1.4.24

Diario di bordo n 41 anno II -amicizie feline , Uova di Pasqua più costose per la crisi del cacao che affonda le radici nella crisi climatica ., Nel mese di Ramadan come nella Pasqua la condivisione del cibo è sacra ., I nazisti andarono a caccia di balene per ottenere l’autarchia della margarina ., e altre storie

 Care lettrici e cari lettori, buona pasquetta.
Spero che ieri abbiate passato un sereno giorno di festa. E che anche oggi possiate trascorrere la giornata all'aria aperta (tempo permettendo) con le persone a voi più care. Se avrete tempo per leggere, in questa newsletter trovate oggi articoli e racconti presi  come  sempre  di più ampio respiro, slegati (   almeno  ci  ho  provato  )  dalla pressione dell'attualità.




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In Corso Matteotti a Tempio, c'è una coppia inseparabile che ha catturato il cuore di tutti: Anita e Rocco, due gatti affascinanti per la loro dolcezza e pulizia. Questi amici pelosi hanno scelto di celebrare la loro amicizia ritrovandosi, da anni, sempre davanti allo stesso negozio. Stanno diventando un simbolo per le
passeggiate quotidiane dei cittadini di Tempio, attirando sorrisi e saluti affettuosi dai passanti. Osservandoli, non ho potuto fare a meno di notare l'onda di tenerezza che suscitano in chiunque li incontri. Anita e Rocco non sono solo compagni di vita, ma anche testimoni silenziosi delle storie che si snodano attorno a loro. Condividere la loro storia è un modo per celebrare l'amicizia perché spesso, nel loro piccolo, gli animali sanno insegnare qualcosa a noi umani.
Poi io adoro i gatti, quindi non posso che pubblicare questa foto







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  da   :www.editorialedomani.it/


Uova di Pasqua più costose: la crisi del cacao affonda le radici nella crisi climatica

