La tragedia di Golfo Aranci del 9 gennaio 1896- 9 gennaio 2016 ricordata e il cimitero del mare restaurato a cura dellle pagine facebook golfo aranci nascosta e figari

Leggendo oggi  sulla nuova  sardegna     cronaca d'Olbia   questa news


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Antiche voci del mare
Il Museo della Marineria stracolmo di persone commosse e partecipi. La consapevolezza di affrontare una storia che trasuda dolorosa umanità. L’empatia ormai totale con Rebecca, Samanta e Adriano. Le voci dei capitani marittimi Francesco Vassalle e Amerigo Bertacca che giungono a noi dalle pagine ingiallite de “La Burlamacca” e che dedico a tutti coloro che hanno assistito alla storia d’archivio “A voi che nei vortici del mare furente”. Queste voci...
 “Partii da Viareggio la sera del 7 gennaio con 130 tonnellate di legname di pino diretto a Carloforte. Il mio equipaggio era composto di 5 marinai, un mozzo di 14 anni e un fanciullo di 11, figlio di un marinaio che era meco, certo Giovannetti. Navigai felicemente fino alla sera del giorno 8 con vento sud-ovest. Al tramonto siamo nei paraggi di Capo S. Andrea dell’Isola d’Elba, ove prendemmo altro vento da scirocco che continuò sino a un’ora di notte del giorno 9. Calmato il vento principiò a tuonare: balenava per Greco-Tramontana. A un tratto si sviluppò un forte uragano di neve e vento che ci trovò assicurati di vele. Si andava col piccolo fiocco a prua, percorrendo la rotta di Sud fino alle 11 antimeridiane del 9 stesso. A Mezzogiorno si è fatto consiglio ed abbiamo deciso di alleggerire il bastimento. Infatti si è gettato in mare tutto il tòmito di coverta. Dopo di che si è cambiata la rotta per Sud-Sud-Est, onde evitare di trovarci alla costa. Alle 4 siamo in prossimità di Capoferro, senza veder nulla, ma ne ero certo, perché prima di lasciarmi dall’Elba e dalla Pianosa avevo eseguito il rilievo. Allora si è fatto consiglio di alzare la veletta terzarolata e abbendata: quindi abbiamo mollato la cecarola che dopo pochi istanti è andata in frantumi. Alle 6 si è nuovamente fatto consiglio di ammainare la veletta perché a quest’ora abbiamo udito un cupo rombo come di tuono seguito da un lampo per la direzione di Greco-Levante. Mezz’ora dopo le 6 ho avvistato il fanale di Tavolara che rimaneva da me a Libeccio e abbiamo proseguito sempre la stessa rotta. Dopo tre quarti d’ora ci è venuto giù l’albero, troncato due metri e mezzo sotto alle crocette. In questo momento il mare spazzava la coverta. Impossibile governare il timone, e rimanemmo alla balia di un mare così infuriato che io da poi che navigo non avevo mai veduto. Era tutto uno sconvolgimento, un maremoto. Mi avvidi che si andava contro la costa e raccomandai ai miei marinari che non si sgomentassero, non avessero paura e che dessero retta a me. Gli dissi fino: “Quando sbaglio tagliatemi la testa”. Non avevano voluto mangiar più nulla dal giorno precedente, per quanto li pregassi a farlo. Mi rispondevano: “Chi ce la manda giù!” – Io per mio conto avevo mangiato due gallette inzuppate nel vino. Verso le 9 di sera il bastimento urtò di fianco negli scogli. Un marinaio disse: “Guardiamo di buttarci di prua”. Ma io conoscendo che da quella parte il salvataggio era maggiormente pericoloso gli gridai: “Non vi buttate di prua, c’è la scogliera bassa, il mare vi porta sotto al bastimento e vi frange!” – Ciò detto ho agguantato uno che era già in mare con gli incerati e l’ho tirato a bordo. Intanto sono andato nella poppa, ho preso il mozzo Giorgio e il bimbo che ho consegnato al padre Giovannetti, lì alle sartie e dissi a tutti che mi aspettassero, sarei andato per il loch. Tornai nella poppa e non trovandolo fra il buio rimontai in coverta e non trovai più nessuno. Chiamai. Nessuno mi ripose. Pensai che per l’ansietà di salvarsi si fossero gettati in mare e li feci già in terra. Allora anche io mi lanciai sullo scoglio e un colpo di mare mi sbatacchiò su per le rocce. Quando fui in terra chiamai di nuovo ma ero avvilito. Me ne andai a ridosso di un cespuglio e lì mi rannicchiai, cuoprendomi la testa con la camicia di lana per ripararmi dal vento e dalla neve ghiacciata. Così stetti fino alla mattina del 10. Guardai il mare: del mio bastimento non vidi più nulla, nessuno dell’equipaggio. Mi arrampicai coi piedi intirizziti dal freddo, e scorsi la ferrovia e un casello. La cantoniera mi vide e chiamò gente. Mi apprestarono le prime cure e con un vagoncino 4 sardegnoli mi trasportarono in mezz’ora al Golfo degli Aranci. Ivi il capo stazione, un dottore di cui ignoro il nome, il delegato di porto, gli impiegati postali, i capi uffici del telegrafo, i comandanti dei piroscafi della navigazione generale, fecero per me tutto quello che poterono, diversamente non potevo essere vivo, per cui la prego – così concluse il capitano Vassalle – a ringraziare col giornale, a mio nome, quella buona gente, compresi il capitano, l’equipaggio e i passeggeri del vapore “Palestina” che mi condusse a Livorno.
Capitano marittimo Francesco Vassalle, unico sopravvissuto della tartana “Fenice”.

