UN CALCIO AI TALEBANI A Firenze, le calciatrici afghane
«Per noi giocare è come respirare». Ma a loro era proibito. Qui raccontano che cosa ha significato lasciare il Paese, i trofei vinti e soprattutto i parenti. E perché due scarpette o una bici sono oro
- Oggi
- di Lavinia Capritti
Alle 7 di sera di un martedì di marzo, Maryam, Susan e Fatima − nello spogliatoio femminile del circolo sportivo Impruneta-Tavarnuzze − indossano le loro preziose scarpe da calcio. Preziose, esatto. È grazie a quelle che sono arrivate in Italia da Herat, Afghanistan. Era il 27 agosto 2021. E ora nello spogliatorio ridono con grazia, si svestono velocemente di pantaloni e maglie e indossano la tuta del loro club Lebowski, mostrando gambe forti. Prima di scappare dai ta
lebani e da un’altra guerra giocavano a livello agonistico.
Chiedono se sia possibile parlare in dari, la loro lingua, per spiegare che cosa hanno dentro. Certo non può servire l’italiano, stentato. L’inglese va meglio, d’altra parte sia Maryam che Susan erano iscritte a Letteratura inglese. Maryam e Susan non portano il velo. Fatima, che porta un cappellino che la fa apparire una rapper, invece lo indossa per questioni religiose, mentre quando fa sport usa lo «sport hijab». «Sotto, ho i capelli lunghi e ricci», racconta. Fatima era considerata l’astro nascente del calcio e si vede da ogni suo movimento che è una ragazza che sogna in grande. È attaccante. Maryam gioca in difesa, Susan è centrocampista.
Al Paese facevano parte del Bastan Football Club.
Il loro racconto del passato è praticamente identico. Maryam: «I miei genitori mi hanno sempre supportato, invece i parenti scuotevano la testa: “Una brava ragazza non fa sport”. Poi sono arrivati i talebani e mio cognato ha deciso di passare con loro, ci ha additato: “Guardate che queste ragazze giocano a calcio”. È diventato tutto pericoloso». Susan: «Ho iniziato a 15 anni, non c’erano problemi. Quando sono diventata grande mi hanno detto “smettila”, soprattutto mio fratello. Mio padre non l’ha ascoltato, mi ha sempre fiancheggiato, è un eroe». L’eroe, chemostra orgogliosa sul cellulare, è un signore dall’aria pacifica, con giacchina trapuntata e bicicletta. Susan, quando il padre andava a insegnare, prendeva la sua bici e la provava in cortile, lì dove quasi tutto era proibito. Tant’è che l’avere qui, in Italia, una bici, è per lei una grande gioia. Fatima ricorda invece il caldo: «Giocavamo a mezzogiorno, quando potevamo». E poi l’addio all’Afghanistan: «Ho portato solo i vestiti, nessun trofeo», dice lei che ha vinto 3 golden Boots, 2 coppe come miglior giocatrice, 10 medaglie d’oro, 4 d’argento e 2 di bronzo. «Sarebbe stato troppo pericoloso se avessero aperto i bagagli». Per tutte e tre il calcio è la vita, l’aria che respirano.
La presa di Kabul è del 15 agosto e da lì si parte. Il racconto di Anna Meli della onlus Cospe sulla loro fuga è dettagliato: «Il 13 le ragazze avevano già contattato il giornalista Stefano Liberti per un aiuto. Dal 24 al 26 agosto
La famiglia ci ha sempre supportato, erano gli altri a storcere il naso; poi sono arrivati loro ed è diventano tutto molto pericoloso
abbiamo cercato di far partire 60 persone, 42 ce l’hanno fatta, le guidavamo via WhatsApp dall’Italia. Per rendersi riconoscibili ai militari italiani tutti avevano un fazzoletto bianco al polso e nelle vicinanze dell’Abbey Gate, la via d’ingresso all’aeroporto, dovevano gridare “Tuscania”, il nome del contingente di stanza lì». Tra quelle 42 persone c’erano Maryam, Susan, Fatima e l’allenatore Najibullah Nawrozi. E ora l’allenatore, fisico compatto simile a un masso che resiste alle intemperie, se ne sta a bordo campo a guardare le sue ragazze, con quegli occhi chiari afghani così ben raccontati dal fotografo Steve McCurry.
Della loro terra Susan dice in inglese: « I miss my family» , mi manca la mia famiglia, e poi «le nipoti, l’università », mentre Maryam, che offre samosé e che ha imparato a cucinare in Toscana, non in Afghanistan eh, sospira: «Ho nostalgia di tutto: la casa, le nuvole, l’università».
