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8.12.14

India: l'Università Mussulmana apre la biblioteca alle donne dopo mezzo secolo


Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo, una storica università mussulmana del nord dell'India ha ammesso l'ingresso delle donne nella principale biblioteca. Un gruppo di studentesse della Aligarh
Muslim University (Amu) sono entrate ieri mattina nella storica Maulana Azad Library, dopo l'ordine di un tribunale che ha costretto l'ateneo a rimuovere l'arcaico divieto che discriminava le ragazze. L'università pubblica che sorge ad Aligarh, nello stato dell'Uttar Pradesh, è stata fondata 94 anni fa, prima dell'Indipendenza indiana, ed è tra le più antiche e prestigiose del Paese asiatico. "E' un momento storico per le donne di questo campus - ha detto una giovane al Times of India - e anche per il prestigio dell'università".
   Donne indiane impegnate nello studio
 La polemica era scoppiata circa un mese fa quando il vicerettore Zameeruddin Shah aveva detto che l'ingresso alle studentesse nella storica biblioteca centrale non era possibile perché le ragazze "avrebbero attirato troppi studenti maschi" e "non c'erano spazi sufficienti". Dopo l'introduzione del divieto negli Anni Sessanta, a diverse riprese le associazioni studentesche femminili avevano chiesto di poter studiare nella biblioteca (che permetteva soltanto il prestito dei libri on line), ma la loro domanda era sempre stata respinta.

15.9.13

violenza sulle sulle donne perdonare o non perdonare il primo schiaffo ? e rispondere come india ad uno strupro con la pena di morte ?

 dall'unione  sarda   d'oggi  cronaca  di OLBIA. Le testimonianze delle donne vittime degli ex compagni assistite al Centro antiviolenza

«Mai perdonare il primo schiaffo»

Un'imprenditrice: «Picchiata e derubata, per lui ero una schiava»