Anch’io partii da Viareggio insieme alla Ifigenia e alla Fenice, la sera del 7 gennaio con 110 tonnellate di pino, diretto all’Argentiera, in Sardegna. A bordo eravamo 6 compreso il mio figlio Sandro di 13 anni. Navigai felicemente sino alla mattina del giorno 9 quando fummo sorpresi da un grosso temporale da nord-nord-est. I lampi e i tuoni mi fecero assicurare di vele, ma la prima raffica di vento ci portò via la prua: vele e bastone di fiocco. Allora ordinai di alzare la cecarola per sostenere il bastimento. Dopo pochi momenti un altro colpo di vento distrusse in un attimo la vela maestra imbrogliata. Mentre si camminava in secco con la piccola cecarola, dettemo mano a gettare in mare tutto il colmo del legname, andando a discrezione del fortunale che sempre più rinforzava. Terminato il getto del legname di coverta tra le 10 e le 12 alzammo la veletta interzarolata. Intanto perdevamo la lancia che era già al fondo piena d’acqua e tremende raffiche di vento ci portavano via la veletta e la cecarola di su la prua. Allora mollammo un piccolo fiocco che serviva da temperola e così senza veder nulla, investimmo verso le sette di sera in un monte chiamato la “Cala d’Oro”, distante due miglia da Solenzara in Corsica. I colpi del mare scoppiavano a bordo e ci ricoprivano, per cui bisognava ad ogni momento afferrarsi per non essere portati via. Il mio ragazzetto, spaventato, mi si avvinghiava alla vita: gridandomi: “Salvatemi, papà, salvatemi”. Io non perdei mai la calma e guardai il pericolo senza spaventarmi. Anche i miei marinari non si confusero e obbedivano ai miei ordini. Vedevo che i colpi del mare potevano da un momento all’altro portarmi via il figliolo, mi passai rapidamente una cima intorno ai fianchi ove me lo assicurai mediante una legatura. Intanto che le onde si rovesciavano sul bastimento, nei brevi istanti di tregua, tornai a raccomandare la calma ai marinari e più specialmente ad un mio fratello dei quali faceva parte e gli gridavo che non avessero furia. Finalmente un gran colpo di mare lanciò la barca su le rocce facendovela rimanere con la poppa. Allora, sembrandomi giunto il momento opportuno pel salvataggio, cominciammo in mezzo ai più gravi pericoli a calarci su gli scogli bassi. Io mi lacerai questa gamba destra, ma lì per lì non sentii nulla. Mio fratello era già stato ferito da un legname nella sinistra e il di lui salvataggio riuscì oltre ogni dire pericoloso e disagevole: fu l’ultimo ad abbandonare la barca che ad ogni colpo di mare ricevuto a prua, scricchiolava, minacciando di sfasciarsi. Una volta tutti su per gli scogli, cominciammo a prendere una direzione, ma ad ogni passo si cadeva sulla neve che era alta un metro. Scalzi, assiderati e stanchi, ci facevamo coraggio l’un l’altro, gridando con quanta forza avevamo: “Aiuto! Aiuto! Che moriamo!” – ma nessuno udiva. Non una casa, non un lume; la neve continuava a cadere. Io allora, per dirle la verità, mi sgomentai un po’ e dissi: “Siamo scampati dal mare ma si muore dal freddo”. Il mio Sandro non ne poteva più. Lo trascinavamo per le mani. Le spine che erano sotto la neve ci tormentavano i piedi nudi. Era una disperazione. Come Dio volle, ci parve aver trovato una strada che menava a ponente. Tornammo a gridare aiuto e a un tratto ci comparve una diligenza, che era in ritardo, proveniente da Solenzara, la quale udendo i nostri urli disperati, si fermò e ci imbarcò conducendoci ad una casa di campagna poche miglia distanti dal punto ove avevamo naufragato. Era abitata non da un corso ma da una famiglia lucchese. Ci ristorarono con vini caldi e con del fuoco. Il mio bimbo lo fasciarono tutto con delle coperte calde di lana. Non rammento il nome di quella povera ma buona gente. La mattina mi feci di coraggio e andai a vedere cosa era stato del mio bastimento. Lo trovai in pezzi. Due giorni stemmo in quella casa, scalzi, scapigliati: io con la flanella e le sole mutande. Da Solenzara, poi, a mezzo del Console, passammo a Bastia, ove il postale ci condusse a Livorno.
Capitano marittimo Amerigo Bertacca, fortunatamente salvatosi con tutto l’equipaggio della tartana "Etruria".

tratto da
http://riccardomazzoni.splinder.com/










sul  versante  sardo

http://www.youtube.com/watch?v=5d3lWd1i540#t=159 parte  1


è molto vivo  , oltre  ai video  sopra  riportati  ,  la  cura e   il recupero del ricordo ( vedere  le  loro pagine   di fb     sotto citate   da  parte  di questo griupp  di Golfo Aranci  )   di tale evento .


da https://www.facebook.com/figarolo/?fref=photo e da https://www.facebook.com/Figari-344625018929607/


In Memoria dei Naufraghi Viareggini e tutti i Naufraghi del Mare...





"120° anniversario del naufragio di Golfo Aranci  9 gennaio 1896
“A VOI, CHE NEI VORTICI DEL MARE FURENTE…”
La storia della marineria viareggina, come quelle delle altre città a vocazione marinara, è costellata da episodi ed eventi luttuosi; e questo fin dal 1600 quando i primi nostri concittadini, perlopiù contadini che di mare conoscevano poco o nulla, vennero iniziati all’arte marinaresca dai più esperti marinai liguri che la Serenissima Repubblica di Lucca ingaggiò per istruirli così da costituire una piccola flotta del nascente borgo viareggino.
Uomini rubati alle loro campagne che per necessità si inventarono marinai e nel corso degli anni acquisirono la necessaria esperienza e padronanza per intraprendere autonome attività marinaresche, per lo più su piccole imbarcazioni, soprattutto da pesca. Come, fra le tantissime, quella dei fratelli Bartolomeo e Francesco Cardinali, quest’ultimo detto ‘Cecco Prete’ la cui tragica fine è così annotata nel libro dei morti per l’anno 1811, custodito nell’archivio storico di Sant’Antonio:
“Si è ricevuto sicuro riscontro da Livorno che nella notte del dì 16 venendo il 17 di Dicembre 1811, a motivo d’una Fierissima Tempesta, perì in Mare nelle vicinanze di Livorno, una Bilancella da Pesce con tutto l’equipaggio dove si trovavano quattro Persone di Viareggio, cioè Gio Bartolomeo e Francesco Cardinali, il primo di anni 41 e il secondo d’anni 34; Pasquale Borelli d’anni 35; e Vincenzo Tognetti d’anni 21.”
