questi articoli mi spingonno a riprendere in mano la macchina fotografica ed ricominciare con le regole che ho dimenticato . E che una foto vale più di mille parole ,
dal sito di mario calabresi due storie
La prima
Sono quelle che da sempre racconta con le sue immagini Michele Pellegrino. Che prima di diventare fotografo ha conosciuto la miseria e la fatica. Nella settimana dei suoi 89 anni sono andato a trovarlo e farmi raccontare una vita piena di curiosità e di rispetto per la terra e le persone
Prima mi fa sapere che non ci potremo vedere perché deve fare il pane per la settimana, poi cambia idea – “Pazienza, lo farò lunedì” – così di sabato mattina mi presento alla sua porta. Nevica leggermente, mi apre ma è indaffarato, sta aggiustando la stufa. Lavoro assolutamente necessario visto che il termometro è sotto lo zero. Ci tenevo a venire a trovarlo questa settimana perché è quella in cui compie 89 anni. Volevo farmi raccontare come si diventa il fotografo della fatica, del silenzio e delle nuvole.
© Michele Pellegrino
Michele Pellegrino è nato il primo febbraio del 1934 a Chiusa di Pesio, sotto le montagne, dove il Piemonte confina con la Francia e la Liguria, e non se ne è mai andato. La casa in cui vive se l’è costruita tutta da solo, nei fine settimana, usando come pali di sostegno gli alberi del bosco di suo padre. Non è stato fermo un solo giorno nella sua vita: «Ho ancora tanti lavori in testa, almeno cinquanta, ma mi devo sbrigare perché mercoledì compio 89 anni». Sul tavolo c’è il suo ultimo libro, si intitola “Prima che il tempo finisca”. «Il mio tempo sta finendo ma anche quello dei paesaggi che ho conosciuto. Mi ricordo che andavo in montagna e c’era tanta di quella neve che ci si perdeva dentro, oggi è pochissima e d’estate è una pietraia che frana. Non riconosco più il mondo con cui sono cresciuto».
© Michele Pellegrino
Mi siedo ad ascoltarlo, saranno due ore e mezza indimenticabili. Quest’uomo, che non avevo mai incontrato prima, ha così tanta passione che potrebbe accendere con la sua energia le luci di tutto il paese. Sembra non essere mai stanco, non gli manca mai una parola, un nome, un’idea. Il passato è presente e tutto è vivo: «Sono un ignorante totale. Un analfabeta. Mi sono fermato alla terza elementare, era il 1943, tempo di guerra. Ogni volta che si sentivano gli spari della lotta partigiana la maestra ci mandava tutti a casa. Ricordo di aver visto passare davanti a casa un corteo di persone disperate che sfollavano con i carri e i materassi: erano quelli che scappavano dal paese di Boves bruciato dai nazisti. Ricordo i fascisti che trascinavano due ragazzi di vent’anni, andavano verso il cimitero, sono stato per alcuni minuti immobile ad aspettare poi ho sentito i colpi. Della guerra ricordo quasi tutto. Avevamo un orto e i tedeschi ci avevano piazzato una mitragliatrice per sparare sui soldati inglesi che venivano paracadutati sulle colline. Non potendo più andare a scuola mia madre mi ha mandato “da servitore” a lavorare nei pascoli e nelle cascine. Avevo solo nove anni. In cambio di un’estate di lavoro la mia famiglia veniva ricompensata con un sacco di patate o mezzo di castagne. Il primo lavoro fu in una vecchia grangia dei monaci certosini, dovevo seguire gli animali al pascolo. Dormivo su una branda nella stalla, c’erano vacche, conigli e dei porcellini d’India che raspavano il terreno e dissotterravano le ossa dei frati sepolti nei secoli. Ero terrorizzato».
© Michele Pellegrino
«Era una vita durissima e la cifra di quel mondo contadino erano la grettezza e l’avarizia. Alla fine della guerra venni mandato da un uomo che solcava il campo con il bue e con un gigantesco aratro di legno. Una fatica bestiale e bestemmie che fioccavano da tutte le parti. A mezzogiorno, per pranzo, mi diede un pezzo di pane e una scala, senza dire una parola. Ero perplesso, la appoggiai per terra e cominciai a mangiare il pane. Alla sera mi disse soltanto: “Perché non l’hai usata? Ti serviva per prendere le ciliegie”. Mi faceva dormire sull’essiccatoio dove seccava le castagne per conservarle. Sentivo i topi che correvano senza sosta. Sono scappato dopo quattro notti. Mia madre era infuriata che avessi abbandonato un lavoro e allora mi mandò da uno che recuperava i chiodi per riusarli, il mio compito era quello di drizzarli. A tredici anni trovai un posto nella filanda, curavo i bozzoli, il primo passo della produzione della seta».