I prezzi alle stelle del cacao di questi ultimi mesi sono lo specchio di come gli eventi estremi legati al cambiamento climatico stiano già modificando le disponibilità di alcuni dei prodotti alimentari più diffusi e consumati al mondoCacao amaro. Non tanto nel gusto, ma certamente nel prezzo a tonnellata, che è quasi quintuplicato rispetto agli scambi del 2020. In questi giorni a New York una tonnellata di cacao è arrivata a toccare quota 10.000 dollari.A parità di peso, il cacao vale oltre 11 volte più del petrolio. Una crisi di tutto il settore, ma che affonda le sue radici in Africa Occidentale, dove si produce il 70 per cento delle fave di cacao a livello globale. Già nelle prime settimane di marzo, infatti, i principali impianti di lavorazione in Costa d’Avorio e Ghana segnalavano di aver interrotto o ridotto le operazioni perché i prezzi delle fave erano troppo elevati, non permettendo loro di acquistare la materia prima.E tutto questo arrivava dopo un’eccezionale ondata di calore che ha colpito l’area del golfo di Guinea e che ha indubbiamente avuto un impatto anche sul settore agricolo. Molti contadini infatti riportavano danni alle colture, riduzione nella crescita delle piante e un rallentamento in quella dei baccelli, causati proprio dalle temperature estremamente elevate per la stagione.
ONDATA DI CALORE ANOMALAA febbraio, l’Africa Occidentale è stata colpita da un’ondata di caldo insolitamente intensa per l’inizio della stagione, con temperature che normalmente non vengono raggiunte fino a marzo o aprile. Il caldo più intenso si è verificato dall’11 al 15 febbraio, con temperature superiori a 40°C.
Secondo uno studio pubblicato dalla World Weather Attribution (Wwa) la combinazione di temperature elevate e di aria relativamente umida ha portato a valori medi dell’indice di calore di circa 50°C, mentre a livello locale i valori hanno raggiunto addirittura il livello di “pericolo estremo”, con valori percepiti fino a 60°C. Secondo i ricercatori l’indice di calore è più elevato di 4°C a causa dei cambiamenti climatici in atto, e gli eventi di caldo umido così intensi sono diventati 10 volte più probabili con un aumento delle temperature medie di 1,2°C (l’attuale riscaldamento registrato a livello globale).
UOVA DI PASQUA
Non solo. Nel dicembre 2023 la Costa d’Avorio e il Ghana, i due maggiori paesi produttori di fave di cacao al mondo, hanno registrato piogge intense che hanno decimato le rese delle coltivazioni. Precipitazioni totali che sono state più del doppio della media trentennale per quel periodo dell’anno.Le condizioni umide estreme hanno così portato molte piante a contrarre la cosiddetta “malattia del baccello nero”, che causa la marcescenza dei frutti della pianta del cacao. Tuttavia, queste condizioni umide sono state rapidamente seguite dalla siccità tipica di El Niño a febbraio 2024, portando a un’ulteriore perdita dato che la coltura del cacao è estremamente sensibile alla carenza d’acqua. Gli agricoltori si son così trovati dall’avere troppa acqua a non averne abbastanza.
«Gli agricoltori dell’Africa Occidentale che coltivano l’ingrediente principale delle uova di Pasqua che molti di noi non vedono l’ora di ricevere stanno lottando contro condizioni estreme di caldo e di precipitazioni intense», ha commentato in un recente rapporto Amber Sawyer, analista presso l’Energy and Climate Intelligence Unit (Eciu) inglese. Mentre Ben Clarke, assistente di ricerca sull’analisi e l’interpretazione dei dati climatici per le condizioni meteorologiche estreme presso il Grantham Institute, ha sottolineato come «il cambiamento climatico, guidato sempre più dal consumo di combustibili fossili, sta moltiplicando questa sfida naturale in molte regioni, alimentando condizioni sempre più estreme, devastando i raccolti e facendo aumentare i costi del cibo per tutti».
CHI PAGA QUESTA CRISI ?
Fa riflettere un punto su tutti. Chi sta pagando per questa crisi? Certamente i consumatori, che si ritrovano con prezzi al dettaglio estremamente elevati.Ma se guardiamo dall’altra parte della catena la situazione è ancora peggiore: basti considerare che, in media, il 70 per cento del valore totale e il 90 per cento dei margini totali generati dai coltivatori di cacao vanno agli ultimi due attori della catena: ai marchi e ai rivenditori. A monte, solo il 18,6 per cento del valore totale e meno del 7,5 per cento del margine totale sono generati dalla forza lavoro presente nei paesi produttori di cacao (dalla coltivazione del cacao fino alle esportazioni delle fave).C’è da chiedersi, quindi, chi stia realmente guadagnando da quella che sembra essere una crisi di approvvigionamento mondiale, mentre la cioccolata sta diventando sempre più un bene di lusso.


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Nel mese di Ramadan come nella Pasqua la condivisione del cibo è sacra

Cibo e religione sono legati da un connubio antichissimo. Si vede nel rito della messa, ma anche nell’islam, con l’Iftar, il pasto conviviale che spezza il digiuno nel mese di Ramadan La celeberrima frase «L’uomo è ciò che mangia», formulata nell’Ottocento dal filosofo Feuerbach, contiene in sé una verità umana fondamentale. Se andiamo al di là del senso materialistico con cui il filosofo la intendeva, ci rendiamo conto che il cibo non è solo l’alimento necessario per la sopravvivenza fisica, ma è anche un importante segnale attraverso il quale l’uomo interagisce con il prossimo, condividendo le gioie ma anche i dolori. Al di là dei nutrienti, il cibo risulta “condito” da un profondo valore simbolico e conviviale la cui massima espressione la si ritrova in gran parte delle religioni. Il cibo allora rappresenta un importante paradigma che non solo predispone il contatto tra gli uomini ma realizza anche l’incontro con la divinità.Cibo e religione sono legati da un connubio che risale alla notte dei tempi. Sono i dettami alimentari e i precetti da rispettare a tracciare il fil rouge che lega le tre religioni monoteiste, cristianesimo, ebraismo e islam.