Chiara Corsinelli, moglie di Francesco Cardinali detto Cecco Prete, da cui lei a sua volta ‘Cecca Preta’, era in attesa dell’ottavo figlio che venne alla luce un mese dopo il tragico evento: fu chiamato Francesco, lo stesso nome di suo padre che non conobbe mai. Una storia che si ripeterà! Una fierissima tempesta! Terminologia che rende molto l’idea della forza della natura che quei poveri marinai si trovarono a contrastare. E una ‘fierissima tempesta’ doveva essere di certo anche quella che provocò la più grave tragedia occorsa alla marineria viareggina, se non altro per il numero dei marinai periti in una sola circostanza, e cioè quella avvenuta nella notte tra il 9 ed il 10 gennaio 1896, quando diverse imbarcazioni della nostra marineria, e non solo della nostra, naufragarono durante quella che venne descritta come “una delle più gravi tempeste che, a memoria d’uomo, investirono l’alto Tirreno”. 184 marinai persero la vita, di cui 18 di Viareggio, e tra questi tre bambini imbarcati come mozzi. Una fierissima tempesta: si era scatenata L’IRA DI DIO!
Ma quell’uragano non colpì soltanto quella notte. E non soltanto in mare. Ecco cosa riportò due giorni prima il giornale La Stampa di Torino, in un trafiletto dal titolo Burrasche e naufragi: “Siracusa, 7 gennaio. Presso Capo Passero un vapore norvegese ha spezzato l’asse dell’elica e molte barche pescherecce corsero pericolo di naufragare. Il brik italiano Giovanni ha raccolto l’equipaggio di una tartana che la furia del vento ha spezzato l’albero e strappato le vele. In molti comuni ha nevicato abbondantemente e il mare si mantiene in burrasca”. Capo Passero si trova nell’estrema punta meridionale della Sicilia. Evidentemente la tempesta proveniva da sud, tant’è che giorni dopo sempre sul solito giornale, un trafiletto titolato Uragano riporta da Portoferraio l’infuriare di una violenta tempesta e di una forte nevicata in tutta l’isola d’Elba. Evidenze importanti che se fossero state comunicate per tempo avrebbero potuto evitare gravi lutti, ma i sistemi di comunicazione di quei tempi basati principalmente su ‘semafori’ segnalatori e pochi collegamenti telegrafici, non lo consentirono con la necessaria efficacia.
Ma, come accennato, la fierissima tempesta, non colpì solo in mare. “Da Pallanza, Lago Maggiore. Un immane disastro ha colpito la popolazione rivierasca. Un furioso vento di una forza tale da rendere impossibile il respiro, ha scardinato vetrine ed imposte, abbattendo comignoli e scoperchiando tettoie. Ma il più grave fu che una torpediniera in servizio di crociera con 15 persone d’equipaggio è naufragata di fronte a Cannobbio nella notte del 9 gennaio”.
Di quella nave e del suo equipaggio non se ne seppe più nulla. Se quella forza della natura riuscì a raggiungere persino il Lago Maggiore facendo affondare una nave a vapore, figuratevi cosa abbia provocato in mare, quando la sua forza doveva essere assai maggiore.
Scandagliando le fonti documentarie dell’epoca, e soprattutto i giornali dai quali abbiamo tratto le cronache, abbiamo ricostruito l’intera vicenda tentando così di restituire, questa sera, le emozioni e l’atmosfera vissute dalla città in quel tragico avvenimento.
La prima avvisaglia della tragedia arriva da La Stampa di Torino: Sassari, 11 gennaio –Telegrafano da Golfo Aranci che fu rinvenuto priva di vita ed assiderato dal freddo il capitano marittimo Vassalle, comandante di un brigantino carico di legname, naufragato in quelle acque. Ignorasi la sorte dell’equipaggio.
Anche La Nazione, nell’edizione del 17 gennaio riportò la notizia del telegramma, precisando che: “La tartana Fenice, comandata dal capitano Vassalle del Compartimento di Viareggio, è naufragata presso il Golfo degli Aranci. L’equipaggio è perduto. Il solo capitano, che miracolosamente aveva potuto guadagnare terra, moriva ieri l’altro in seguito alle ferite riportate. Delle altre dieci barche peschereccio che da vari giorni si erano recate a Capo Corso, solo quattro sono andate perdute, ma si spera nella salvezza degli equipaggi. Il semaforo di Porto Vecchio ha segnalato che presso quella spiaggia vi sono parecchie barche: ciò farebbe supporre che anche le altre barche, quanto gli equipaggi, siano in salvo.
Notizie frammentarie, ma molto drammatiche che lasciano presagire il dramma che si è consumato in una gelida notte di gennaio.
Anche il giornale locale “La Burlamacca”, cinque giorni prima, aveva rilanciato la notizia fornendo un’interpretazione meno drammatica del telegramma giunto dalla Sardegna, nella speranza, forse, di un epilogo più fausto:
“Un telegramma della Capitaneria del Golfo degli Aranci in Sardegna annuncia il naufragio della tartana "Fenice", armatori i fratelli Vassalle di Viareggio, e la perdita di quasi tutto l'equipaggio composto di 8 persone. Sembra che il Capitano del bastimento sia salvo, come pure il carico di legnami. Il telegramma, redatto forse in un momento di commozione, non è troppo chiaro, per cui non possiamo dire altro. La "Fenice" carica di legname era partita dal nostro porto da soli due giorni. A domenica prossima i particolari. Il luttuoso avvenimento ha costernato l'intera cittadinanza, gettando la desolazione in otto famiglie; fra i morti vi è un padre col rispettivo figlio di 11 anni”.
