dall'unione sarda d'oggi cronaca di OLBIA. Le testimonianze delle donne vittime degli ex compagni assistite al Centro antiviolenza
«Mai perdonare il primo schiaffo»
Un'imprenditrice: «Picchiata e derubata, per lui ero una schiava»
OLBIA «Perdonare uno schiaffo a un uomo è come farsi la prima pera: entri in un abisso dal quale rischi di non uscire più». Marta ha 43 anni, ha studiato, è una piccola imprenditrice. Sa usare bene le parole e oggi che ha fatto, e ancora sta facendo, una lunga terapia, sa anche analizzare quello che le è successo. Marta è una delle 200 donne seguite al Centro antiviolenza di Prospettiva donna. Vittima di violenza fisica, sessuale, psicologica ed anche economica. Lui, oltre alla dignità, era riuscito a portarle via parte della società e molto denaro. I processi sono ancora in corso ma il suo ex compagno è stato allontanato ed è fuori dalla Sardegna.
L'INCONTRO «Quando l'ho conosciuto avevo un'attività in un centro turistico, lavoravo bene e guadagnavo, ero single. L'ho conosciuto tramite amici, era un uomo che si sapeva vendere bene, anche nei rapporti sociali. Si presentava come una persona distinta, vestiva griffato, in realtà era un emerito truffatore. Lo guardavo e, istintivamente, non mi fidavo. Le mie amiche invece premevano, dicevano che mi dovevo sistemare, che era un bel tipo, affascinante. Lui era un grande manipolatore, diceva che mi avevano tarpato le ali e che avrei dovuto volare alto. Pian piano ho iniziato ad avvicinarmi, ci siamo frequentati un po', poi se ne è andato per sei mesi».
LA RELAZIONE «Ad un certo punto è tornato e io nel frattempo avevo aperto un secondo negozio. Fino a quel momento, non avevo mai lavorato con una banca. Contavo sui risparmi e sul mio lavoro, a piccoli passi. Lui mi diceva che noi sardi non combiniamo niente a livello imprenditoriale perché abbiamo questa mentalità. Così, mi ha convinto a farlo entrare in società, una snc. Siamo andati dal notaio, quando mi fermavo a chiedere spiegazioni, lui mi diceva di non far perdere tempo, che era tutto sotto controllo. Quando siamo tornati a casa, ho letto bene. Eravamo al cinquanta per cento e lui non aveva messo un euro. In caso di morte di uno di noi, il patrimonio sarebbe passato all'altro. Ho chiesto spiegazioni ed è arrivato il primo schiaffo. Ha fatto una scenata, dicendo che dovevo fidarmi di lui».
L'INFERNO «Da quel momento la mia vita, lentamente, è diventata un incubo. Diceva che con me ci voleva il bastone e la carota. Mi picchiava e poi chiedeva perdono. Prima una volta al mese, poi una volta ogni quindici giorni, alla fine tutti i giorni. Lo faceva per qualsiasi scemenza, anche per un piatto che secondo lui non andava bene, per una fattura che non si trovava. Ero diventata una schiava, a casa, in cucina sul lavoro. Io facevo tutto, lui maneggiava i soldi che ben presto sono spariti. Una volta siamo rientrati a casa, mi ha chiuso nello sgabuzzino e ha iniziato a prendermi a schiaffi. Ad ogni colpo sentivo come il cervello che si scuoteva nella scatola cranica. Più di una volta sono uscita con l'occhio nero, una volta con la gamba livida, dall'anca a sotto il ginocchio. Un giorno, eravamo in una spiaggia deserta e ha iniziato a tirarmi le pietre in testa, mi sono salvata tuffandomi in acqua».