Oggi, abituati a mangiare da soli, talvolta in piedi e spesso compiendo altre azioni, le religioni ci ricordano che il cibo non è solo un elemento materiale, ma è un dono di Dio e il sedersi a tavola insieme è espressione di intimità non solo tra i commensali ma anche con il divino.

Prendete e mangiatene tutti


In questo contesto trova ampio respiro la dimensione conviviale del cristianesimo che secondo Montanari, storico dell’alimentazione, è emersa nel momento in cui da religione di popolo si è aperta a religione universale, scegliendo di condividere e rispettare gli usi di tutti.Nei cristiani, l’espressione più significativa della convivialità la si ritrova nell’ultima cena quando Cristo spezza il pane e lo con-divide insieme al vino con gli apostoli. Basti pensare che, la messa si celebra intorno ad un altare che è ara sacrificale, dove viene “reso presente” il sacrificio di Cristo, e mensa conviviale, dove la famiglia di Dio partecipa al banchetto eucaristico. La messa, infatti, è proprio un pasto comune in cui “si mangia Dio”.Tutto ruota intorno al «Prendete e mangiatene tutti...» dove nel condividere un pasto c’è un elemento di partecipazione tra i membri del convito, partecipazione che viene estremizzata perché uno dei membri assimila a sé gli altri e da loro vuole essere assimilato.Ciò che il cristianesimo condanna è l’atteggiamento egoistico di trattenere tutto il cibo per sé: è la voracità a rappresentare un principio antisociale, d’altronde anche Dante colloca i golosi all’inferno. E a dare il buon esempio, non poteva che essere Gesù: mangia con chiunque lo inviti e non solo con gli amici, tanto che l’ultima cena si svolge a casa di un estraneo.
L’Iftar
E a proposito di condivisione del cibo, non possiamo non fare cenno alla singolare condivisione del cibo che spezza il digiuno quotidiano durante il Ramadan. Nel nono mese lunare di ogni anno i musulmani compiono un digiuno durante il quale non è possibile ingoiare nemmeno una briciola né deglutire liquidi, dall’alba fino al tramonto.
Il digiuno, sawm, introdotto da Maometto nell’anno 624, ha lo scopo sia di esercitare l’autocontrollo, ponendo il credente di fronte alle sue dipendenze fisiche e mentali, sia di dimostrare amore per Allah e rispetto per i poveri.
Ebbene, durante questo mese c’è un momento della giornata molto significativo: l’Iftar, la rottura del digiuno al calar del sole. Questo pasto serale permette di recuperare le forze spese durante le attività quotidiane che non vengono sospese.
Ma c’è una sfumatura di significato che va oltre il puro interesse sostanziale del cibo: per il musulmano che osserva il precetto, condividere il pasto dopo il digiuno, non solo è incontro con il divino ma ha un profondo valore comunitario. I fedeli sono uno di fronte all’altro con la propria individualità ed insieme condividono la vita e i beni della terra.
Dopo il tramonto, la condivisione di pasti e di cibo si moltiplica non solo nelle case, ma anche nelle moschee e, in alcuni paesi, anche ai lati delle strade che si affollano di banchetti che vendono cibo. La rottura del digiuno porta con sé una convivialità così estremizzata che i musulmani tendono a stare svegli più a lungo nelle ore notturne tanto che il ritmo sonno-veglia è alterato.
L’ospitalità e lo stare insieme sono infatti caratteri religiosi importanti per la società islamica, soprattutto se legati alla misericordia, principio fondamentale per il profeta che amava gli Iftar collettivi e aveva piacere di rompere il digiuno insieme ai poveri. Una delle sue raccomandazioni era proprio quella che i compagni non celebrassero l’Iftar da soli ma che coinvolgessero poveri ed emarginati.
Tre datteri sono i protagonisti dell’Iftar accompagnati da un bicchiere di acqua o di latte per preparare lo stomaco al pasto successivo, proprio sull’esempio di Maometto che «…celebrava l’Iftar con datteri freschi, se non ne aveva, altrimenti utilizzava i datteri secchi ed in mancanza anche di quelli, con acqua» (Abu Dawood).
Dopo i datteri, rigorosamente in numero dispari, si alternano altre due portate: una zuppa a base di lenticchie, pollo, avena e patate seguita da un’ulteriore portata più abbondante e varia, con carne, verdure e formaggi.