Il racconto di Michele Pellegrino è un flusso inarrestabile, provo a interromperlo per chiedergli quando è diventato fotografo ma mi fa segno con la mano di aspettare, prima devo capire la vita e il mondo in cui si è formato: «Mia nonna era rimasta vedova per colpa dell’influenza spagnola, il suo secondo marito suonava la fisarmonica, ogni anno partiva dopo la raccolta delle castagne e andava a piedi in Francia, seguendo l’alta via del sale, per guadagnarsi da vivere come suonatore. Tornava in primavera per occuparsi della campagna. In paese c’era un altro che viveva suonando la fisarmonica, ma era meno bravo e molto geloso, e una sera di nebbia lo aspettò fuori dal camposanto, aveva in testa un lenzuolo e in mano una candela. Quando lo vide arrivare cominciò a dire: “Tu stai per morire e ti puoi salvare solo se smetti di suonare”. Il marito di mia nonna scappò di corsa e si impressionò talmente tanto che non ha mai più toccato lo strumento».
Un momento dell’incontro con Michele Pellegrino
Dopo le mucche, i chiodi e i bozzoli lo mandarono in un laboratorio di ceramica: «Facevo un lavoro pesantissimo e pericoloso: dovevo trasportare dei sacchi di terra da cinquanta chili e portarli su un banco vicino al camino. C’era un caldo insopportabile, ma io volevo comprarmi la bicicletta e facevo anche gli straordinari. Ricordo il giorno che sono andato al negozio, dopo averla scelta sono corso a casa a prendere i soldi. Ma la scatola con i miei risparmi era vuota, li aveva usati mia madre. Allora mio padre, per consolarmi, mi fece degli sci di legno, salivo fino a 2000 metri con delle pelli di foca fatte con i pezzi di tela, andavo fortissimo. Avevo bisogno di una giacca a vento, allora andai dalla
Michelina che faceva le giacche con la stoffa dei paracadute inglesi recuperati dopo la guerra».
La maggiore età per Michele è quella in cui diventa muratore e quando ha vent’anni, siamo nel 1954, viene mandato a Sanremo per lavorare nel cantiere di una villa. Dormiva in una baracca di legno nel giardino e la sera, prima di coricarsi, suonava la tromba o l’armonica a bocca. Nella casa accanto viveva una ragazza di 17 anni, Margherita, figlia della custode, che prese ad affacciarsi per ascoltare quelle serenate improvvisate. Si sposarono quattro anni dopo, alla fine del suo servizio militare negli Alpini. Viaggio di nozze in Valle d’Aosta. Sono ancora insieme. «Quell’armonica del nostro amore e sempre con noi, la teniamo in camera da letto», lo interrompe Margherita.
Lei lo ascolta con amore, sorride e lo prende un po’ in giro. Ad un certo punto, mentre lui sta raccontando un incidente in montagna in cui è sopravvissuto per miracolo, lei passa e chiede: «Siamo già nel crepaccio?».
© Michele Pellegrino |
Durante il viaggio di nozze prende in mano la sua prima macchina fotografica, gliel’ha prestata un amico, ma non ha idea di come usarla. Così la apre per cambiare il rullino e brucia tutto: «Si è salvata soltanto una foto e nemmeno memorabile». Ma servirà un incidente per incontrare la folgorazione che ha cambiato la sua vita.
«Vado a Cervinia a fare un corso di sci, sono al Plateau Rosa, ci sono venti gradi sottozero, cado da fermo e mi fratturo malamente tibia e perone. Vengo operato e mi ingessano per cento giorni. Una noia mortale, così inizio a leggere tutto quello che trovo. Mio fratello mi porta un libro di cinema e vengo folgorato dalle fotografie».
