Un suono, prima d’un luogo. La brughiera di Liguria, là dove si congiungeva, tra rigagnoli cinerei e mari in tempesta, con la parte alta della Toscana, luogo misterioso e battuto dai venti, selvaggio, impenetrabile. Luogo di frontiera, dalla lingua sconosciuta. Lo splendore delle Cinqueterre. Ma anche, per me che l’attraversavo di rado, una terra incognita, in cui la ruvidezza spartana dei liguri si confondeva con la grazia scapigliata degl’ignoti, leggeri toscani del Nord.

Zona di passaggio, d’immigrazione. La mia bisnonna vi era salita dalla Lunigiana, anche questo un nome rarefatto, quasi spettrale. Dietro code di bauli, schiene, carri. E s’era poi insediata nel rigoglioso Ponente, concluso un matrimonio borghese, vissuta - poco tempo - felice.
Luogo di pietra e di storia. Da pochi giorni cancellato, travolto, assorbito da una colata di fanghiglia e liquame. Una storia sgretolata, assieme con le code di bauli, i frantoi, la grazia mediterranea, le poesie di Montale, l’ansia scalpitante di vita. Un mondo intero è stato distrutto e sepolto, per l’oblio d’un paese di montagna convinto d’essere un paese di pianura (Ascanio Paolini). Per la sciatta dimenticanza della nostra storia impervia e onerosa.

E la chiesa settecentesca di Monterosso rimembrava quella, inerpicata e inagibile, di Bussana vecchia: anch’essa distrutta, da un terremoto, centocinquant’anni fa. In una disgrazia, però, telluricamente “normale”. Qui no, qui la natura sembra essere impazzita, disfatta e ribelle di fronte allo scialo di cemento, oggetti, bitume, grattacieli ammassati per avidità, incuria, e - anche in tal caso - oblio.

Lo strazio si è ripetuto a Pompei. Ancora una volta. La città campana sembra essersi sciolta nel pianto. Il suo è un lungo, straziato “basta”. Anneghi il rosso pompeiano, le Ville dei Misteri, quella nostra antichità pagana e orientale che ci ricapitolava come uno scrigno prezioso. Crolla qui l‘Italia: nell’asettica indifferenza d’un popolo smemorato, infisso nell’indifferente pianura dell’oggi, e che si ritroverà un giorno del tutto scalzato, e demotivato, e nullo, senza capir perché.