Leggi   anche  
Natale in Egitto, i copti tra tradizioni culinarie e il terrore del fondamentalismo islamista ( Youssef Hassan Holgado ) 


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I nazisti a caccia di balene per ottenere l’autarchia della margarina

Anche il regime di Hitler aveva grandi aspirazioni autarchiche. Che passarono però dalla ricerca di un animale molto particolare. A un certo punto balenò l’idea di produrre margarina usando il grasso dei cetacei. Tanto da provare a conquistare un pezzo di AntartideSi racconta che Adolf Hitler fosse rimasto particolarmente sconvolto dalle conseguenze del blocco navale che gli inglesi imposero alla Germania nel 1914, durante il primo conflitto mondiale. Le condizioni in cui riversava il paese lo convinsero della fondamentale importanza per una nazione di avvicinarsi il più possibile all’autarchia, per non dipendere in alcun modo da nazioni estere.Al tempo, un terzo del fabbisogno della popolazione tedesca veniva importato e, a causa della restrizione operata per mano della Royal Navy, si stima che nel paese persero la vita 800mila persone, soprattutto per la mancanza di cibo. Quando nel 1933 salì al potere, il Führer pianificò di evitare gli errori dei suoi predecessori: il popolo tedesco avrebbe avuto la sua margarina.

La margarina

Nel 1869 il chimico francese Hippolyte Mège-Mouriès, spinto da un cospicuo premio finanziario offerto da Napoleone III, brevettò un nuovo grasso spalmabile a base di sego bovino e latte. Chiamò il prodotto Margarin, un termine derivato dalla parola greca margaritēs che significa perla, per via del suo aspetto bianco e lucente. L’imperatore era convinto che questa alternativa, più economica del burro, avrebbe giovato alle classi sociali più indigenti. Se in Francia però questo prodotto non fu mai davvero apprezzato, la margarina diventò fondamentale nelle cucine tedesche del primo dopoguerra. Dopo il trattato di Versailles la Germania si trovò a dover affrontare un periodo di grande instabilità economica e in questo contesto drammatico trovare un’alternativa più accessibile al burro fu una salvezza per tanti. Quando in sostituzione del latte vaccino si scoprì che era possibile utilizzare gli scarti di grasso animale abbassandone ancora di più il prezzo, questa antagonista del burro si diffuse ancora di più tra le classi meno abbienti.Si stima che in quel periodo il consumo annuo di margarina tedesco fosse di circa otto chili pro-capite. Di pari passo con la sua popolarità però crescevano anche i timori legati a questo prodotto controverso: prima di tutto perché si scontrava con gli interessi degli agricoltori tedeschi che producevano burro e vedevano le loro produzioni minacciate, in secondo luogo perché la margarina veniva prodotta a partire da grassi importati da altre nazioni.

L’opzione balena

Nel contesto dell’ascesa del nazionalsocialismo, queste condizioni risultavano essere semplicemente inaccettabili. Quando il partito nazista salì al potere nel 1933 infatti, la produzione di margarina venne ridotta del 40 per cento per legge e venne imposta anche una tassa sui grassi di origine estera, in modo da favorire la produzione di burro tedesco. Nel 1936 Adolf Hitler annunciò il celebre piano quadriennale, un ambizioso programma economico il cui obiettivo finale era quello dell’autarchia entro il 1940. L’incarico di gestire il programma venne affidato a Hermann Göring, al tempo un semplice funzionario nazista di alto rango, diventato successivamente leader della Gestapo e consegnato alla storia come il secondo uomo più potente del Reich.