Fortuna volle che tra tutte queste notizie, quella riportata da La Burlamacca fu la più aderente alla verità: rocambolescamente, il capitano Vassalle si salvò. Di tutto l’equipaggio solo lui: e fu il suo cruccio. Tornò a casa nella comprensibile gioia dei familiari, che riabbracciarono il loro congiunto già dato per morto. Venne subito raggiunto da Enrico Sisco, scrittore e giornalista, che nell’edizione del 19 gennaio, sempre su La Burlamacca, pubblicò questa straordinaria intervista all’unico sopravvissuto de La Fenice: “Lo trovai che la moglie e la cognata gli medicavano la parte inferiore del volto, ferita in più parti. Aveva mani e i piedi fasciati, e benché fossero già trascorsi 8 giorni dalla notte del naufragio, portava impresse le sofferenze patite. E’ un uomo di 40 anni, magro, nervoso, dal viso energico. Durante la medicazione io lo andavo esaminando e non potei trattenermi dal dirgli: “Voi capitano dovete la vita al vostro sangue freddo e alla prontezza di spirito”. “Si”, mi rispose e dal suo racconto conobbi che non mi ero ingannato. Terminata la medicazione ecco quanto mi narrò: “Partii da Viareggio la sera del 7 gennaio con 130 tonnellate di legname di pino diretto a Carloforte. L’ equipaggio era composto di 5 marinai, un mozzo di 14 anni e un fanciullo di 11, figlio di un marinaio che era con me, detto il Giovannetti. Navigai felicemente fino alla sera del giorno 8. Al tramonto fummo nei paraggi dell’Isola d’Elba, ove prendemmo altro vento da scirocco che continuò sino all’una di notte del giorno 9. Calmato il vento principiò a tuonare: balenava da Greco-Tramontana. A un tratto si sviluppò un forte uragano di neve e vento che ci trovò assicurati di vele. Si andava col piccolo fiocco a prua, percorrendo la rotta Sud fino alle 11 antimeridiane del 9 stesso. A Mezzogiorno si fece consiglio e decidemmo di alleggerire il bastimento gettando in mare tutto il tòmito di coverta. Alle 4 fummo in prossimità di Capoferro, senza veder nulla, ma ne ero certo, perché prima di lasciarmi dall'Elba e da Pianosa avevo eseguito il rilievo. Facemmo consiglio di alzare la veletta terzarolata e abbendata, e mollammo la cecarola che dopo pochi istanti andò in frantumi. Alle 6 facemmo nuovamente consiglio di ammainare la veletta perché udimmo un cupo rombo come di tuono seguito da un lampo per la direzione di Greco-Levante. Mezz'ora dopo avvistammo il fanale di Tavolara e proseguimmo sulla stessa rotta. Dopo tre quarti d'ora venne giù l'albero, troncato due metri e mezzo sotto alle crocette. In quel momento il mare spazzava la coverta. Impossibile governare il timone, e rimanemmo alla balia di un mare così infuriato che io, da poi che navigo, non avevo mai veduto. Era tutto uno sconvolgimento, un maremoto. Mi avvidi che si andava contro la costa e raccomandai ai miei marinari che non si sgomentassero, non avessero paura e che dessero retta a me. Gli dissi fino: “Quando sbaglio tagliatemi la testa!!”. Non avevano voluto mangiar più nulla dal giorno precedente, per quanto li pregassi a farlo. Mi rispondevano: "E chi la manda giù?! " Io per mio conto avevo mangiato due gallette inzuppate nel vino. Verso le 9 di sera il bastimento urtò di fianco negli scogli. Un marinaio disse: “Guardiamo di buttarci di prua”. Ma io conoscendo che da quella parte il salvataggio era maggiormente pericoloso gli gridai: “Non vi buttate di prua, c'è la scogliera bassa: il mare vi porta sotto al bastimento e vi frange!!”. Ciò detto agguantai uno che era già in mare con gli incerati e lo tirai a bordo. Intanto andai giù da poppa, presi il mozzo, Giorgio, e il bimbo che ho consegnato al padre, il Giovannetti, lì alle sartie, e dissi a tutti che mi aspettassero, sarei andato a prendere il loch. Tornai nella poppa e non trovandolo nel buio, risalii in coverta, ma non trovai più nessuno. Chiamai. Nessuno mi rispose. Pensai che per l’ansietà di salvarsi si fossero gettati in mare e li feci già in terra. Allora mi lanciai sullo scoglio e un colpo di mare mi sbatacchiò su per le rocce. Quando fui in terra chiamai di nuovo, ma ero avvilito. Me ne andai a ridosso di un cespuglio e lì mi rannicchiai, coprendomi la testa con la camicia di lana per ripararmi dal vento e dalla neve ghiacciata. Così stetti fino alla mattina del 10. Guardai in mare: del mio bastimento non vidi più nulla, nessuno dell’equipaggio. Mi arrampicai coi piedi intirizziti dal freddo, e scorsi la ferrovia, e un casello. La cantoniera mi vide e chiamò gente. Mi apprestarono le prime cure e con un vagoncino mi trasportarono in mezz'ora al Golfo degli Aranci. Lì il capo stazione, un dottore di cui ignoro il nome, il delegato di porto, gli impiegati postali, i capi uffici del telegrafo, i comandanti dei piroscafi della Navigazione Generale, fecero per me tutto quello che poterono, diversamente non potevo essere vivo; per cui la prego di ringraziare col giornale, a mio nome, quella buona gente, compresi il capitano, l’equipaggio e i passeggeri del vapore “Palestina” che mi condusse a Livorno”.
La tartana “Fenice” stazzava 77 tonnellate ed era assicurata alla Mutua Marittima per la metà.