9.10.11

La pastora, i silenzi e la politica tra lacrimogeni e scontri di piazza

Unione  sarda  del 9\10\2011di GIORGIO PISANO


Cosa fosse un lacrimogeno l'ha capito una mattina dell'anno scorso in via Roma, a Cagliari. La polizia era schierata in assetto antisommossa. E lei - madre di famiglia - guardava con curiosità, quasi fosse in televisione, una scena che non la riguardava. Distante, lontana. Confusa tra i manifestanti, tutti con la stessa maglietta azzurra del Movimento pastori, si sentiva intoccabile, irraggiungibile, sicura. D'un tratto un sibilo ha spezzato il silenzio «e io mi sono ritrovata questo coso tra i piedi, dentro una nuvola di fumo acre». Respirava a fatica ma ha provato a reagire, calpestarlo, allontanarlo con un calcio. Poi ha capito cosa prescrive la tattica del popolo blu in questi casi: ritirata. Ritirata velocissima tra le stradine che circondano il Consiglio regionale e i poliziotti, zavorrati nello scafandro d'ordinanza, dietro. Urla, respiro corto, il frastuono dei passi assordante come quello di una mandria.Graziella Ninu, 44 anni, di Silanus, ha scoperto all'improvviso una faccia sconosciuta della vita. Dieci anni prima aveva dovuto imparare a mungere, diventare giorno dopo giorno, e in fretta, pastora. Pensare che aveva alle spalle studi al liceo scientifico e il sogno (mai abbandonato) d'una laurea in Lettere classiche. Il destino le ha cambiato copione in un lampo. Oggi ha due figlie, un marito (Pietro) che lavora in una coop, presente e futuro di guerra: nel senso che il gregge è diventato la sua vita. Assieme alle battaglie di piazza. Ha 150 pecore («il massimo possibile per una sola persona») in un tancato enorme sulle colline di Silanus, avamposto sospeso fra il cielo e la sterminata piana di Dualchi. Spettacolo straordinario della natura. Qui, a Pedra Niedda, si lavora tutti i giorni, nessuno escluso. A dare una mano c'è Carlotta, primogenita, quart'anno di Giurisprudenza a Sassari: lei e la mamma fanno tutto quello che nei pascoli vicini è lavoro da uomini. Si comincia alle sei del mattino. Cioè al buio o quasi, estate e inverno. La giornata finisce quando la porcilaia è a posto, la sala mungitura pulita, il fienile riordinato, i gatti liberi di andare a caccia di topi. Conferiscono tra i sedici e i diciassettemila litri di latte l'anno. «Puntiamo sull'igiene e sulla qualità piuttosto che sulla quantità». Mantenere una pecora costa un euro e diciannove centesimi al giorno. Il latte viene venduto a 0,65 (molto meno della metà di un litro di benzina) mentre nel resto d'Italia spunta un euro. Tre-industriali-tre sono in grado di imporre il prezzo a una categoria che coinvolge circa centomila addetti in oltre ventimila aziende. Fatturato complessivo: mezzo miliardo di euro. E fame, miseria e crisi come mai.Graziella è molto determinata, non si piange addosso. Le mani, lunghe e ben curate, le servono per disegnare in aria gli scenari dell'infinita vertenza della sua categoria, le speranze e i precipizi, le missioni in strade di città mai viste prima. Adopera un italiano preciso, tagliente. A tratti sembra un amministratore delegato che riferisce ai soci. Intorno però ha solo balle di fieno, allineate in piccole torri fino a sembrare una fortezza.
La prima volta in campagna?«Avevo trentaquattro anni. Mi occupavo di famiglia e non l'avevo messo in conto. Ma un lutto ha scompaginato tutto. Ho fatto in fretta a imparare. Solo che ogni giorno mi tormentava sempre la stessa domanda: ce la farò?»
Beh, ha imparato anche a mungere.«Non è difficile se qualcuno te lo spiega. Qualche problema, semmai, me lo dava doverlo fare all'aperto, senza un tetto. I tempi sono quelli, non ci puoi fare nulla. Pronta e operativa alle quattro del mattino se passa il camion del latte, alle sei in altri periodi. Unica donna in un ambiente totalmente maschile».
Imbarazzo?«Mai. Anche perché speravo di trarne un reddito. Non si lavora per la gloria. Per me le pecore sono lavoro, non ho il senso poetico della fatica».
E allora?«Finita la prima stagione di mungitura, mi sono detta che dovevo assolutamente rendere tutto meno duro. Ho comprato una mungitrice elettrica e un refrigeratore, ho ricostruito il fienile e il ricovero per le pecore. Mi sono lanciata nell'imprenditoria».
E in famiglia?«In famiglia nessun problema: sono sempre riuscita a conciliare casa, marito e figlie».
Paura?«In campagna? No. Mi capita di provarne pensando a Carlotta, che sgobba quanto me; a Francesca, la più piccola, che ha una grande sensibilità per gli animali. Succede che restiamo nel tancato fino a sera inoltrata: mai avuto paura, però»
Basta seguire una regola: non vedere, non sentire.«Diciamo pure che la campagna non è un mercato, questo è sicuro. Quando arrivo a Pedra Niedda di solito è buio pesto: non vedo e non incontro nessuno».
Dicono che i pastori conoscano le loro pecore una per una.«Non esageriamo, non sono la loro mamma. Ho imparato a governarle, questo sì. Segnalo la mia presenza, appena aperto il cancello, con un colpetto di clacson».
Solitudine?«A tempo pieno, non compresa nel prezzo del latte. Ma non ne ho risentito. Anzi, ogni tanto lo cerco proprio, il silenzio: e allora mi piazzo qui, in alto, a guardare la piana come se fossi a teatro. Questo è il posto dove ricarico le batterie, dove vengo a cercare conforto e forza per andare avanti. Sono un po' strana».In che senso?«Più che parlare mi piace scrivere. Tengo un diario da quando stavo alle elementari. Ho bisogno di annotare pensieri, riflessioni, piccoli episodi. Ogni tanto sfoglio qualche pagina e mi faccio prendere dai ricordi».
