DA http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2019/02/08/
In mezzo al nulla, tre ragazzi, un caffè e Salgado
Bisogna puntare alle cose impossibili. “Sono le uniche che si realizzano” sostiene Claudio, seriamente. Per esempio, questo posto era impossibile: un caffè letterario raffinato al centro del quartiere più degradato, o forse più calunniato di Reggio Emilia. Invece eccolo, ci siamo dentro.
Era impossibile anche il sogno nato cinque mesi fa, prima per gioco, poi per sfida: portare qui il più grande fotografo del mondo. Ed ecco, è successo: nel pomeriggio di domani, sabato 9 febbraio, al Binario 49s’inaugura Africa, grande mostra di Sebastião isogna puntare alle cose impossibili. “Sono le uniche che si realizzano” sostiene Claudio, seriamente. Per esempio, questo posto era impossibile: un caffè letterario raffinato al centro del quartiere più degradato, o forse più calunniato di Reggio Emilia. Invece eccolo, ci siamo dentro.
Era impossibile anche il sognonato cinque mesi fa, prima per gioco, poi per sfida: portare qui il più grande fotografo del mondo. Ed ecco, è successo: nel pomeriggio di domani, sabato 9 febbraio, al Binario 49s’inaugura Africa, grande mostra di Sebastião Salgado, inedita per l’Italia. Gliel’ha regalata lui. Regalata: costo zero. Quando ha saputo chi sono questi tre ragazzi e i loro amici, e cosa vogliono. Ossia una cosa semplice e difficile: “combattere il brutto col bello”.
Arrivare qui non è complicato. Esci dalla stazione, giri a sinistra e punti verso “il nulla nel mezzo del nulla”, dicono da queste parti. Un quartiere di cinquemila abitanti che non è riuscito neppure a farsi dare un nome: lo chiamano solo “zona stazione”. Ti ci conducono le molliche da Pollicino di un paesaggio urbano da città multi-qualcosa del terzo millennio: moneytransfer, chinamarket, kebabberie, slotmachine, macellerie halal.
Condomini multipiano molto cementosi, negli anni Settanta forse qualche pretesa da new town, poi una classica vicenda di sostituzioni e decadenza comune a tante periferie, ed ora ecco, 80 per cento di immigrati, cinquanta nazionalità diverse, titoli allarmisti sui giornali, “ma le statistiche dei reati non sono poi così diverse dal resto della città”.
Il tipico agglomerato urbano impoverito, lungo i binari, dove abitano “quelli lì”, dove i reggiani non vanno mai, dove la Lega insedia un centro operativo e Forza Nuova allunga gli artigli con cortei “rimpatri subito”.
Binario 49 è una penisola di cemento vetrato in mezzo ai giardinetti. Era un circolo Arci, morto di consunzione come una candela, “non ci andava più nessuno”. Un anno fa il Comune lancia un bando, senza troppe speranze, per “rivitalizzarlo”. Ci sono tre amici di una associazione cultural-sociale, Casa d’altri.
Dei tre, solo Alessandro Patroncini ha qualche esperienza specifica, lavora nelle cooperative sociali. Khadija Lamami lavora in banca, qualche anno fa si era inventata le docce solidali: un gruppetto di persone che offriva un bagno caldo alle famiglie con il riscaldamento tagliato per morosità. Claudio Melioli è sospeso fra cielo e terra: di giorno ricercatore astrofisico all’università, di sera ceramista.
Partecipano al bando. Lo vincono. Si trovano fra le mani questo rottame edilizio, in mezzo al quartiere del nulla. Si calano i caschetti da cantiere in testa. Il comune ci ha messo gli impianti. Loro e una dozzina di soci, tutti volontari, mani spalle e sudore.
Ed eccolo, Binario 49. Una cosa che neanche in centro. Libri sugli scaffali, arredo di design minimalista, tavolini artigianali di cocciopesto. Spazio, luce, calore. “Deve essere un posto bello”. Gli dicevano: fate troppi sforzi, siete in zona stazione, lì basta poco. “Ma è proprio così che tanti interventi sociali nascono morti. Il brutto nel brutto”, dice Khadija. Quel multiculturalismo al ribasso, assistenziale, paternalista e senza fantasia, l’idea che integrazione degli immigrati sia una festicciola col couscous.
Loro, il 15 settembre scorso inaugurarono con uno spettacolo teatrale su Pertini. Poi musica live, presentazioni di libri, film, ancora teatro. “Hanno cominciato a venire quelli che in zona stazione non c’erano mai stati”. Dalle salette in fondo arriva il brusio del doposcuola per trentadue di ragazzi del quartiere. C’è un’aula informatica. Un laboratorio di musica e artigianato per homeless. In un ufficetto appartato ricevono gli avvocati di strada: permessi di soggiorno, sfratti eccetera.
Qualcuno sorride, perché siamo in tempi così. Cosa volete fare ancora. Una grande mostra di fotografia, dicono. Reggio è una capitale della fotografia, ogni maggio ospita il festival più importante in Italia. Sfottò: “Bravi, portate Salgado allora!”. Be’, buona idea. “Ho pianto per il suo libro sulla polio”, ricorda Khadija, “anche io ho avuto la polio”.
Claudio ha lavorato dieci anni in Brasile, anche là un po’ ricercatore di stelle, un po’ operatore sociale. “Ho ancora buoni amici a Vitória, nelle zone dove vive Salgado. Ho ripescato l’agenda telefonica. Qualcuno conosce Salgado? Gli può far arrivare un messaggio?”.