OLBIA «Perdonare uno schiaffo a un uomo è come farsi la prima pera: entri in un abisso dal quale rischi di non uscire più». Marta ha 43 anni, ha studiato, è una piccola imprenditrice. Sa usare bene le parole e oggi che ha fatto, e ancora sta facendo, una lunga terapia, sa anche analizzare quello che le è successo. Marta è una delle 200 donne seguite al Centro antiviolenza di Prospettiva donna. Vittima di violenza fisica, sessuale, psicologica ed anche economica. Lui, oltre alla dignità, era riuscito a portarle via parte della società e molto denaro. I processi sono ancora in corso ma il suo ex compagno è stato allontanato ed è fuori dalla Sardegna.
L'INCONTRO «Quando l'ho conosciuto avevo un'attività in un centro turistico, lavoravo bene e guadagnavo, ero single. L'ho conosciuto tramite amici, era un uomo che si sapeva vendere bene, anche nei rapporti sociali. Si presentava come una persona distinta, vestiva griffato, in realtà era un emerito truffatore. Lo guardavo e, istintivamente, non mi fidavo. Le mie amiche invece premevano, dicevano che mi dovevo sistemare, che era un bel tipo, affascinante. Lui era un grande manipolatore, diceva che mi avevano tarpato le ali e che avrei dovuto volare alto. Pian piano ho iniziato ad avvicinarmi, ci siamo frequentati un po', poi se ne è andato per sei mesi».
LA RELAZIONE «Ad un certo punto è tornato e io nel frattempo avevo aperto un secondo negozio. Fino a quel momento, non avevo mai lavorato con una banca. Contavo sui risparmi e sul mio lavoro, a piccoli passi. Lui mi diceva che noi sardi non combiniamo niente a livello imprenditoriale perché abbiamo questa mentalità. Così, mi ha convinto a farlo entrare in società, una snc. Siamo andati dal notaio, quando mi fermavo a chiedere spiegazioni, lui mi diceva di non far perdere tempo, che era tutto sotto controllo. Quando siamo tornati a casa, ho letto bene. Eravamo al cinquanta per cento e lui non aveva messo un euro. In caso di morte di uno di noi, il patrimonio sarebbe passato all'altro. Ho chiesto spiegazioni ed è arrivato il primo schiaffo. Ha fatto una scenata, dicendo che dovevo fidarmi di lui».
L'INFERNO «Da quel momento la mia vita, lentamente, è diventata un incubo. Diceva che con me ci voleva il bastone e la carota. Mi picchiava e poi chiedeva perdono. Prima una volta al mese, poi una volta ogni quindici giorni, alla fine tutti i giorni. Lo faceva per qualsiasi scemenza, anche per un piatto che secondo lui non andava bene, per una fattura che non si trovava. Ero diventata una schiava, a casa, in cucina sul lavoro. Io facevo tutto, lui maneggiava i soldi che ben presto sono spariti. Una volta siamo rientrati a casa, mi ha chiuso nello sgabuzzino e ha iniziato a prendermi a schiaffi. Ad ogni colpo sentivo come il cervello che si scuoteva nella scatola cranica. Più di una volta sono uscita con l'occhio nero, una volta con la gamba livida, dall'anca a sotto il ginocchio. Un giorno, eravamo in una spiaggia deserta e ha iniziato a tirarmi le pietre in testa, mi sono salvata tuffandomi in acqua».
LA DENUNCIA «Ad un certo punto ho deciso di denunciarlo,ma in realtà solo il 20 per cento di me voleva farlo. I carabinieri mi hanno aiutato molto, il maresciallo mi diceva lei ha bisogno di aiuto ma io ero confusa, nel delirio più totale, come se vivessi in un quadro astratto. Poi lo hanno arrrestato e il giudice gli ha dato gli arresti domiciliari. A casa mia e in azienda. Sono dovuto andare via io, dai miei genitori. Poi sono arrivata al Centro antiviolenza. Ho avuto l'assistenza legale ma soprattutto quella psicologica».
LA RINASCITA «Ora sono riuscita a riavere la mia azienda e sto cercando di riportare tutti i conti in ordine. La cosa più difficile però è ritrovare se stesse. Mi aveva detto talmente tante volte che ero una nullità che alla fine me ne ero convinta anch'io. Per ogni colpo ricevuto il tempo di guarigione aumenta, in modo esponenziale. Quando ti picchiano, entri in uno stato di dipendenza, in un rapporto tra vittima e carnefice che non capisci subito, solo quando te lo spiegano. Lui ti picchia e ti chiede perdono e tu ci vuoi credere, e più perdoni più entri in una spirale di dolore senza fine».
Caterina De Roberto

Il racconto di un'africana

I figli rubati: la punizione per chi si ribella

OLBIA La violenza non fa distinzione di colore o nazionalità. Ma per le straniere è ancora più dura. Perché sono sole, non conoscono la lingua e spesso devono fare i conti con un contesto sociale che si schiera dalla parte del marito.
Bambi, così si fa chiamare, ha 28 anni e viene da un paese africano. Ha un dolore difficile da raccontare: suo marito un giorno ha preso i due figli dalla casa della nonna materna e li ha portati via. È la punizione perché ha osato ribellarsi. Non ha più notizie di loro da un anno. La storia inizia nel 2011. «Sono arrivata qui per raggiungere mio marito. Era il marito che la mia famiglia aveva scelto per me». Fino a quel momento l'aveva visto poco, il tempo di mettere al mondo due bambini, uno è ancora neonato quando Bambi arriva in Italia. «Lo volevo raggiungere ma lui cercava di scoraggiarmi, non mi mandava i soldi per il viaggio, sono riuscita a risparmiare e sono arrivata lo stesso. Ma quando sono sbarcata dall'aereo, lui non c'era e il telefono era staccato». È il panico: Bambi non conosce la lingua e per lei Olbia è solo uno sconosciuto punto sulla carta geografica. Oltre al numero del marito, ha solo un altro contatto. «Lui non mi rispondeva. Ho scoperto che aveva un'altra moglie e altri figli e di me non ne voleva sapere». Bambi finisce a dormire per strada ed è qui che la incontra un'operatrice che si occupa di immigrati che la indirizza al Centro di Prospettiva donna. Era sola, terrorizzata e comunicava solo con qualche parola di inglese. «Loro mi hanno aiuata molto, ho imparato la lingua, studiato, trovato lavoro». Ma quando Bambi decide di chiedere il divorzio inizia la guerra. «Il marito - spiega Patrizia Desole, di Prospettiva Donna - in realtà voleva tenere due mogli, una al suo paese, l'altra qui. Sono iniziate le minacce, lo stalking. E con lui si è schierata la comunità». Mentre Bambi raccoglieva i soldi per tornare a vedere i bambini, lui la precede e li porta via. «Si à presentato a casa di mia madre, ha detto che li portava a fare una passeggiata e non li ha più riportati. Anche il Tribunale del mio paese mi ha dato ragione ma ormai da un anno non so dove sono. Oggi il più grande compie quattro anni».(c.d.r. )