Tra i molti punti del piano, che spaziavano dal riarmo della nazione alla costruzione di nuove infrastrutture, venne anche ridisegnato l’approvvigionamento dei grassi e in particolare dell’olio di balena, ingrediente fondamentale sia per l’industria bellica (utile, ad esempio, nel processo di creazione della nitroglicerina) che per la realizzazione di prodotti alimentari. Nello stesso periodo il cherosene, una nuova sostanza raffinata a partire dal petrolio, si stava diffondendo sempre più velocemente come combustibile economico per le lampade a olio, soppiantando proprio l’olio di balena fino ad allora impiegato e producendo un’eccedenza che non si capiva come poter smaltire. Furono due aziende produttrici di margarina a capire che quel grasso poteva essere impiegato come ingrediente nelle loro ricette. Il paese che forniva la quasi totalità di questo ingrediente era la Norvegia, che si era spinta fino all’antartico per la caccia dei cetacei, a causa della decimazione già avvenuta in tempi precedenti nell’oceano Atlantico. Göring iniziò quindi a valutare l’idea di compiere una spedizione per far sì che anche la Germania potesse avere un proprio accesso alle acque antartiche, assicurandosi tutto l’approvvigionamento di olio di cui necessitava per soddisfare i consumi dei tedeschi. Nell’agosto del 1936, il ministro degli Esteri Konstantin von Neurath trovò un territorio non reclamato in Antartide e l’idea prese definitivamente forma. L’area designata era nota come Queen Maud Land ed era stata precedentemente esplorata proprio dai norvegesi, che le diedero il nome della loro regina. La spedizione fu organizzata nell’estate del 1938 e alla guida fu posto Alfred Ritscher, un comandante navale decorato della Prima guerra mondiale. La nave Schwabenland, dal nome della regione tedesca della Svevia, salpò da Amburgo il 17 dicembre 1938 e alla spedizione presero parte 82 persone tra scienziati, ufficiali e balenieri, più due aeroplani utili per la ricognizione di tutto il territorio dall’alto. La porzione di territorio destinata ad essere conquistata si sarebbe chiamata Neu-Schwabenland, o Nuova Svevia. A bordo dell’imbarcazione un ufficiale nazista si occupava di controllare il rispetto degli standard richiesti dal regime. Ci volle un mese prima che l’imbarcazione raggiungesse la costa antartica e una volta approdati l’equipaggio iniziò subito a cartografare la regione.

Piano sfumato

Le cose però andarono diversamente da come erano state pianificate. Il 14 gennaio 1939 infatti, mentre la baleniera era ancora in viaggio, attraverso una proclamazione reale la Norvegia decise di ufficializzare la propria rivendicazione sulla Terra della Regina Maud. Per questo motivo la spedizione non durò a lungo e il 5 febbraio del 1939 la nave ripartì per la Germania. Tornato a mani vuote, Göring cercò un modo per risolvere la situazione. Venne a sapere di un farmacista che aveva scoperto come sintetizzare la margarina dal carbone, il suo nome era Arthur Imhausen. ùIl comandante convinse il partito nazista ad investire sulla nuova promettente tecnologia e quando Hiltler venne informato della scoperta, ne fu entusiasta. Possiamo immaginare che lo fosse meno nell’apprendere che la reputazione del suo partito stava venendo salvata da un uomo di origine ebrea, ma in quel momento l’autarchia era più importante.


legi anche 
  
L’autarchia impossibile del fascismo Andrea Strafile
La torta fascista per sostituire il panettone Alberto Grandi

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Quest’anno si va in gita l’anno prossimo


I casi di Pioltello e di Torino hanno oscurato altri problemi, che riguardano molti più studenti in numerosi istituti. Per la precisione, per il 50% degli studenti, quest’anno, le gite scolastiche rimarranno un miraggio. La ragione principale è quella economica, con le famiglie che fanno fatica a permettersi l’esborso per mandare i figli in viaggio. Ma questo aspetto tocca anche i professori, che da tempo chiedono compensi maggiori per l’impegno e la responsabilità che si assumono in questi contesti. 👉🏼 Gite scolastiche? Per uno studente su due sono un miraggio: costano troppo e i docenti non vogliono partire