Ma cos’era una tartana? La tartana è un'imbarcazione a vela - utilizzata per il cabotaggio e la pesca - dotata di un unico albero con vela latina, alle volte affiancata da un fiocco. Poteva esser lunga dai 16 ai 25 metri ed avere una stazza media tra le 30 e 80 tonnellate. Immaginatevi come una barca del genere, con un equipaggio di 8 uomini ed un carico di 130 tonnellate, avrebbe mai potuto affrontare una burrasca tremenda come quella del 9 gennaio 1896!
L’equipaggio perduto era composto da: Giovanni Emanuele Del Pistoia, marinaio 35enne detto di Burrasca dei Luchini, abitava in Via della Stella, l’attuale via Matteotti. Lasciò la moglie Assunta Biancalana ed i figli Eugenia e Antonio di 5 e 3 anni. Non conobbe mai l’ultimogenito, Giovanni Mariano, che nacque sei mesi dopo la sua scomparsa. Giovanni Luporini, marinaio 33enne, vedovo da otto mesi della moglie Assunta Bertuccelli morta a causa di parto, viveva con la suocera in via degli Uffizi. La piccola nascitura era stata data a balia alle Pieve di Camaiore. Michele Bertuccelli, 23enne, non era sposato. Unico figlio maschio, abitava coi genitori e le tre sorelle in Via del Giardino, l’attuale via Fratti. Temistocle Lippi, di 20 anni, abitava col padre, infelice, la nonna e quattro fratelli, tutti minori, in via degli Uffizi. Era l’unico sostentamento della famiglia. Giovanni Giorgio Ghiselli, mozzo di 14 anni, abitava col padre, facchino al porto, la madre e due fratelli in via Burlamacchi. Antonio Cupisti, nostromo 44enne, abitava con la moglie Rosa Canova e sei figli in Via di Mezzo. Il terzogenito Clodoveo, di appena 11 anni, anche lui imbarcato come mozzo sulla Fenice, perì assieme al padre. Erano detti i Giovannetti. Il capitano Francesco Vassalle, detto Cecco di Mangino, di 43 anni, unico superstite di quella tragedia era un noto armatore che vantava al suo attivo ben cinque bastimenti, ma non la Fenice che era armata da suo fratello Settimio. Era sposato con Maria Anna Benedetti dalla quale ebbe sette figli. Continuò a navigare fino al 1916. Il suo ultimo imbarco fu sulla brigoletta Aldemaro. Morì il 13 aprile 1929 a 74 anni di età.
Intanto, in città, l’ansia per le sorti delle altre imbarcazioni e degli equipaggi che mancavano ancora all’appello, si faceva sempre più accesa. Ed è sempre la Burlamacca che, con un trafiletto in cronaca, ne tenta un primo bilancio.
“Oltre alla tartana Fenice la nostra cittadinanza è profondamente commossa e costernata per queste altre dolorose notizie: Nave Ida - Capitano Giuseppe Giannini, partita da Bosa il 2 gennaio e diretta a Livorno, naufragata presso Bastia; di questa ignorasi la sorte dell'equipaggio.
Nave Efigenia - Partita da Viareggio la notte del 7 gennaio per Cagliari con 25 tonnellate di dinamite al comando dell'amico capitano Mentore Giorgetti, di cui sino ad oggi, 18 gennaio, non si ha notizia”.
Per l’Etruria, l’altra tartana viareggina comandata da Amerigo Bertacca, salvatosi fortunatamente insieme a tutto il suo equipaggio, l’epilogo fu più felice. Il suo racconto, raccolto ancora da Enrico Sisco e reso ancora più commovente per il lieto fine, venne pubblicato sempre su "La Burlamacca" nell’edizione del 26 gennaio:
“Anch'io partii da Viareggio la sera del 7 gennaio, insieme alla Efigenia e alla Fenice, con 110 tonnellate di pino diretto all’Argentiera, in Sardegna. A bordo eravamo 6 compreso il mio figlio Sandro di 13 anni. Navigai felicemente sino alla mattina del giorno 9 quando fummo sorpresi da un grosso temporale da nord-nord-est. I lampi e i tuoni mi fecero assicurare di vele, ma la prima raffica di vento ci portò via la prua, le vele e il bastone di fiocco. Allora ordinai di alzare la cecarola per sostenere il bastimento. Dopo poco, un altro colpo di vento distrusse in un attimo la vela maestra. Mentre si camminava in secco con la piccola cecarola, demmo mano a gettare in mare tutto il colmo del legname, andando a discrezione del fortunale che sempre più rinforzava. Terminato il getto del legname di coverta, tra le 10 e le 12, alzammo la veletta interzarolata. Perdemmo la lancia che era già al fondo piena d'acqua, e tremende raffiche di vento ci portarono via le vele dalla prua. Allora mollammo un piccolo fiocco e così, senza veder nulla, verso le sette di sera investimmo in un monte chiamato la "Cala d'Oro ", a due miglia da Solenzara, in Corsica. I colpi del mare scoppiavano a bordo e ci ricoprivano, per cui in ogni momento bisognava afferrarsi per non essere portati via. Il mio ragazzetto, spaventato, mi si avvinghiava alla vita: gridandomi: “Salvatemi, papà, salvatemi!!”. Io non persi mai la calma e guardai il pericolo senza spaventarmi. Anche i miei marinari non si confusero e obbedirono ai miei ordini. Vedevo che i colpi di mare potevano da un momento all’altro portarmi via il figliolo: mi passai rapidamente una cima intorno ai fianchi dove me lo assicurai mediante una legatura. Intanto che le onde si rovesciavano sul bastimento, nei brevi istanti di tregua, tornai a raccomandare la calma ai marinari e gli gridavo che non avessero furia. Finalmente un gran colpo di mare lanciò la barca su le rocce facendovela rimanere di poppa. Cominciammo a calarci su gli scogli bassi, in mezzo ai più gravi pericoli. Io mi lacerai la gamba destra, ma lì per lì non sentii nulla. Mio fratello era già stato ferito da un legname nella sinistra e il suo salvataggio riuscì oltre ogni dire pericoloso e disagevole: fu l'ultimo ad abbandonare la barca che ad ogni colpo di mare ricevuto di prua, scricchiolava, minacciando di sfasciarsi. Una volta tutti su per gli scogli, cominciammo a prendere una direzione, ma ad ogni passo si cadeva sulla neve che era alta un metro. Scalzi, assiderati e stanchi, ci facevamo coraggio l’un l'altro, gridando con quanta forza avevamo: "Aiuto! Aiuto! Che moriamo! ", ma nessuno udiva. Non una casa, non un lume, e la neve continuava a cadere. Io allora, per dir la verità, mi sgomentai un po' e dissi: "Siamo scampati dal mare, ma si morirà dal freddo". Il mio Sandro non ne poteva più. Lo trascinavamo per le mani. Le spine che erano sotto la neve ci tormentavano i piedi nudi. Era una disperazione. Come Dio volle, ci parve aver trovato una strada che menava a ponente. Tornammo a gridare aiuto e a un tratto ci comparve una diligenza proveniente da Solenzara, la quale udendo i nostri urli disperati, si fermò e ci imbarcò conducendoci ad una casa di campagna poche miglia distanti dal punto dove avevamo naufragato. Non era abitata da un corso, ma da una famiglia lucchese. Ci ristorarono con vini caldi e col fuoco. Il mio bimbo lo fasciarono tutto con delle coperte calde di lana. Non rammento il nome di quella povera ma buona gente. La mattina mi feci coraggio e andai a vedere cosa era stato del mio bastimento. Lo trovai in pezzi. In quella casa stemmo due giorni, scalzi, scapigliati: io con la flanella e le sole mutande. Da Solenzara, poi, a mezzo del Console, passammo a Bastia, ove il postale ci condusse a Livorno”.