E una domenica mattina assonnata, dopo un sabato notte al caffè, gli ronza il cellulare: “Sono Salgado, so che mi state cercando. Cosa posso fare per voi?”. Ci manca poco che Claudio risponda dai, chi sei, non fare il cretino.
Salgado ha ascolta. Capisce. Decide di regalare una mostra, Africa, cento fotografie originali, il riassunto di trent’anni di viaggi nel continente devastato e rapinato, i reportage dalle carestie e dalle guerre che logorarono l’animo del fotografo e dell’uomo. “Un regalo immenso”, dice Alessandro, “consapevole. Ciò che Salgado ha fotografato vent’anni fa in Africa ora bussa alla nostra porta, ora è qui, nelle nostre città”.
C’è un libro, con un testo commovente dello scrittore mozambicano Mia Couto. Ma la mostra, per l’Italia è un’anteprima assoluta. Niente grandi musei, stavolta. Ma un bar nel mezzo del nulla.
Panico: la mostra è troppo grande, al Binario non ci sta. Bene, si fa avanti Lorenzo Immovilli dello Spazio Gerra, il raffinato museo civico d’arte contemporanea di Reggio: “Quel che non ci sta da voi lo prendiamo noi”, è un altro luogo comune che si ribalta, la cultura da “decentrare”: ora è la periferia che fa un regalo al centro.
Proverà a venire di persona, Salgado, se glielo permetterà un’operazione per un tendine rotto durante i suoi sopralluoghi nella foresta amazzonica.
Verrà sicuramente suo figlio Juliano, autore delle sequenze di quello che, assieme a Wim Wenders, è diventato il film Il sale della terra: terrà un workshop per videomaker.
Nel grande seminterrato due ragazzi albanesi montano a tempo di record il cartongesso per la mostra. Al centro del nulla sta nascendo qualcosa che nell’Italia di oggi non sembrava previsto.
"Nessun male dura per sempre"
Intervista a Sebastião Salgado
Un regalo “per questi amici che non ho mai incontrato”. Per lui, l’Omero dei migranti, il cercatore della Genesi, è una cosa naturale. La voce di Sebastião Salgado arriva dal suo Brasile, in un momento di pausa tra le spedizioni nella foresta amazzonica, per il suo prossimo e ultimo grande affresco in bianco e nero, un’epica degli indios minacciati dalla civiltà. “Un amico ci ha messo in contatto. Li ho ascoltati. Stanno facendo una cosa molto importante, molto umana. Dovevo aiutarli. Voi dovete aiutarli”.
Noi giornalisti?
“Voi italiani. Quello che sta succedendo ai nostri due paesi è molto simile. Qui la vittoria di Bolsonaro è una minaccia per gli indios, i neri, la povera gente. Da voi cresce la paura e l’ostilità per i migranti. Chi lavora controcorrente deve essere aiutato”.
La sua mostra può farlo?
“Ho scelto la mostra sull’Africa non solo perché in Italia nessuno l’ha ancora vista. Ma perché spero possa far vedere agli italiani cosa c’è alla radice delle migrazioni che li spaventano. Che cos’è stata in questi decenni la sofferenza assoluta di un continente derubato. Perché queste persone sono costrette ad abbandonarlo, prendendosi enormi rischi per farlo, giocandosi la loro stessa vita.”.
Crede che sia possibile recuperare un senso di umanità, attraverso le immagini?
“Credo che sia necessario recuperarlo dentro le persone. Non esiste un ‘essere umano italiano’, esistono gli esseri umani. Noi brasiliani, chi siamo? Italiani, portoghesi, nativi, tedeschi, polacchi, spagnoli, africani. Voi italiani, chi siete? Figli di migranti che arrivarono, figli di migranti che partirono. Come è possibile dimenticare tutto questo?”
Non sembra il momento migliore per ricordarlo alla gente.
“Nulla è statico nel mondo. Siano governati da politici ostili, ma non durerà. Non c’è una legge biologica che ci faccia razzisti. Le cose cambiano, perché al fondo ci sono sentimenti che sopravvivono alla paura del momento. Non opprimere l’altro, non rubare, non odiare. La prova sono questi ragazzi di Reggio. Seri, onesti, nonostante tutto”.
Dopo tutto quello che ha visto, in Africa e nel mondo, lei è ottimista sull’uomo?
“In Brasile c’è un proverbio. Não ha mal que sempre dure nem bem que nunca se acabe. Non c'è male che dura per sempre o bene che non finisce mai. È come un’altalena. Dipende dalla spinta che diamo noi”.
[Versioni di questo articolo e dell'inter, inedita per l’Italia. Gliel’ha regalata lui. Regalata: costo zero. Quando ha saputo chi sono questi tre ragazzi e i loro amici, e cosa vogliono. Ossia una cosa semplice e difficile: “combattere il brutto col bello”.
premetto che 😪😥👎 non potrò andare causa pochi € e problemi d salute a vedere la mostra in questione ma posso dire avendo visto la sua mostra Genis a Genova due anni fa ancora mi rodo ( era un sacrificio che si poteva fare anche costava un esagerazione ) di non aver preso il catalogo che ne varrà sicuramente la pena , E' come trovarsi in quei luoghi e con quella persone ed animali che lui ha fotografato . Egli è riuscito a bloccare il mondo e la sua diversità prima della sua distruzione e della scomparsa