voce autorevole della categoria, risponde così: «Aiuto le aziende a trovare un giusto equilibrio tra le aspirazioni e le pretese dei dirigenti». Più terra terra, suggerisce ai padroni del vapore il giusto compenso per l'amministratore delegato o Ceo (Chief executive officer), che vuol dire quasi lo stesso. Manager che strappano contratti da cinque, dieci milioni l'anno. Strapagati: come un calciatore, una stella del pop, un attore. Fino ad arrivare al supercapo della Disney che ha guadagnato 115.500 volte lo stipendio di un lavoratore medio.
Se non ci credete andate a sfogliare le pagine di Manager Superstar , lettura illuminante.
Catani lo ha scritto qualche anno fa (per Garzanti) accompagnandolo con un eloquente sottotitolo: merito, giusto compenso e disuguaglianza sociale. Cagliaritano residente da sempre a Milano, 66 anni, una figlia, laurea in Economia, master e cattedra alla Scuola superiore Mattei dell'Eni, offre un formidabile ventaglio di cifre ed esempi sulle entrate stratosferiche magari di un manager pubblico che è riuscito o quasi a far fallire una compagnia area o un'azienda ferroviaria. In sostanza, rielaborando un eterno dilemma da bar sport Italia: chi sono i manager e perché rastrellano montagne di danaro? La domanda non è peregrina in un Paese crocefisso dalla crisi, che non riesce a fermare la disoccupazione e tantomeno a rimarginare la ferita sempre aperta del debito pubblico.Dunque, scandalizzatevi pure: Paris Hilton («giovane bellezza dal mestiere imprecisato») ha intascato più soldi dell'amministratore delegato di Luxottica, Harrison Fordraggranellato 65 milioni di dollari per un solo film, calciatori come Ronaldinho o Kakà volano sopra i 15. All'anno, s'intende.Contrariamente a quanto si potrebbe pensare tenuto conto del campo in cui opera, Sandro Catani è riuscito a conservarsi umano. La ricerca di un equilibrio tra desideri di un Ad e ingaggi siderali non gli ha fatto perdere di vista l'altro mondo. Nel suo libro cita Catullo, Collodi, Marziale e tanti altri. Buone letture come antidoto al pericolo-aridità? Senz'altro. «Mi spaventano quei manager che stanno prigionieri in ufficio 12-14 ore al giorno, che non vanno mai al cinema o all'opera. Che, insomma, non vivono».
Cos'è il giusto compenso?
«Dichiaro la mia inadeguatezza a definirlo con precisione. Il compenso riguarda qualcosa che uno fa, quindi parliamo di lavoro. E mica c'è sempre. Giusto è invece un termine variabile nel tempo e nello spazio: quello che ad alcuni può sembrare una fortuna, chessò cinque milioni di euro, per altri può essere perfino poco. Ma badate che anche certe segretarie guadagnano cinque volte lo stipendio di un operaio».
Pochi?
«Ricordo un Ad che, davanti a questa cifra, mi disse sconsolato: tutto qui? Ho faticato a fargli notare che normalmente non guadagnava così tanto in un solo anno. Mi ha cacciato, non sono più il suo consulente».
Dunque?
«Il termine giusto, riferito a compenso, deve tener conto del momento, del tipo di azienda, dei risultati che si vogliono raggiungere. È il pagamento per una prestazione. Pay for performance , dicono gli americani».
In fondo è anche la filosofia delle Olgettine.
«Non c'è dubbio: 2.500 euro al mese, versate dal mitico ragionier Spinelli in nome e per conto dell'azionista di riferimento, rappresentano un giusto compenso».
Eccessi da supermanager.
«Sono quei casi in cui si prendono i soldi senza aver eseguito la prestazione a regola d'arte. Esempi? Sarebbe troppo facile citare il caso del banchiere Geronzi: ogni volta che ha lasciato un'azienda, si è fatto accompagnare all'uscita da un sacco di soldi. Secondo lui, si tratta di giusti compensi; secondo altri, che hanno qualche ragionevole controdeduzione, decisamente no».
