3.4.24

EVVIVA IL DISORDINE DELL’“UMANITÀ”. RISPOSTA ALL'ITELLIGENZA ARTIFICIALE

 Uno degli articoli più  interesanti che ho letto sull'intelligenza  artificiale    è questo


IL CAOS SUPERIORE L’“uomo umano” è come un hacker che infrange il sistema degli algoritmi e ne cambia le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso. È l’eccezione logica dell’individuo sulla macchina

FOTO LAPRESSE
Scelte e casualità È nell’errare il vantaggio dell’uomo sulla macchina

Che cosa significa essere umani? È ancora possibile essere umani? In un modo o in un altro i discorsi migliori e più interessanti sull’intelligenza artificiale finiscono sempre su queste domande.

E così accade che sono proprio quelle le domande fondamentali del libro Umano, poco umano (Piemme) scritto a quattro mani da Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti. Il nostro futuro è tecnologico: non c’è alternativa. Non si può tornare indietro. Ed è per questo che il vero tema del libro è quello di renderci consapevoli delle qualità irriducibili dell’umano rispetto al tecnologico, impresa non da poco. E allora ecco l’intuizione: sono necessari “esercizi spirituali” – quelli dei filosofi antichi, come ci ha insegnato Pierre Hadot – per restare umani. La logica è quella dell’esercizio, dunque, quella della palestra. E questo fa la differenza perché esalta il fatto che occorre fare sforzo, fatica, compiere movimenti forse innaturali, ripetitivi e sgraziati, non solo piroette eleganti.La questione vera non è se l’intelligenza artificiale potrà diventare umana, ma se l’intelligenza umana potrà “rimanere” umana. Perché il digitale non è uno strumento, ma un ambiente nel quale si sviluppano le nostre relazioni, la nostra capacità di conoscenza e anche la nostra spiritualità, quella per la quale ci poniamo la domanda sul senso delle cose. L’ambiente digitale ha un impatto diretto sul nostro modo di vivere, di capire, di essere in relazione. Il modo in cui manipoliamo tecnologicamente la realtà incide anche sul modo di capire il mondo e sulla cultura. L’aereo ci fa comprendere il mondo in maniera diversa dal carro; la stampa ci ha fatto intendere la cultura in maniera nuova; la fotografia o il cinema hanno aperto nuovi spazi cognitivi e sentimentali di interazione col mondo.

Porre la questione tecnologica è porre una questione naturalmente spirituale. Infatti, non abbiamo ancora ben capito che la tecnologia è frutto della spiritualità dell’uomo e con la spiritualità ha a che fare. E questa è una tesi che la Chiesa, ad esempio, ha sempre sostenuto. Già Pio XII nel 1957 a proposito delle tecnologie diceva che ce ne sono alcune che “più da vicino toccano la vita dello spirito”. Ovviamente la tecnica è ambigua perché la libertà dell’uomo può essere spesa anche per il male, ma proprio questa possibilità mette in luce la sua natura legata al mondo delle possibilità dello spirito.

L’intelligenza artificiale la Chiesa l’aveva prevista decenni fa, almeno. San Paolo VI nel lontano 1964 rivolse un discorso profetico al Centro di Automazione dell’aloisianum di Gallarate, gestito dai gesuiti. In quella circostanza disse: “La scienza e la tecnica ci hanno offerto un prodigio, e, nello stesso tempo, ci fanno intravedere nuovi misteri: il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze”. E proseguiva: “Non è questo sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato a un servizio, che tocca il sacro?”. Queste parole sono straordinarie, geniali. Il timore dei nostri giorni – che Crippa e Girgenti esprimono non senza allarmismo – è che, alla fine, con l’intelligenza artificiale, accada però esattamente il contrario: che si infonda nel cervello spirituale il riflesso degli strumenti meccanici, a tal punto che il cervello spirituale si ponga alle dipendenze di quello meccanico e ne prenda la forma e i processi. Quale sarà l’umanità di quelle persone il cui modo di pensare è in fase di “mutazione” a causa del loro relazionarsi con l’intelligenza artificiale?

A mio avviso, una via la dobbiamo pure trovare, e dovremmo cominciare a relazionarci all’intelligenza artificiale come risorsa per la nostra umanità, come intelligenza “estesa”. I cambiamenti bruschi di “intelligenza” li abbiamo già vissuti nella storia: pensiamo alla rivoluzione dell’illuminismo (al quale poi rispose il Romanticismo). L’umanità produce questi cambiamenti e deve imparare a gestirli con saggezza. Ma so pure che dobbiamo capire bene che cosa ci rende umani, molto umani. A me colpiscono alcune considerazioni, di cui trovo le tracce in Umano, poco umano ,e sulle quali cerco di orientare la mia riflessione.

La prima riguarda il “disordine”. A differenza delle macchine, abbiamo una memoria non estesa ma profonda, intessuta di fragilità psicologiche, di immaginazione creativa, di inconscio. Non possiamo immaginare un inconscio digitale o traumi infantili in una intelligenza non umana. Ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice – in francese si dice ordinateur e in spagnolo ordenador – è proprio il disordine. Il disordine è l’eccezione logica dell’uomo sulla macchina. L’uomo umano è una sorta di hacker che rompe il sistema degli algoritmi e che ne cambia le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso.

La seconda è il pensiero. Italo Calvino in un geniale saggio del 1967 dal titolo Cibernetica e fantasmi notava che già ai suoi tempi i cervelli elettronici erano in grado di fornire un modello teorico convincente per i processi più complessi del nostro pensiero: “il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata”. Ora, non c’è difficoltà ad ammettere che un giorno si possa pervenire all’esatta riproduzione dei meccanismi del sistema nervoso, che ci consentono di pensare. Ma questo non vorrebbe dire che avremmo riprodotto artificialmente il pensiero, ma solo le condizioni perché il pensiero possa manifestarsi. Perché il pensiero si manifesti occorre che il pensiero ci sia. E il pensiero non è riducibile ai suoi meccanismi.

La seconda è l’esperienza del limite che si rivela, in particolare, nel sacro, nel sesso e nella morte. Il sacro è l’“altro” da me, ci offre il senso della soglia, di una trascendenza, che provoca sgomento o attesa o venerazione. Ed è un’esperienza fondamentale dell’essere umano, irriducibile al possesso. L’uomo prima o poi deve “togliersi i sandali”, almeno davanti alla domanda sul senso della sua stessa vita. Il sesso tende all’esperienza del godimento che però deve fermarsi necessariamente a un certo punto perché l’oggetto del desiderio resiste. E alla fine il godimento c’è proprio grazie a questa resistenza, che sparisce nella riproducibilità tecnica infinita della pornografia digitale. E la morte si impone come la possibilità dell’impossibilità di tutte le possibilità, che l’artificiale non conosce. Una terza è il gioco: l’intelligenza artificiale vince sempre. Ma noi godiamo il gioco – una partita a scacchi, ad esempio – esattamente perché è possibile vincere oppure perdere. Altrimenti che gusto c’è?

Alla fine del discorso, però, mi viene un dubbio: che cos’è “umanità” oggi? “Com’è umano lei!”, a volte diciamo per ridere. Forse non ce la facciamo più a essere umani: è diventato impegnativo, e a volte è più facile affidarci a una intelligenza che ci appare onnisciente. Che ci sia una tremenda cifra “religiosa” in tutto questo?

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