LA DENUNCIA «Ad un certo punto ho deciso di denunciarlo,ma in realtà solo il 20 per cento di me voleva farlo. I carabinieri mi hanno aiutato molto, il maresciallo mi diceva lei ha bisogno di aiuto ma io ero confusa, nel delirio più totale, come se vivessi in un quadro astratto. Poi lo hanno arrrestato e il giudice gli ha dato gli arresti domiciliari. A casa mia e in azienda. Sono dovuto andare via io, dai miei genitori. Poi sono arrivata al Centro antiviolenza. Ho avuto l'assistenza legale ma soprattutto quella psicologica».
LA RINASCITA «Ora sono riuscita a riavere la mia azienda e sto cercando di riportare tutti i conti in ordine. La cosa più difficile però è ritrovare se stesse. Mi aveva detto talmente tante volte che ero una nullità che alla fine me ne ero convinta anch'io. Per ogni colpo ricevuto il tempo di guarigione aumenta, in modo esponenziale. Quando ti picchiano, entri in uno stato di dipendenza, in un rapporto tra vittima e carnefice che non capisci subito, solo quando te lo spiegano. Lui ti picchia e ti chiede perdono e tu ci vuoi credere, e più perdoni più entri in una spirale di dolore senza fine».
Caterina De Roberto
Il racconto di un'africana
I figli rubati: la punizione per chi si ribella
OLBIA La violenza non fa distinzione di colore o nazionalità. Ma per le straniere è ancora più dura. Perché sono sole, non conoscono la lingua e spesso devono fare i conti con un contesto sociale che si schiera dalla parte del marito.
Bambi, così si fa chiamare, ha 28 anni e viene da un paese africano. Ha un dolore difficile da raccontare: suo marito un giorno ha preso i due figli dalla casa della nonna materna e li ha portati via. È la punizione perché ha osato ribellarsi. Non ha più notizie di loro da un anno. La storia inizia nel 2011. «Sono arrivata qui per raggiungere mio marito. Era il marito che la mia famiglia aveva scelto per me». Fino a quel momento l'aveva visto poco, il tempo di mettere al mondo due bambini, uno è ancora neonato quando Bambi arriva in Italia. «Lo volevo raggiungere ma lui cercava di scoraggiarmi, non mi mandava i soldi per il viaggio, sono riuscita a risparmiare e sono arrivata lo stesso. Ma quando sono sbarcata dall'aereo, lui non c'era e il telefono era staccato». È il panico: Bambi non conosce la lingua e per lei Olbia è solo uno sconosciuto punto sulla carta geografica. Oltre al numero del marito, ha solo un altro contatto. «Lui non mi rispondeva. Ho scoperto che aveva un'altra moglie e altri figli e di me non ne voleva sapere». Bambi finisce a dormire per strada ed è qui che la incontra un'operatrice che si occupa di immigrati che la indirizza al Centro di Prospettiva donna. Era sola, terrorizzata e comunicava solo con qualche parola di inglese. «Loro mi hanno aiuata molto, ho imparato la lingua, studiato, trovato lavoro». Ma quando Bambi decide di chiedere il divorzio inizia la guerra. «Il marito - spiega Patrizia Desole, di Prospettiva Donna - in realtà voleva tenere due mogli, una al suo paese, l'altra qui. Sono iniziate le minacce, lo stalking. E con lui si è schierata la comunità». Mentre Bambi raccoglieva i soldi per tornare a vedere i bambini, lui la precede e li porta via. «Si à presentato a casa di mia madre, ha detto che li portava a fare una passeggiata e non li ha più riportati. Anche il Tribunale del mio paese mi ha dato ragione ma ormai da un anno non so dove sono. Oggi il più grande compie quattro anni».(c.d.r. )
La mia risposta cade nel vento
sul secondo fatto articolo trato dalla nuova sardegna d'oggi
IL CASO
India, contro l’orrore degli stupri la pena di morte non serve