In quel momento lavorava con successo come piastrellista ma si compra una macchina fotografica tedesca e comincia a scattare appena può. Prende coraggio e manda alcuni suoi scatti di paesaggio alla rivista “Fotografare”. Dopo due mesi, gli rispondono che glieli comprano. Pensa che sia un miracolo. È la scintilla, ha passato i trent’anni e decide di licenziarsi e cominciare una nuova vita. Apre un suo studio, si mantiene fotografando matrimoni, ma ha in testa una sola cosa: raccontare storie. Deve però trovare un proprio stile, aveva copiato troppe cose ed era confuso, poi incontra il libro che lo illumina e gli indica la strada: “Un paese” dell’americano Paul Strand con testi dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini. Un reportage tra gli abitanti di Luzzara, piccola comunità contadina sulla sponda romagnola del Po.
© Michele Pellegrino
Nel 1972 pubblica il suo primo libro “Genti di provincia”, ma non è contento, vuole essere più focalizzato e radicale, vuole raccontare quello che ha vissuto e che vede ogni giorno. Con il secondo libro trova la sua cifra, si chiama “Profondo nord” e parla dello spopolamento della montagna. Sarà un grande successo: «Entravo nelle baite e ascoltavo, e poi scattavo. Non ho mai chiesto a nessuno di mettersi in posa e non ho mai usato il flash per una questione di rispetto. Ci voleva la mano ferma ma non mi è mai mancata». Una delle foto che ama di più e che tiene sopra la sua poltrona in salotto l’ha fatta nel 1975 in Val Varaita: si vede un vecchio uomo che si sta facendo la barba accanto al letto sfatto. C’è l’atmosfera di un mondo che sta scomparendo e che Michele Pellegrino coglie nel suo tramonto. «La fatica come compagna di vita, io la fatica l’ho provata, ero uno di loro».
È convinto che la fotografia debba far vedere le cose che in genere nessuno guarda, deve spostare lo sguardo. E poi deve raccontare. «Una bella foto la può fare chiunque ma la differenza è mettere un po’ di foto insieme che raccontino una storia, che illuminino una vicenda umana. Ho lavorato più di otto anni per fare le clausure, suore, frati, eremiti, un lavoro unico e difficilissimo. Un’esperienza totale. Ho conosciuto di tutto e ho perso la fede».
Il mare in Liguria vicino Bergeggi (© Michele Pellegrino)
Ad un certo punto, vent’anni fa, il suo sguardo scende dalle montagne e nei suoi libri comincia ad apparire anche il mare: «Ho imparato a nuotare a settant’anni, prima avevo il terrore dell’acqua. Quando l’ho superato ho cominciato a fotografare il mare». Lo ascolto da più di due ore, adesso mi sta parlando di futuro, gli chiedo quale sia il libro che ha amato di più e mi sorprende: «Come emozione è sempre l’ultimo che ho fatto. Durante il Covid ho fotografato le nuvole attraverso le finestre della casa, scattando dai quattro punti cardinali. Un racconto solo di nuvole. Ci sono forme che durano un secondo o due, ho costruito una storia piena di fascino e nel momento più difficile ho alzato lo sguardo verso l’alto. Questo mi parla di futuro».
la seconda
Mentre si avvicinavano le cento primavere cresceva la sua incredulità. Passavano gli anni e i nostri incontri avevano un non detto finale, una sorta d’imbarazzo mal celato: quando ci vedremo? «Non so se riuscirò a prendere l’aereo per l’Italia ma ti aspetto a New York dopo l’estate, il foliage dell’autunno non posso proprio perdermelo».Tony Vaccaro, fotoreporter statunitense che, dopo essersi arruolato nell’esercito con una macchina fotografica ben nascosta, scattò alcune tra le immagini divenute simbolo della Seconda guerra mondiale
Tony Vaccaro era nato il 20 dicembre 1922 a Greensburg in Pennsylvania, famiglia di origini molisane, legato alla sua terra come rifugio e luogo della serenità. Mi capitava di chiedergli del segreto della sua longevità, di quanto contava il passato di combattente, soldato e fotografo della 83ma divisione fanteria dell’esercito degli Stati Uniti. Non era facile avvolgere il nastro dei suoi ricordi, talvolta cambiava argomento per non cedere alle curiosità di chi, come me, era interessato allo sbarco in Normandia del giugno 1944, agli addestramenti, le attese, le storie di soldati rimasti senza nome nella lunga traversata verso Berlino. Aveva ventidue anni