La mia risposta   cade nel vento
 sul secondo fatto articolo trato dalla  nuova sardegna  d'oggi 

IL CASO 
India, contro l’orrore degli stupri la pena di morte non serve 
Siamo choccati per le macabre notizie dall’India: quattro ragazzi (idioti e sadici) hanno stuprato, facendola morire, una ragazza, e l’altro ieri sono stati condannati a morte. Saranno impiccati. Per le strade gli indiani esultano, specialmente le donne. Molti chiedono la pena di morte.Ma una scrittrice indiana avverte: «Attenzione, se scatta la condanna a morte, gli stupratori non lasceranno più una vittima viva, per timore che poi li denunci». Ieri piombava un’altra notizia dall’India, lugubre come le precedenti: una ragazza di 17 anni, innamorata di un coetaneo di classe sociale inferiore, è stata impiccata in casa dai fratelli. Eppure le pene per i delitti sulle donne sono appena state aumentate. E allora, aumentarle serve o non serve? Se c’è la pena di morte, l’uomo che sta per stuprare o uccidere una donna si ferma o non si ferma? La paura della morte cambia o non cambia il violentatore e l’assassino? Quasi tutti rispondono di no. Qui vorrei rispondere di sì. Non è vero che, se sa di morire, il criminale resta indifferente. Cambia, eccome. Per mostrare che lo stupratore-assassino non teme la morte, i fautori di questa tesi usano un film tratto da una storia vera, intitolato “Dead man walking”, che girò anche per l’Italia con grande scalpore. Si vede Sean Penn in prigione, l’accusa è di aver stuprato e ucciso una ragazzina in un bosco. Lui nega sempre. Arriva il giorno dell’esecuzione, lo prendono dalla cella e lo portano verso la camera dell’iniezione letale (da qui il titolo: “Uomo morto in marcia”, frase con cui i carcerieri si avviano per il lugubre tragitto), attraverso un oblò lo guardano i parenti della bambina morta, i giornalisti, il pubblico che ama queste cose. Il condannato alza gli occhi e dice: «Sì, l’ho uccisa io. Le ho fatto tutto quello che sapete, e molto di più». Chi lo piega fino a farlo confessare? La morte. Avrebbe confessato, senza la morte? Mai. Ha importanza morale la confessione? Certo: mostra la redenzione, il ritorno nell’umanità. E allora, è giusto condannare a morte? No, mai. C’è da rallegrarsi per i quattro ominastri perversi che saranno impiccati in India? No, c’è da vergognarsi. E se impiccheranno i fratelli che hanno ucciso la diciassettenne innamorata di un coetaneo povero, potremo dire che l’India migliora un po’? No, peggiora. Le donne temono che gli uomini non possano capire la mostruosità dello stupro. Lo stupro è un crimine che una donna può capire e giudicare e punire meglio di un uomo. Sì, è vero. Lo stupro è un crimine enorme (significa: fuori norma), e merita una pena enorme. Specialmente lo stupro con uccisione. C’è un’altra storia che risponde a questa esigenza, un altro film, intitolato. Il segreto dei suoi occhi. Un uomo amorale e asociale stupra e uccide una donna, ma dopo la condanna (siamo in Argentina, dittatura militare) si mette a collaborare con la polizia e torna libero. Il fidanzato della vittima lo scopre, lo cattura e lo chiude in un fienile, in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Segregato in uno sgabuzzino per decenni, lo stupratore-assassino diventa pazzo e implora il suo custode di ucciderlo, ma con la morte quello smetterebbe di soffrire e il custode questo non lo vuole, vuole che soffra per sempre, finché respira. Il senso è: l’ergastolo è più crudele della fucilazione. L’ergastolo basta, anzi avanza. La soluzione non è uccidere. E neanche condannare per sempre. Per le violenze sessuali con uccisione, le indiane chiedono la morte, le italiane l'ergastolo. Per dire no alle indiane, dobbiamo dire no alle italiane. Se siamo contro la pena di morte, dobbiamo essere anche contro l'ergastolo. Che cos’è l’ergastolo? È una morte che non ha fine.