Siamo choccati per le macabre notizie dall’India: quattro ragazzi (idioti e sadici) hanno stuprato, facendola morire, una ragazza, e l’altro ieri sono stati condannati a morte. Saranno impiccati. Per le strade gli indiani esultano, specialmente le donne. Molti chiedono la pena di morte.Ma una scrittrice indiana avverte: «Attenzione, se scatta la condanna a morte, gli stupratori non lasceranno più una vittima viva, per timore che poi li denunci». Ieri piombava un’altra notizia dall’India, lugubre come le precedenti: una ragazza di 17 anni, innamorata di un coetaneo di classe sociale inferiore, è stata impiccata in casa dai fratelli. Eppure le pene per i delitti sulle donne sono appena state aumentate. E allora, aumentarle serve o non serve? Se c’è la pena di morte, l’uomo che sta per stuprare o uccidere una donna si ferma o non si ferma? La paura della morte cambia o non cambia il violentatore e l’assassino? Quasi tutti rispondono di no. Qui vorrei rispondere di sì. Non è vero che, se sa di morire, il criminale resta indifferente. Cambia, eccome. Per mostrare che lo stupratore-assassino non teme la morte, i fautori di questa tesi usano un film tratto da una storia vera, intitolato “Dead man walking”, che girò anche per l’Italia con grande scalpore. Si vede Sean Penn in prigione, l’accusa è di aver stuprato e ucciso una ragazzina in un bosco. Lui nega sempre. Arriva il giorno dell’esecuzione, lo prendono dalla cella e lo portano verso la camera dell’iniezione letale (da qui il titolo: “Uomo morto in marcia”, frase con cui i carcerieri si avviano per il lugubre tragitto), attraverso un oblò lo guardano i parenti della bambina morta, i giornalisti, il pubblico che ama queste cose. Il condannato alza gli occhi e dice: «Sì, l’ho uccisa io. Le ho fatto tutto quello che sapete, e molto di più». Chi lo piega fino a farlo confessare? La morte. Avrebbe confessato, senza la morte? Mai. Ha importanza morale la confessione? Certo: mostra la redenzione, il ritorno nell’umanità. E allora, è giusto condannare a morte? No, mai. C’è da rallegrarsi per i quattro ominastri perversi che saranno impiccati in India? No, c’è da vergognarsi. E se impiccheranno i fratelli che hanno ucciso la diciassettenne innamorata di un coetaneo povero, potremo dire che l’India migliora un po’? No, peggiora. Le donne temono che gli uomini non possano capire la mostruosità dello stupro. Lo stupro è un crimine che una donna può capire e giudicare e punire meglio di un uomo. Sì, è vero. Lo stupro è un crimine enorme (significa: fuori norma), e merita una pena enorme. Specialmente lo stupro con uccisione. C’è un’altra storia che risponde a questa esigenza, un altro film, intitolato. Il segreto dei suoi occhi. Un uomo amorale e asociale stupra e uccide una donna, ma dopo la condanna (siamo in Argentina, dittatura militare) si mette a collaborare con la polizia e torna libero. Il fidanzato della vittima lo scopre, lo cattura e lo chiude in un fienile, in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Segregato in uno sgabuzzino per decenni, lo stupratore-assassino diventa pazzo e implora il suo custode di ucciderlo, ma con la morte quello smetterebbe di soffrire e il custode questo non lo vuole, vuole che soffra per sempre, finché respira. Il senso è: l’ergastolo è più crudele della fucilazione. L’ergastolo basta, anzi avanza. La soluzione non è uccidere. E neanche condannare per sempre. Per le violenze sessuali con uccisione, le indiane chiedono la morte, le italiane l'ergastolo. Per dire no alle indiane, dobbiamo dire no alle italiane. Se siamo contro la pena di morte, dobbiamo essere anche contro l'ergastolo. Che cos’è l’ergastolo? È una morte che non ha fine.
la seconda è no non si risponde ad un crimine odioso e turpe con un altro crimine per l'ergastolo idem bastano 30 anni senza ( almeno per i primi 20 senza benefici )
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