il 6 giugno 1944 quando si trovò sospeso tra il sud dell’Inghilterra e le coste della Normandia, le condizioni meteo proibitive, le imbarcazioni più grandi non riuscivano ad avvicinarsi alla costa. «Cominciava a fare buio. Eravamo in tanti. Si creò una fila, una specie di lunga attesa per scivolare fuori dalla pancia della nave. Poi finalmente il piede a terra, lo scarpone umido, bagnato, tanta paura di non potercela fare. Tutto sembrava bruciare. Dopo l’acqua, il fuoco. Ci stringiamo l’uno all’altro e andiamo avanti».Omaha Beach, Normandia, 1944. Tony Vaccaro © Getty ImagesPrigioniero tedesco disinnesca una mina. Omaha Beach, Normandia 1944. Tony Vaccaro © Getty Images
Preferiva parlare di cultura italiana, di letture e film, cercare ristoranti che avevano conquistato fama e clienti pubblicizzando la pasta o la pizza con farine originali. Per trovare i segni della presenza italiana «bisogna conoscere bene New York e la sua evoluzione, non ci sono più i quartieri e le aree definite, meglio curiosare fuori dai giri turistici e vedrai che le sorprese non mancano». E il suo segreto, così lo chiamava con un grande sorriso stampato sul volto, era la curiosità insaziabile. Camminava per chilometri salendo e scendendo dalla metropolitana newyorchese, sempre sul primo vagone, meno affollato e ben posizionato per guardare indietro la vasta umanità che popola le fermate. Faticavo a stargli dietro anche quando aveva superato i 90. «Non uso lo zoom tranne in casi di necessità. Meglio muoversi con le proprie gambe, cercare di essere vicini agli oggetti dei nostri desideri, alle immagini che si vogliono fotografare». Il moto quotidiano era diventato una sua routine, conosceva New York palmo a palmo, riusciva persino a trovare i segni delle assenze, dei cambiamenti nel tessuto della città spesso incomprensibili e nascosti.
Il “bacio della Liberazione”, la foto scattata da Tony Vaccaro a Saint-Briac-sur-Mer, in Francia, il giorno di Ferragosto del 1944. © Monroe Gallery
La foto scattata da Tony Vaccaro l’11 settembre del 2001 a New York. I passanti guardano la seconda torre che viene giù
La mattina del 9/11 segue le notizie, prende la macchina fotografica e cerca di fissare al di là dell’East River immagini di una sconvolgente mattinata. Guarda i volti dei passanti mentre la seconda torre viene giù, cerca conforto negli sguardi attoniti dei tanti newyorchesi che si chiedono cosa sia successo, perché tanta foga distruttrice? Si ferma in un parco al di là del fiume, le lacrime per una città in guerra lo portano indietro fino ai ricordi delle battaglie sul suolo del vecchio continente nella fase cruciale della Seconda guerra mondiale. Ne parla con timore, vorrebbe capire e leggere cosa scatena l’odio verso altri esseri umani dopo che tanta violenza ha attraversato il secolo scorso. Rimane fino alla fine un inguaribile ottimista, fiducioso nelle sorprese della vita. Aveva preso il Covid nella prima ondata, se la cava con un breve ricovero in ospedale dove fotografa e si fa fotografare. Fa in tempo a gioire per l’arrivo dei vaccini e mi chiede della situazione in Italia, «vedrai è solo questione di tempo, ce la faremo anche stavolta».
La mattina del 9/11 segue le notizie, prende la macchina fotografica e cerca di fissare al di là dell’East River immagini di una sconvolgente mattinata. Guarda i volti dei passanti mentre la seconda torre viene giù, cerca conforto negli sguardi attoniti dei tanti newyorchesi che si chiedono cosa sia successo, perché tanta foga distruttrice? Si ferma in un parco al di là del fiume, le lacrime per una città in guerra lo portano indietro fino ai ricordi delle battaglie sul suolo del vecchio continente nella fase cruciale della Seconda guerra mondiale. Ne parla con timore, vorrebbe capire e leggere cosa scatena l’odio verso altri esseri umani dopo che tanta violenza ha attraversato il secolo scorso. Rimane fino alla fine un inguaribile ottimista, fiducioso nelle sorprese della vita. Aveva preso il Covid nella prima ondata, se la cava con un breve ricovero in ospedale dove fotografa e si fa fotografare. Fa in tempo a gioire per l’arrivo dei vaccini e mi chiede della situazione in Italia, «vedrai è solo questione di tempo, ce la faremo anche stavolta».