 la seconda  è no  non si risponde  ad  un crimine odioso e turpe  con un altro crimine per  l'ergastolo idem bastano 30  anni senza (  almeno  per  i primi 20  senza benefici ) 

9.10.12

Gandhi: puritano, misogino e sessista? oppure si tratta di una decontestualizzazione ?

da  http://blog.donnamoderna.com/sessoeluna/


114349563_844e692d48.jpgSono consapevole del fatto che, in un mondo così privo di valori come quello in cui viviamo, parlare male di Gandhi sia un po’ come sparare sulla Croce Rossa….
Però, sono altrettanto convinta di almeno due cose: 1) che la storia debba sempre prevalere sul mito 2) che gli Eroi umani non siano mai totalmente deificabili, in quanto sono fatti di materia molto fragile, come del resto tutti noi.
E allora, anche il grandissimo Ghandi può (e deve) essere guardato non solo come un mito o come un Eroe, ma anche come un uomo del suo tempo, che pensava, diceva e faceva cose che, con il passare degli anni, non appaiono più condivisibili.
Se la revisione storica colpisce tutti i personaggi, compreso Gesù Cristo, figuriamoci se non poteva colpire anche Gandhi, l’uomo che liberò l’India e distrusse il potente impero britannico senza mai alzare la voce, solo con il suo movimento non violento.
Un articolo pubblicato qualche giorno fa sul giornale progressista britannico The Guardian e firmato da Michael Connellan, uno scrittore che vive a Nuova Delhi, descrive un Gandhi molto diverso da quello che tutti noi conosciamo e celebriamo, soprattutto quando si parla di diritti umani.
Il leader spirituale indiano viene presentato in questo articolo come un uomo non particolarmente attento e sensibile verso il genere femminile: un personaggio che oggi potrebbe essere definito in modo spregiativo un “puritano“, oltre che sessista emisogino. Ecco allora la sintesi dell’articolo:
Il Mahatma (che significa “Grande Anima”) ha fortemente contribuito a rendere l’India una delle nazioni più represse, dal punto di vista sessuale, che esistono al mondo, ed un luogo veramente terribile per le donne.
Gandhi disprezzava infatti i propri desideri sessuali, e disprezzava il sesso in qualsiasi contesto, tranne che per la procreazione.  Riteneva che il sesso fosse dannoso per la salute di un individuo, e che la libertà sessuale avrebbe portato la popolazione indiana al fallimento. Per questo dunque, racconta Connellan, consegnò il suo Paese a quello cheMartin Lutero chiamava, già ai suoi tempi “l’inferno del celibato”. Il Mahatma stesso fece del resto voto di castità (senza peraltro consultare la moglie).
Nei discorsi di Gandhi, così come nelle ricostruzioni storiche dei suoi agiografi, si sostiene che le donne dovevano essere considerate pari agli uomini e che il loro inserimento a pieno titolo nella società sarebbe stato fondamentale nella lotta per l’indipendenza dell’India. Niente dunque avrebbe potuto lasciar supporre un pregiudizio così forte di Gandhi verso le donne, anche perché la stessa forma di protesta da lui adottata, quella “non violenta”, viene da sempre considerata come un metodo di lotta “femminile”, capace di neutralizzare con la non violenza la brutalità “maschile” del dominio britannico.
Sembra però, da molti fatti e fattarelli, che Gandhi sulle questioni di genere la pensasse in modo decisamente ostile alle donne. Ad esempio, quando il leader spirituale indiano era ancora un dissidente in Sud Africa e scoprì che un uomo aveva molesto due ragazze, sue seguaci, Gandhi rispose a questa violenza tagliando personalmente i capelli delle due giovani, al fine di “neutralizzare l’occhio del peccatore “, che veniva così “sterilizzato”. Gandhi stesso parlò di questo episodio nei suoi scritti, lasciando trasparire un messaggio durissimo verso il genere femminile: le donne hanno la responsabilità delle aggressioni a sfondo sessuale che subiscono.