Le università telematiche rischiano di chiudere


Negli ultimi mesi si è complicata anche la situazione delle università telematiche. Tutto verte attorno al rapporto tra il numero degli studenti e quello dei professori. Nelle università telematiche c’è un professore ogni 380 alunni, in quelle tradizionali lo stesso rapporto è oltre dieci volte minore: 28,5. Differenza eccessiva secondo un decreto del governo Draghi, che stando ai termini attuali deve essere sanata entro il prossimo novembre. Al momento, però, una soluzione sembra lontana.
👉🏼 Università telematiche, boom di studenti ma rischio fallimento con le regole di Draghi. Il governo Meloni le salverà?


I problemi della primavera in anticipo


La primavera non è solo la stagione delle gite scolastiche. È anche quella delle scampagnate, delle allergie e delle giornate tiepide. Protagoniste del periodo che anche quest’anno si sono presentate ben prima del normale. Già prima dell’equinozio le temperature di molte città italiane si sono avvicinate ai 20 gradi, mandando in tilt le simbiosi naturali tra fiori e rispettivi impollinatori, anticipando la fine del letargo di molti animali, e mettendo la parola fine a un inverno che non è mai veramente iniziato.👉🏼 L'equinozio di primavera arriva un giorno prima con temperature sopra la media

Sulle Alpi manca la neve e lo sci muore

Gli inverni sempre più caldi non stanno mettendo a repentaglio solo gli equilibri naturali, ma anche le attività umane. In questi anni, a soffrire particolarmente è stato lo sci, con decine e decine di impianti che ogni stagione chiudono definitivamente, e centinaia d’altri che continuano a sopravvivere solo grazie a centinaia di milioni di euro di finanziamenti pubblici. Iniezioni di liquidità definite da Legambiente come un «accanimento terapeutico».👉🏼 «150 milioni di soldi pubblici agli impianti sono accanimento terapeutico»


Il nuovo codice della strada non agisce sulla principale causa di morte sulle strade

Le giornate lunghe e il tepore spingono tante persone a rispolverare la bicicletta e a unirsi a quelli che invece la usano tutto l’anno per fare attività sportiva o semplicemente spostarsi. L’uso della bici come mezzo di trasporto è tra le soluzioni più efficaci per agevolare gli spostamenti nei centri urbani, eppure il nuovo codice della strada, al voto in questi giorni alla Camera dei Deputati prima di passare al Senato, ha diverse misure che penalizzano i ciclisti e gli altri utenti deboli della strada. Il nuovo testo è stato duramente criticato da esperti ed attivisti. Infatti l’obiettivo dichiarato dal ministero dei Trasporti di Matteo Salvini è ridurre il numero di vittime sulle strade, ma non agisce sulla prima causa di morte: la velocità dei veicoli a motore. Anzi, propone di alzare i limiti, riduce la facoltà di controllo e quella di multare i contravventori.👉🏼 Il nuovo codice della strada al voto alla Camera: «È un codice della strage, così non rende le strade più sicure»


Perché le auto elettriche non si ricaricano con la dinamo


Una mobilità più sostenibile passa anche da una decarbonizzazione dei mezzi a motore, che dovranno cedere il passo alla mobilità attiva e a quelli elettrici. Da giorni è diventata virale   soprattutot sui  social  e   condivisa  anche  da  me  che  sono ignorante  in materia  nonostante  abbia  fatto  il liceo scientifico     , un’immagine che mostra la ruota di un’auto elettrica collegata a una dinamo. Una soluzione apparentemente semplice per estendere di molto la durata della batteria del mezzo. Ma che in realtà è solo controproducente.
👉🏼 L’auto elettrica che (non) si ricarica con la dinamo






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