Di Firenze che non sapevano così famosa, Susan ama le pescaie sull’Arno, Maryam paragona la strada di San Domenico, verso Fiesole dove abita, alla Bam di Herat, una strada in mezzo al nulla che mostra in un video sul cellulare e le si illuminano gli occhi. Dell’Italia sapevano poco, sapevano di più dell’Arsenal e di Messi, e qualcosa pure di Sara Gama, la nostra calciatrice della Nazionale vista su Instagram. Susan indossa una maglietta con su scritto «I buoni vanno in paradiso io sono cattivo vado dappertutto», e quando scopre che significa scoppia a ridere. Lei è fortunata perché è qui con gran parte della famiglia, compreso il padre eroe. La famiglia di Maryam sta a Kabul, vive nascosta perché «la figlia giocava a calcio e ha lasciato l’Afghanistan con gli occidentali». Quando si sentono, uno degli argomenti principali è la visa, il visto di ingresso (visa e ancora visa, fa capire Maryam) per il Pakistan. Città di destinazione Quetta, vicina al confine. Sperano di raggiungere la figlia in Italia.
Maryam, Susan e Fatima sono solo ragazze. E così nello stadio a un certo punto si guardano e ridono ascoltando «Con le mani, con le mani, ciao ciao». Il ritornello è casuale, ma è impossibile non pensare ai talebani.
I GEMELLI DEL VIOLINO Da grandi vogliamo solo farvi felici
Suonando Viva la vida in un video, Mirko e Valerio hanno conquistato l’America, prima grazie a Chris Martin e poi a Ellen DeGeneres. «Non ci montiamo la testa: per noi il massimo sono lamusica e una pizza con gli amici»
- Oggi
- di Dea Verna
Questa è la favola di due gemelli violinisti di 14 anni di Agrigento che, dopo aver girato un video nella loro cameretta, hanno
conquistato gli Stati Uniti e sono stati invitati nel famoso talk show di EllenDeGeneres. Ora hanno pubblicato il loro primo album, The violin twins. Mirko e Valerio Lucia sono identici, vestono pure allo stesso modo. Ci hanno fatto entrare in casa, li abbiamo fotografati là dove tutto è iniziato, e nel loro posto del cuore: la Scala dei Turchi. «E pensare che papà quel video non lo voleva neanche fare, è stata mamma che si è intestardita», dicono.
Il video è quello in cui suonavate Viva la vida dei Coldplay, nel marzo del 2020, con milioni di visualizzazioni sui social.
«Tutto è nato per gioco, per dare speranza alle persone in unmomento difficile. Mai ci saremmo aspettati che potesse fare il giro del mondo».
Poi, la svolta.
«Unmattino ci ha svegliato un’amica di famiglia per dirci che il video era stato condiviso nella pagina di ChrisMartin. Saltavamo come canguri per l’emozione. Subito dopo è arrivata unamail, Chris Martin voleva conoscerci».
Com’è andata?
«Ci siamo incontrati su Zoom. Lui ha capito che eravamo tesi e ha iniziato a farci domande semplici, del tipo come va la scuola, che sport fate. E poi come se nulla fosse ci ha chiesto di suonare Viva la vida con lui in un live sui social».
Poi vi ha cercato Ellen DeGeneres.
«Ci ha chiamato subito, ma non potevamo spostarci per via della pandemia. Appena hanno aperto le frontiere, ci siamo fiondati a Los Angeles, con mamma e papà».
Primo impatto?
«Ci è venuto a prendere John, il driver personale. In quel van aveva portato Brad Pitt, Penelope Cruz, Jennifer Lopez e... Mirko e Valerio!».
E dopo?
«Arriviamo ai Warner Studios, una città piena di studi televisivi. Abbiamo abbracciato Ellen, ci siamo seduti e ci siamo tranquillizzati. Ci ha regalato due violini meravigliosi».
Quando avete iniziato a suonare?
«Siamo cresciuti con lamusica grazie a papà che suona di tutto. Nel suo studio c’era un violino attaccato al muro. A 8 anni abbiamo iniziato a suonarlo, un colpo di fulmine».
Com’è la vostra giornata tipo?
«Ci dividiamo tra la scuola, l’istituto tecnico turistico, e il conservatorio. Suoniamo il violino tre ore al giorno. Egiochiamo a calcio. Il sabato sera usciamo con gli amici».
C’è il rischio che vi montiate la testa?
«I nostri genitori ci tengono con i piedi a terra».
Avete successo con le ragazze?
«Abbiamo tante amiche, ma nessuna fidanzata».
Il lato oscuro di essere artisti già noti?
«Stiamo meno con gli amici. Nella vita devi prendere una decisione: o segui la tua passione o pensi solo a uscire, ma poi non costruisci nulla».
Siete dipendenti dai social?
«Preferiamo uscire in bici. Tanti nostri coetanei passano 10 ore davanti al telefono. A noi basta un’ora, poi ci stufiamo».
A 14 anni avete conosciuto una pandemia e ora la guerra.
«Stare chiusi in casa ci è costato, ci ha salvato la musica. Questa guerra è ingiusta, il popolo non la vuole, né i russi né gli ucraini. Ma non abbiamo perso l’ottimismo e la gioia di vivere».
Cosa volete fare da grandi? «Suonare nei più grandi teatri del mondo e rendere felici le persone».
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