La offende essere chiamata pastora?«E perché mai? Ho amiche laureate che mi invidiano per la semplicissima ragione che ho un lavoro. Un lavoro che non rende quanto dovrebbe, che non pareggia il bilancio tra impegno e fatica, ma ce l'ho».
Giornata-tipo.«Raccontiamone una normale. Sveglia alle 6. Operazione numero uno: accendere la tivù, La7, Rainews, per sapere che succede nel mondo. Intanto io e Carlotta ci prepariamo. Il tancato dista una decina di minuti da casa. Le pecore ci sentono arrivare, sanno che stiamo per aprire la sala-mensa».
Poi?«Le chiudiamo nel recinto a gruppi di 28, che non è un numero a caso ma quello delle gabbie utilizzate per la mungitrice. Terminiamo nel giro di un'ora e un quarto. A quel punto le porto al pascolo mentre Carlotta si occupa delle pulizie nei locali della mungitura».
Carlotta ha 24 anni (  con la madre  a  destra  )   
Sposata, un figlio. Dice che all'università, quando le domandano cosa fa, risponde: lavoro in campagna. Seccante parlare di gregge, di pecore? «Questo discorso poteva valere anni fa. I tempi sono cambiati. Il mondo agropastorale è affollato di giovani che studiano. Ho colleghe che sono figlie di pastori e non si vergognano affatto». Nessun complesso d'inferiorità, dunque: semmai apprensione per il futuro, per la sorte di un comparto che sta scivolando lentamente verso il fallimento. A dispetto degli oltre tre milioni di capi ovini a cui si aggiungono trecentomila capre. Adesso c'è molta attesa per le decisioni che prenderà la Commissione per le Politiche agricole di Bruxelles. Il leader del Movimento dei pastori sardi, Felice Floris, ha denunciato gli industriali caseari all'Antitrust per ben due volte. Nel frattempo? Graziella non vede alternative alla piazza.
La protesta è una politica vincente?«Non so se sia vincente ma non ci sono altre strade. Anche se qualche volta va male, com'è successo a Civitavecchia, quando la polizia, appena siamo sbarcati, ci ha chiusi in angolo, assediato».E voi?«Beh, diciamo che per superare il blocco non abbiamo bussato ma è stata davvero pesante. Ora puntiamo su Bruxelles: se non ti vedono e non ti sentono, non si ricordano che esisti. Io l'ho scoperto col mio sindacato».
Cioè?«Lasciamo stare le sigle, non voglio fare polemica. Avevo un sindacato di riferimento che preferiva vie sotterranee di trattativa. Un giorno, per curiosità, sono andata a Tramatza a sentire che dicevano i pastori e mi si è aperto un mondo».
Per una donna fare questo lavoro è peggio?«A livello di testa, noi donne siamo più concrete di voi. L'handicap è la forza fisica: ce ne vuole tanta. Fortuna che abbiamo ottimi rapporti coi vicini di pascolo: ci aiutano, ci danno consigli. Studio anche su un manuale ma non ha la stessa saggezza di un vecchio pastore».
La solidarietà esiste sul serio o è un luogo comune?«Tutt'e due. La solidarietà la tocchi con mano quando ti aiutano a scaricare i bidoni del latte. Per il resto, la categoria è unita e disunita»
Sarebbe voluta nascere altrove?«No. Silanus è un paese che, nei momenti difficili, riesce ad esserti vicino»
.Questo è il bello. Il peggio?«Non lo dico. Scelgo la via dell'omertà».
Ferie, vacanze.«Non esistono. Manco Natale. Il massimo che ho fatto è una puntata al mare, partenza e rientro in giornata. Un viaggio, un viaggio vero che non so neppure dove perché mi vengono in testa cento posti meravigliosi, prima o poi lo farò. Me lo sono giurata».
Quanto guadagna mediamente in un mese?«Tra i 1.200 e i 1.900 euro. Che, ovviamente, non bastano. Ma io sono contenta così: vivo per le mie figlie. Che altro deve fare una madre?»
Come si sopravvive vendendo il latte a 0,65?«Non rinnoviamo le macchine, non facciamo lavori di ristrutturazione, non investiamo un euro in nulla. Aspettiamo. Grazie ai premi comunitari tiriamo avanti e speriamo che piova. Io sono pure fortunata perché in casa arriva lo stipendio di Pietro. Quando penso alle famiglie monoreddito mi vengono i brividi».
Com'è possibile che tre-industriali-tre pieghino ventimila pastori?«Secondo le regole del mercato, a definire un prezzo congruo dovremmo essere noi e gli acquirenti. Invece a decidere, a cantarsela e a suonarsela, sono solo loro».
Vuol dire che siete tanti ma non avete peso contrattuale?«Non siamo uniti, è questo il vero problema. Sa cosa farei io? Bloccherei totalmente la produzione, non conferirei neanche una goccia agli industriali: vediamo quanto reggono. Il guaio è che a quel punto comprano il latte dalla Romania e lo rivendono come sardo. E noi? Noi sempre peggio».
Dove finisce il latte del suo gregge?«Prima facevo capo anch'io ad un'industria. Ho smesso quando ho scoperto che pagava 80 centesimi ai pastori che avevano mille capi e 0,60 a piccoli allevatori come me. Capito? Ci dividono per governarci meglio».
Quale sarebbe il prezzo giusto?«Un euro. Anche perché intanto i mangimi sono aumentati del 40 per cento, un quintale di granturco è passato da 20 a 32 euro. Mica si può durare, così».
I rapporti con la politica: ci crede?«Ho smesso da un pezzo. E sa perché? Perché mi vergogno di un Consiglio regionale che, a voto segreto, boccia la legge per ridurre il numero degli onorevoli. Mi vergogno di un Consiglio regionale pieno di indagati. Mi vergogno di gente che pensa soltanto a riempirsi la pancia».
E la crisi?«La crisi sono loro. Questa è la verità».

                                                  pisano@unionesarda.it

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