Anche l’equipaggio della tartana Eloisa, appartenente alla marineria ligure ma comandata dal capitano viareggino Angelo Malfatti, riuscì miracolosamente a mettersi in salvo, così come nel suo racconto raccolto ancora una volta da Enrico Sisco e pubblicato sempre su La Burlamacca del 2 febbraio: “Il giorno 6 partimmo da Livorno con un carico di 160 tonnellate diretti a Carloforte. L’equipaggio era composto da 7 uomini, me compreso. Navigammo felicemente fino alla mattina del giorno 9 quando, vedendo il tempo imbrogliato di neve, andai ad ancorare nel porto di Tortolì. Alle 4 del pomeriggio si scatenò un fortissimo vendo da nord-ovest. Credemmo di essere al sicuro, ma il tempo andò peggiorando e alle 7 di sera, benchè fossimo in porto, cominciammo ad impensierirci. Alle 8 entrò una ‘menaita’ che, ancorata di murata a noi, principiò ad urtarci nell’opera morta. Tutti i nostri sforzi per allargarci furono impossibili a causa dell’agitazione del mare. L’equipaggio della menaita si spaventò chiedendoci soccorso tant’è che lo feci imbarcare sulla lancia della mia tartana; e fu a tempo perché dopo brevi momenti, la menaita strappò andando a fracassarsi sugli scogli. Questo successe alle 10. Alle 10 ½ uno schooner genovese, che si trovava di poppa a noi, strappò gli ormeggi andando a fracassarsi anche lui sugli scogli.
Veduto ciò, cominciai a sgomentarmi. Avevo sopravento un altro veliero, l’Astrea, di un migliaio di tonnellate distante da noi circa 50 metri che minacciava da un momento all’altro di strappare gli ormeggi: e se ciò fosse accaduto ci avrebbe mandato in perdizione. Feci consiglio, e per salvarci la vita decidemmo di abbandonare il bastimento salendo tutti a bordo della lancia, dove già vi erano i quattro marinai della menaita e, fra gravi pericoli e a stento, affiancammo l’Astrea a cui chiedemmo soccorso. Ce lo dettero e poi volevano che anche noi li aiutassimo ad abbandonare la nave: ma gli enormi colpi di mare che oltrepassavano il molo rotolando perfino pezzi di scoglio sulla banchina rovesciandoli nel porto, ci impedivano di accostarci al loro bordo.
Non c’era da perdere tempo: una volta a terra fuggimmo tutti in direzione dell’ufficio di sanità dove fummo ricevuti e ristorati. Subito pensammo di dar soccorso agli equipaggi degli altri bastimenti dei quali sentivamo le urla. Ma tutto riuscì impossibile. Era mezzanotte. Stemmo in attesa e al tocco l’Astrea strappò sterzandosi su due bastimenti mandandoli a picco.
Per dare un’idea, la sera del nove c’erano in porto nove bastimenti, e al fare del giorno 10 c’era rimasto solo l’Astrea, con 20mila lire di danni. Gli altri 8 erano colati a picco”. 
Per la bilancella Ida e il Cutter Efigenia, bisognerà attendere il 2 febbraio quando, sempre sulla Burlamacca, venne reso noto il triste destino in cui erano incappate.
“Di questi due sventurati bastimenti mancano sino ad ora i particolari ufficiali. Quello che è a nostra cognizione, lo diciamo con la massima costernazione, perché è purtroppo vero. L'Efigenia con 25 tonnellate di dinamite fu scagliata dalla tempesta del 9 gennaio contro gli scogli detti i "Mortori" a 30 miglia dalla Maddalena e tutto l'equipaggio vi perse miseramente la vita.
Una tavoletta con l'iscrizione "Efigenia" ed altri avanzi del bastimento dettero le prime tracce del triste infortunio.
L’equipaggio era composto da: Mentore Giorgetti, padrone marittimo 36enne. Abitava in via degli Uffizi con la moglie Assunta Caselli e cinque figli, tutti in tenera età. Silvestro Caselli, marinaio 31enne, cognato del comandate Giorgetti. Abitava anche lui in Via degli Uffizi con la giovane moglie Marianna Galli che aveva sposato da appena tre anni e dalla quale aveva avuto la piccola Violante Adele. Non conobbe mai il secondogenito, Silvestro, nato dopo poco più di un mese dalla sua scomparsa. Anche Paolo Buonaccorsi, marinaio 26enne, si era sposato da tre anni con Angela Larini, già madre della piccola Virginia Attilia ed incita di otto mesi. I fratelli Angelo Giovanni e Romeo Gori, di 21 e 12 anni, già orfani di padre, abitavano con la madre Rosa Ragghianti in Via Saponiera assieme ad altri 4 fratelli, il maggiore dei quali anche lui marinaio. In ultimo, Oreste Magroncini, l’altro mozzo 17enne, che viveva in via San Francesco con la sorella ed il di lei marito, anche lui marinaio.