Lei ha fatto paralleli con calcio, cinema, arte.
«Bisogna interrogarsi: perché pagano un calciatore molto più d'un suo compagno di squadra? Un grande economista statunitense dice che le competenze sono distribuite in modo diseguale, quello che ne ha un po' di più incasserà necessariamente cifre maggiori. È come nei tornei medievali: chi vince prende il piatto. Il secondo sarà a debita distanza. Questo discorso si può applicare anche a cinema, musica, arte».
Si dice che in Italia servano più manager che calciatori: è vero?
«C'è da essere pessimisti. Guardiamo gli scandali recenti: Fonsai-Sai, Finmeccanica, Monte dei Paschi, Popolare di Milano. I vertici di queste aziende, che erano le più importanti d'Italia, sono tutti in galera o ai domiciliari. Gotti Tedeschi, ex presidente della banca vaticana e autore di un saggio sull'etica, è stato silurato e questo significa che il problema ha lambito, anzi travolto di liquame, perfino la Chiesa. Ne consegue che abbiamo molto bisogno di veri manager. Ci hanno lasciato in eredità un disastro».
Cioè?
«Ci siamo venduti i gioielli di famiglia, le aziende e le banche più solide: Edison, Parmalat, Bulgari. Potrei continuare. Ci siamo venduti perfino la Borsa valori di Milano».
Sarà per questo che in Sardegna non c'è una banca o un'industria che appartenga ai sardi?
«Ho lavorato per le banche sarde. Banche burocratiche, un po' antiquate. Però conoscevano il territorio, avevano una certa sintonia con la popolazione locale. Ho lavorato anche per Bper, la Banca dell'Emilia Romagna che ha acquisito Banco di Sardegna e Popolare di Sassari. Mica è molto più grande o più tecnologica di quello che ha comprato».
E allora?
«Allora è successo che Bankitalia ha deciso di far assorbire tutte le piccole banche del Sud dalle banche del Nord nella speranza di farle crescere. Risultato?»
Non esiste più un'industria sarda.
«Quando vengono vendute le banche, il resto segue a ruota: si crea desertificazione».
È vero che quella dei manager è una categoria ad altissimo indice di avidità?
«Loro dicono di no ma non c'è dubbio che l'avidità sia una molla importante. E non solo per danaro. Un manager vuole guadagnare più di uno che fa il suo stesso mestiere. Direi perfino che vive per sapere quanto ricevono i suoi colleghi e organizzare le contromosse».
Esempi?
«Ammettiamo che De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, scopra di guadagnare meno di Enrico Mentana, direttore del Tg7. Credete che la cosa lo lasci indifferente?, che non aggiornerà le sue pretese? Il danaro, in un certo ambiente, è l'indicatore che io sono più bravo di altri».
Il manager che fallisce perde al massimo il posto: a pagare sono altri.
«In parte è così. Solo in parte però: il nome e l'autorevolezza di un manager crescono in proporzione ai risultati. Se non arrivano, viene incasellato nella media manageriale italiana, ovvero mediocrità assoluta».
È morale che Marchionne, amministratore delegato Fiat, guadagni 1.300 volte più di un operaio?
«Credo vada oltre. Ma non so se sia morale. Marchionne, che non apprezzo affatto, è uno che si muove da solo, senza team. Uno che non fa sapere quale sia il suo piano industriale, tanto è vero che il segretario della Fiom gli sta continuamente addosso. Marchionne è però il futuro, Landini purtroppo il passato».
D'accordo, ma è morale che guadagni tanto?
«Lo ripeto: non lo so. So che il mio è un Paese gestito da gerontocrati. Ci sono circa 500 persone sparse nei Consigli di amministrazione: il potere è nelle loro mani. I più anziani sono degli anni Trenta e via via fino ai giovani. Marchionne invece gioca con regole nuove, tutte sue».
