10.4.22

Questo bimbo a chi lo do ? nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

 spesso    i  giornali femminili  contengono  storie  ed  articoli interessanti    come quello che    riporto  sotto  . Fncl  a  chi mi dice  che: sono solo letture   per  donne e non  per  uomini  .,   che  sono effeminato    perchè  leggo anche  quelli   




Reportage

Questo reportage è stato scattato nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

Questo bimbo a chi lo do?

A Kiev c’è un “nido segreto” dove hanno trovato riparo 28 piccoli appena nati grazie alla maternità surrogata. Ma, per adesso, figli di nessuno. Non più delle donne che per nove mesi li hanno portati in grembo, non ancora dei genitori biologici che a causa della guerra non possono andarli a prendere. L’abbiamo visitato

Chi mi ha dato l’indirizzo si è raccomandato più volte di non rivelarlo a nessuno, per paura che potesse diventare un bersaglio dei raid russi. Le guerre provocano morti ma cambiano anche i vivi, alimentando i sospetti verso chiunque. La mattina del 19 marzo sono sceso dal taxi a Kiev e sono rimasto in strada, in attesa che mi venissero a prendere. Solo 2 minuti, durante i quali però 3 passanti mi hanno chiesto con aria minacciosa perché fossi lì, fermo, senza far nulla. Se ne sono andati solo quando è arrivata la persona che aspettavo e li ha tranquillizzati dicendo che ero un fotoreporter e stavo lavorando. Mi ha fatto cenno di seguirla e dopo qualche centinaio di metri sono arrivato alla mia meta: il “nido bunker” dove dall’inizio del conflitto hanno trovato rifugio 28 bambini nati da madri surrogate. L’idea è stata di Albert Tochylovsky, proprietario della BioTexCom, la più grande clinica specializzata qui in Ucraina per quella che tecnicamente si chiama gestazione per altri.

Entro nel palazzo moderno, scendo per una piccola scalinata e arrivo alla porta di questa nursery segreta. In un attimo il silenzio delle strade semideserte viene riempito dal frastuono del pianto dei bambini. La donna che mi ha guidato fin qui, Antonina, mi fa indossare un camice blu e dei calzari. Nella prima stanza le pareti sono ricoperte di scaffali carichi di pannolini e latte in polvere, nella seconda un’infermiera sta preparando un biberon. «Smettono di piangere solo quando diamo loro il latte» mi racconta. La guardo accennando un sorriso e penso che ci vuole fortuna anche a nascere al momento giusto e nel posto giusto. Fortuna che non è toccata a questi bimbi venuti al mondo da non più di un mese. I loro genitori biologici si trovano

in Italia, Francia, Germania, chiamano di continuo la clinica per sapere come stiano i figli ma non posso venire a prenderli per colpa della guerra. «Alcune coppie sono arrivate in Ucraina e si sono fermate a Leopoli, nell’Ovest relativamente tranquillo, in attesa che riusciamo a portare loro i piccoli nel modo più sicuro possibile» mi racconta Nikolai, un dipendente della BioTexCom che ha il compito di mettere in contatto gli aspiranti genitori con le donne ucraine che porteranno avanti la gravidanza.

L’Ucraina è la seconda meta mondiale dopo gli Stati Uniti per la maternità surrogata, che qui è legale ma può essere richiesta solo da coppie eterosessuali sposate. Ogni anno nascono tra i 2.000 e i 2.500 bambini e, secondo le ultime statistiche, attualmente nel Paese ci sono circa 800 donne incinte per conto delle coppie straniere che pagano tra i 40.000 e i 60.000 euro (la metà rispetto agli Usa). Nei primi 4 giorni di guerra Nikolai è riuscito a portare fuori da Kiev oltre 10 neonati, ma con il conflitto che prosegue sempre più aspro si può solo approfittare dei momenti di tregua per trasferire il maggior numero possibile di piccoli a Leopoli e riunirli finalmente ai loro genitori biologici.

Fino a quel momento è come se questi piccoli fossero orfani. Figli di nessuno. Non più delle donne che per 9 mesi li hanno portati in grembo, ma dopo il parto li hanno lasciati in clinica. Non ancora delle coppie che li hanno fortemente voluti, ma non possono ancora abbracciarli. Solo a Kiev,

dall’inizio della guerra, sono nati 45 bambini tramite la gestazione per altri e la maggior parte vive ancora in questo limbo. Anche legale, perché al momento non è chiaro chi siano i loro tutori né quale sia la loro cittadinanza. Secondo la legge ucraina, infatti, i genitori biologici devono venire a prendere di persona i neonati ma, prima di poterli portare fuori dal Paese, devono ritirare all’anagrafe la copia del certificato di nascita in lingua originale e il passaporto temporaneo. E gli uffici ora sono ovviamente chiusi.

«Ormai questi bimbi sono come figli per noi» mi dice Svitlana, tata di 50 anni, mentre prova a calmare il piccolo che ha in braccio. Vicino a una culla una sua collega in maglione color senape sorveglia altri due bimbi: ha gli occhi stanchi di chi non riposa da giorni, ma anche la fierezza di chi svolge il proprio lavoro con passione ed empatia. Mentre cerco di scattarle una foto senza disturbare, arriva Irina. Ha un camice fucsia e grigio e avvolge tra le braccia un bebè. Con un inglese stentato mi dice che non ha intenzione di andare via da Kiev: «Abbiamo paura, ma non possiamo abbandonare questi bambini. Resteremo qui con loro fino a quando le bombe smetteranno di esplodere. Fino a quando sarà necessario». Fino a quando sarà necessario lo dirà solo il tempo. L’odore dei neonati avvolge il sottoscala segreto governato da queste donne coraggiose. A volte trovano anche la forza per sorridere, nonostante siano stremate. Una di loro pulisce il rigurgito di un bambino col bavaglino. Un’altra prova a farne addormentare due contemporaneamente, dondolandoli uno sul ginocchio destro e l’altro sul sinistro. In lontananza vedo di nuovo Antonina, seduta su un grande materasso con una bambina sulle gambe. L’orologio alle sue spalle segna le 11 e 45. All’improvviso i bambini smettono quasi tutti di piangere e dall’esterno arriva il suono delle sirene ad annunciare un altro possibile bombardamento.


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