Della bilancella Ida, carica di grano, narra il padrone di una Menaita spezzina che la sera del 9 gennaio si trovava ancorata a Pinarello in Corsica insieme ad un'altra barca carica di formaggio e vino. Il capitano di quest'ultima, vedendo che si faceva notte e il cattivo tempo imperversava con maggior forza, filò in piaggia, invitando il capitano della Ida a fare altrettanto prima che si facesse buio. L'articolista riferisce perfino le sue parole: "Capitano che facciamo qui? Andiamo via, ora che siamo in tempo. Se vien notte chi ci salva più?" Ma il capitano dell'Ida fidante sugli ormeggi tenne l'ancoraggio. La mattina i marinai della prima Menaita rinvennero sopra la costa diversi cadaveri di molte navi, fra i quali uno che aveva legato alle spalle un fanciullo. Destino crudele!
L’equipaggio della bilancella Ida si componeva dei fratelli Salvatore Giuseppe e Giovan Carlo Giannini, di 40 e 46 anni, detti di Pistellino, rispettivamente comandante e nostromo. Abitavano in Via Sant’Andrea.
Giovan Carlo, il maggiore, era stato abbandonato dalla moglie, una merlettaia di Portofino, che era andata a formarsi altrove un’altra famiglia portando con se i due figli, Enrico ed “Ida” – stesso nome dell’imbarcazione – e pare fossero emigrati in America. Giovan Carlo abitava con la sorella minore, Marianna, della quel era l’unico sostentamento.
Anche Salvatore Giuseppe abitava in Via Sant’Andrea, con la moglie Virginia Tolomei e tre figli piccoli. Paolino Petrucci, di 50 anni, era sposato con Emilia Convalle detta delle Tanine i cui parenti vivevano coi proventi di un forno che cuoceva il pane per i paesani. Abitavano in Via di Mezzo. Ranieri Bargellini, 18enne, abitava col padre, la madre e sei fratelli in via
Saponiera. Eugenio Bertacca, il mozzo, aveva compiuto 10anni da appena un mese. I fratelli Salvatore Giuseppe e Giovan Carlo Giannini, comandante e nostromo, erano i suoi zii, fratelli della madre Virginia. Era l’unico figlio e sostentamento della madre vedova. È la vittima più giovane di questa immane tragedia.
Il moto di solidarietà, spontaneo e tipico delle popolazioni marinare, non si fece attendere. Già dai primi giorni l’allora sindaco Egidio Gemignani fece pubblicare un comunicato nel quale annunciava la costituzione di un comitato per una sottoscrizione pubblica a favore delle famiglie colpite. In seguito fece affiggere in città questo manifesto:
Una terribile sciagura ha colpito varie famiglie del nostro paese. Vittime del lavoro, perirono numerosi marinai nostri compaesani sugli scogli e nelle acque della Corsica e della Sardegna. Uno speciale comitato di cui si preannuncia la costituzione farà appello alla carità cittadina.
Viareggini! Riuniti dunque in un santo dovere, concorriamo tutti a lenire il dolore e le sventure che oggi si piangono.
Anche su "La Burlamacca" apparve l’appello del direttore Cesare Leonzi:
“Una tempesta di mare: quanto lutto ha sparso nel nostro povero paese, quanta desolazione!
La madre, che ieri, corredato il suo roseo fanciullo di qualche camiciotto di lana, lo accompagnava a bordo e con un bacio, raccomandandolo al marito, si dipartiva da lui con in cuore speranza, e timore, oggi piange disperatamente la morte del figlioletto e del marito annegati, infranti contro la scogliera di un’isola. Chi aiuterà quelle povere madri alle quali domani piangeranno intorno i figlioletti affamati?
Ora che la fatale tempesta è passata, lasciando in Viareggio un immenso dolore che la nostra storia marittima giammai ricorda l'eguale - ora che il sole è tornato a splendere col suo ironico sorriso sull’onde quietate e la natura, spetta a noi soccorrere, con tutti i mezzi che le nostre forze ci permettono, le povere famiglie dei marinai naufragati...”
La tragedia raggiunse proporzioni tali che anche il Delegato di Pubblica Sicurezza di Viareggio, Felicioli, sollecitò il Prefetto di Lucca affinché richiedesse provvedimenti governativi a sostegno delle famiglie, sottolinenando che
“….quei marinai che riuscirono a salvarsi persero i propri risparmi e gli indumenti, e riportarono contusioni e malattie per le quali dovranno sopportare spese non lievi. Le famiglie in lutto ed in miseria, sono moltissime; ad alleviare le loro tristi condizioni, il Municipio sta organizzando comitati per raccogliere soccorsi.
Sarebbe assai opportuno, dato lo spirito patriottico di questa popolazione particolarmente elevato, che il governo concorresse in qualche misura a lenire le sofferenze di tante famiglie”. Venne interessato il Ministero della Real Casa, un apposito ufficio istituito presso la corte del Re competente ad amministrare i beni della corona e gli affari privati della famiglia reale, che inviò un assegno di 500 Lire: non molto, dato che se equamente diviso tra le famiglie colpite sarebbe toccato poco più di 30 lire ciascuna. Onestamente, da un Re ci saremmo aspettati di più!