Nel frattempo viviamo in una nazione che umilia gli insegnanti, che pure sono i macchinisti del futuro.
«Insegnanti e pubblici dipendenti in genere sono i più sfigati. Che siano medici o commessi della Camera, per la gente guadagnano comunque troppo per il poco lavoro che fanno. Un Paese che non ha una burocrazia capace e ben pagata non può affrontare il futuro».
Sta insinuando che stiamo strangolando il futuro?
«Sicuramente, a furia di spending review. La filosofia dei tagli che colpiscono soprattutto il settore pubblico è ispirata, non a caso, dal mondo delle imprese. Nuovi e recenti esponenti di governo non arrivano forse dal sistema bancario e industriale?»
Disastri Fs, Alitalia, eccetera: cosa rischiano i manager specializzati in fallimenti?
«Oggi va per la maggiore fare i commissari. Che guadagnano più dei manager. Cosa rischiano? Niente».
È favorevole ad un tetto sugli stipendi dei manager pubblici?
«No, nel modo più assoluto. Così li vedremmo espatriare. Il vero problema non è cercare un tetto ma stabilire se un manager è veramente bravo oppure no. Se è davvero bravo, torniamo ai paralleli con sport, cinema e arte. Al giusto compenso, insomma».
Criteri per stabilire la bravura di un manager?
«Valutazione della performance sul medio periodo. Non ci si può fermare al bilancio annuale. Vecchi criteri, che noi non utilizziamo, riguardano anche la soddisfazione del cliente, qualità e soddisfazione delle risorse umane».
Ha mai incontrato un manager incapace, cretino?
«Se ne ho incontrato? Ho parlato prima di una ragnatela, poche persone che occupano tutti i Consigli d'amministrazione. E qui mi fermo».
Luca Cordero di Montezemolo?
«Non ho lavorato per lui. Non lo conosco».
Poi ci sono i manager per diritto ereditario: John Elkann.
«Probabilmente è una persona normale. Questo è purtroppo il male del nostro capitalismo: anziché chiamare dirigenti capaci, affidiamo l'azienda a figli, nipoti, eccetera. Ligresti, il costruttore, faceva così».
Dove sono i Ligresti, padre e figli, attualmente?
«Tutti o quasi in carcere».
Non ritiene che gli stipendi stellari siano un intollerabile segno di disuguaglianza?
«Sicuramente sì».
La disuguaglianza è il detonatore delle rivoluzioni.
«I sistemi sociali sono complicati. Una volta si impiccavano i re, secoli dopo hanno cominciato a massacrare dirigenti e poveracci qualunque».
In Italia il clima è questo?
«Non penso. Il governo ha neutralizzato il pericolo finanziando la cassa integrazione in deroga: continuiamo a pagare salari per lavori che non esistono e non esisteranno più».
Non c'è bisogno d'essere marxisti per parlare di immoralità.
«Immorale è che uno stagista guadagni 600 euro e un dirigente cinque milioni. Considero immorali anche le aziende che applicano questo sistema. Ma la vera immoralità è un'altra: illudere i giovani, fargli credere che hanno un futuro».
Come attenuare una sperequazione così offensiva?
«Tutti pensano al tetto sugli stipendi. Io sono invece per un'imposizione fiscale ben mirata. E smettiamola con le bugie, smettiamola di dire che le super-pensioni non possono essere toccate».
Il danaro è il simbolo di quanto vale un uomo?
«Non c'è dubbio. Nella nostra cultura ragioniamo in funzione di quanti soldi abbiamo accumulato. Ci siamo americanizzati».
Danaro e felicità sono parenti stretti?
«Se ti propongono un aumento di stipendio, hai una botta di felicità ma un mese dopo te ne sei dimenticato. Servono dosaggi sempre crescenti: un attimo di euforia non basta per dirsi felici».
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