Una tale eredità culturale sembra che permanga ancora, nell’India moderna. Nell’estate del 2009 ad esempio, in alcuni Colleges dell’India del nord vi furono casi di molestie sessuali sulle studentesse. La reazione delle autorità fu quella di vietare alle donne di indossare i jeans, poiché il vestire all’occidentale veniva percepita, già di per sé, come una “provocazione” femminile da parte dei maschi del campus.
Gandhi pensava che le donne violentate perdessero il loro valore in quanto esseri umani. Sosteneva inoltre che i padri potevano essere giustificati nell’uccidere le figlie che avevano subito una violenza, per il bene della famiglia e l’onore della comunità.
Gandhi, stranamente, vista la povertà della nazione, condusse anche una guerra contro icontraccettivi, definendo apertamente le donne indiane che li usavano come “prostitute”.
Altra stranezza: per mettere alla prova il suo voto di castità, Gandhi cominciò a dormire accanto a giovani donne nude o svestite, compresa sua nipote, causando sconcerto fra i suoi discepoli.
Verso la fine della sua vita, la Grande Anima moderò moltissimo le sue idee, ma ormai, sempre secondo l’autore dell’articolo, il danno era fatto, e questa eredità culturale la si può osservare ancor oggi in ogni articolo di giornale, quando si racconta che la vittima di uno stupro si è suicidata, a causa della “vergogna“.
Per un’altra generazione dunque, dopo quella di Gandhi, sarebbe sopravvissuto l’atteggiamento gandhiano verso le donne, che possono essere tutt’oggi considerate, a seconda del loro comportamento, fonte di orgoglio o di vergogna, per gli uomini che le “possiedono”.Secondo lo scrittore indiano Singh Khushwant, citato nell’articolo, “i nove decimi della violenza e della infelicità di questo Paese deriva dalla repressione sessuale”. L’India di oggi, secondo il World Economic Forum, è, tra l’altro, uno tra i Paesi del mondo in cui la parità uomo-donna è meno realizzata.
I riformatori indiani si battono duramente contro le consuetudini del patriarcato, della dote, dei delitti d’onore, così come contro l’Aids, il feticidio femminile o l’abbandono delle bambine appena nate, ma hanno difficoltà a superare questi antichi costumi e pregiudizi indiani che non solo non sono stati combattuti da Gandhi, ma che anzi sarebbero stati da questi avvalorati.
Se la genialità di Gandhi fu dunque quella di realizzare una grandissima rivoluzione politica non-violenta, ricorda Connellan, la violenza dei suoi pensieri nei confronti delle donne ha contribuito ad incentivare innumerevoli delitti d’onore e ad una grande sofferenza fra la popolazione femminile dell’India.
Potremmo concludere con questa incisiva citazione di George Orwell, che ho letto nell’articolo: “i santi dovrebbero essere considerati colpevoli fino a che non vi è la prova che essi sono innocenti” (Reflections on Gandhi, 1949). Bella citazione, certo, che ci riporta al discorso iniziale, ovvero che la santità non è di questo mondo.
Permettetemi però di lasciarvi sempre con Orwell, ma con un’altra sua brillante citazione: “Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente anche le cose che non vuole sentire”…. Questo significa non solo raccontare questi fatti poco gratificanti sul massimo leader spirituale indiano, ma anche poter dire agli inglesi tutti, conservatori e progressisti, che scrivano sul Guardian, così come sul Times, che non possiamo far finta di non capire che per loro la perdita del sub-continente indiano, ad opera di Gandhi, è ancora una ferita molto difficile da rimarginare.
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Immagine: DbKing

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