Il festival letterario diffuso porta in Sardegna il creatore del ciclo di Shannara
Le storie originali sono finite, racconta bene quelle che sai
Terry Brooks, lezione di scrittura a Nulvi per Éntula
Dal nostro inviato
Celestino Tabasso
Nulvi. «Se avete deciso di aspettare un'idea originale prima di mettervi a scrivere... beh, fareste prima a sbattare la testa al muro: le idee originali sono finite da un pezzo. Quel che conta è la tua voce, ciò di tuo che riesci a trasmettere nella storia e nel modo che hai di raccontarla».
da http://www.repubblica.it/protagonisti/Terry+Brooks |
Se a dirlo è Terry Brooks, che le sue storie le racconta a milioni di lettori di tutto il mondo ansiosi di ascoltare le prossime, vale la pena di ascoltarlo. In ordine di tempo, gli ultimi a farlo sono stati i molti fan che giovedì hanno affollato l'incontro organizzato a Nulvi per Éntula, il festival letterario diffuso - vulgo: grandi scrittori invitati in tour fra piccoli centri - pensato dall'associazione Lìberos. A introdurre e intervistare l'ex avvocato statunitense padre della saga di Shannara e di altri best seller più o meno fantasy è stata Chiara Valerio, giornalista dotata di due capacità insolite: essere brillante e spigliata senza rubare mai la scena al protagonista dell'incontro e partire da una intensa conoscenza dei libri di Brooks senza affliggere il pubblico con la propria erudizione. Lo scrittore, che ieri era a Galtellì, oggi alle sarà a Mara (a Bonu Ighinu) e domani all'anfiteatro comunale di Bauladu insieme a Michela Murgia.
Mr Brooks, è ancora vero che scrivere le piace tanto che lo farebbe anche gratis?
«Certo. Anche se...», risata garbata: «... mi rendo conto che dirlo adesso suonerebbe piuttosto facile. Comunque sì, lo farei anche gratis. Il punto è che se non fosse il mio lavoro, in realtà non saprei che cos'altro fare. Prima di darmi alla scrittura creativa facevo l'avvocato, e continuai a farlo fino alla pubblicazione del mio terzo libro. A quel punto decisi che non avrei fatto altro che scrivere».
Dev'essere stato un cambiamento rivoluzionario per la sua esistenza.
«Le dirò, per certi versi non sono lavori così diversi. Scrivere però è l'unica cosa che davvero mi diverte, è un'attività che ha a che fare con la parte più intima del mio essere e chiaramente non è pensando ai guadagni che ho iniziato a dedicarle il mio tempo. Ci sono scrittori che invece partono programmando quanto guadagnare da una storia».
Pare che “Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr Hyde” sia nata perché in quel periodo Stevenson aveva urgente necessità di contanti.
«Esattamente. Nel mio caso non è andata così. La mia famiglia non era ricca, ma ho avuto la fortuna di non trovarmi mai in una situazione disperata dal punto di vista economico».
Lei è il re del fantasy, cioè di un genere visto da molti come un genere infantile, o almeno di puro disimpegno dal punto di vista politico.
«Sì, fino a qualche tempo fa negli Stati Uniti il fantasy era considerato roba per bambini. Poi tutto è profondamente cambiato, innanzitutto con l'arrivo di Harry Potter sulla scena narrativa. Ma ci sono anche altri autori che hanno aiutato molto a cambiare questo punto di vista: penso a un autore che personalmente apprezzo molto, Paolo Bacigalupi. Sì, so che sembra il nome di uno scrittore italiano ma viene dal Colorado, in realtà».
Ci sono degli autori fantasy davvero italiani che ama?
«C'è molta Italia in quello che leggo: penso a Dante, innanzitutto, e a tutto ciò che ha a che fare con i racconti di antiche civiltà, ma per quanto riguarda specificamente il fantasy... Vede, io parlo solo inglese e in effetti è difficile trovare nelle librerie americane un autore fantasy italiano. A volte con mia moglie diciamo che sarebbe molto bello essere più giovani e dedicare due o tre anni di vita a conoscere un nuovo paese, vivendoci e imparando la lingua».
Potrebbe approfittare di questo mini tour per farsi fare un corso accelerato di sardo.
«Sì, mi hanno parlato della vostra lingua... Le dirò: mi è capitato di passare un lungo periodo in Galles: è incredibile quanto il gaelico restasse per me qualcosa di assolutamente incomprensibile. Ma parlavamo del fantasy come genere letterario disimpegnato: bene, ci sono degli amici che mi hanno sempre detto e continuano a dirmi: “Serve un punto di vista politico, serve un punto di vista politico”... Ma il taglio politico resta fuori dalla mia agenda quando decido di raccontare una storia. Quel che mi interessa, se vogliamo cercare un approccio in qualche modo politico alla narrazione, è una sola cosa: come si comporterebbe una persona comune posta di fronte a una scelta drammatica? Come reagisce l'uomo medio se si trova caricato di una responsabilità che non ha chiesto?».
Quali altri ingredienti usa?
«Nella struttura di una storia fantasy ci sono fondamentalmente quattro elementi: la ricerca di qualcosa, un manipolo di eroi che se ne incaricano, un confronto archetipico fra Bene e Male e infine un pizzico di magia».
Che cosa intendiamo per magia?
«Perché una storia funzioni il lettore si deve identificare. Non importa se l'ambientazione è fantasy o fantascientifica o di qualunque altro genere, chi legge deve chiedersi: “Come mi comporterei io se questo succedesse a me?”. Per questo non amo gli autori che spargono qualche pizzico di magia qua e là nelle loro storie per risolvere le situazioni, penso più alla magia come a qualcosa di simile alla scienza: qualcosa che può avere un effetto potente ma può avere anche effetti collaterali, conseguenze indesiderate che mettono di fronte a situazioni inaspettate e a nuove scelte».
Le è mai accaduto di sentirsi prigioniero delle sue saghe?
«Sì, esattamente in questo momento. Sento la necessità di confrontarmi con qualcosa di differente, voglio scrivere qualcosa di nuovo e di diverso. È un autentico bisogno quello che avverto».
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