Ben oltre riuscì a realizzare il Comitato cittadino: gli incassi dei veglioni del Carnevale come anche di altre inziative furono destinati alle famiglie delle vittime. Scrive "La Burlamacca":
“E adesso è una gara nella città stessa, nella campagna, fra ogni classe di cittadini, senza distinzione di partiti e di colore; è una gara per raccogliere denari e viveri a benefizio delle disgraziate famiglie. Ognuno dà quello che può. Nessuno si ricusa a dare l'obolo della carità per quanto il nostro paese attraversi oggi il periodo più squallido dell'anno...”
E non fu solo raccolta di denaro: la solidarietà popolare si espresse anche in generi alimentari o altri beni di consumo, come in questo articolo del 2 febbraio:
“Nel pomeriggio di mercoledì scorso ebbe luogo a cura del Comitato, la prima distribuzione di generi alimentari alle famiglie dei marinai naufragati. Era la caparra della beneficenza raccolta in città e nelle campagne. Un carro del Municipio, seguito dal nobile Rodolfo Marcosanti e da agenti municipali, percorsero il paese depositando in ogni casa colpita dalla sventura la quantità della roba assegnabile.
I poveri sventurati attorniavano Marcosanti e fra i singulti esternavano la loro riconoscenza. Avvennero scene strazianti di profonda pietà. I figlioletti dei morti si attaccavano all’abito del Marcosanti, commosso e piangente, chiedendo notizie dei loro papà. Le madri gli baciavano le mani bagnandogliele di lacrime. Fra qualche giorno tornerà a distribuire il denaro che si è già raccolto e che sempre e da ogni parte si va ancora raccogliendo”.
Alla data del 19 aprile, l’ammontare del denaro raccolto sfiorava le 4mila lire. E non si fermò. Altre iniziative promosse da singoli aggiunsero altro denaro, come quando in agosto, per iniziativa di Filippo Grignolo, gestore di una Giostra a vapore installata di fianco al Bagno Nettuno, venne devoluto l’intero incasso di una giornata. Le cronache riportano che furono venduti quasi 2mila biglietti per un incasso superiore alle 350 lire.
Le cerimonie religiose per le esequie dei diciotto marinai si susseguirono nelle due principali chiese della città. Lunedì 27 gennaio, a Sant’Antonio, dove, come riporta sempre la Burlamacca:
“vi prese parte un popolo immenso, commozione profonda e pianti da un capo all’altro della chiesa, in mezzo alla quale sorgeva un catafalco adorno di corone con pietose dediche. Si leggeva: “A mio figlio, A mio padre, A mio Marito, A mio fratello”. Era un quadro che faceva gemere il cuore”.
Successivamente, giovedì 16 febbraio, organizzata da un comitato di capitani marittimi con a capo il duca Strozzi, si tenne nella Chiesa di S. Andrea una solenne messa in suffragio delle anime dei 18 marinai così miseramente scomparsi. Fu l’ultimo atto di una vicenda che coinvolse profondamente la collettività viareggina.
Anche in questo caso, “un catafalco sorgeva dinanzi all’altare maggiore, circondato di ceri e adorno di molte corone funebri, mesto tributo delle famiglie. La chiesa era gremita di popolo accorso per una prece, un pensiero per le vittime dei poveri ed onesti guadagni. Notammo varie epigrafi attorno al tumulo, ma quella posta sopra l’architrave della porta del tempio, ci colpì maggiormente per cui qui la riportiamo:
“A VOI
CHE NEI VORTICI DEL MARE FURENTE
TROVASTE LA MORTE
O ARDITI MARINARI DI VIAREGGIO
L'ETERNA PACE CELESTE
SIA DOLCE PREMIO ALLO STRAZIO
DEGLI ESTREMI MOMENTI
DI VOSTRA VITA TERRENA”
Con la commemorazione in Sant’Andrea, si chiude, almeno per quanto riguarda la cronaca, l’ondata di lutto e di emozioni che coinvolse tutta la nostra cittadinanza, e non solo. Non abbiamo notizie di quel che avvenne al di là del mare, sulla riva sarda del Tirreno, ma sappiamo che ignote mani di persone semplici, mosse da un profondo sentimento di umanità e pietà cristiana, dettero una straordinaria sepoltura ai corpi dei nostri concittadini che il mare restituì: non in un cimitero, ma nello splendido scenario naturale che li vide perire nei vortici del mare furente: un paradiso naturale! Semplici, ma allo stesso tempo, solenni tumuli in pietra, contrassegnati da una croce, in legno, pitturata di bianco, con affissa una targhetta in metallo riportante il nome, l’età, la provenienza e la data della morte.
Poi, di quella tragedia se ne perse la memoria, dal momento che nei decenni successivi la vegetazione spontanea, quasi a volerle proteggere, ricoprì quelle tombe. A metà degli anni novanta del secolo scorso, uno dei tanti incendi che colpì le coste sarde, riportò alla luce quattro di quelle tombe; non sappiamo se il mare restituì tutti e sette i corpi: o se le sepolture dei tre mancanti, quelli di Giovanni Emanuele Del Pistoia, Temistocle Lippi e Giovanni Giorgio Ghiselli siano andate disperse nel tempo.
Quelle ritrovate a Cala Fenice – così ribattezzata dall’originario nome di Cala Pascali – appartengono a Clodoveo Cupisti, il giovane mozzo undicenne perito tra i flutti insieme al padre, al nostromo Antonio Cupisti, i cui cognomi, vennero allora erroneamente trascritti con la lettera “Q” iniziale; ai marinai Michele Bertuccelli e Giovanni Luporini, anche lui trascritto erroneamente. Solo quattro sepolture: gli altri 14 naufraghi hanno avuto per ultima dimora gli abissi marini.
Sul versante opposto del promontorio, venne rinvenuta un’ulteriore quinta sepoltura, anche questa contrassegnata da una croce di legno ed una traghetta in metallo riportante la scritta “Sandrina - Viareggio 1837 dai concittadini”; testimonianza di un naufragio avvenuto 60anni prima ed al quale, ancora oggi, non è stato possibile risalire.
Da quel giorno fra la nostra comunità e quella di Golfo Aranci si è stretto un rapporto solidale fatto di amicizia, di memorie e tradizioni condivise, sfociato in un gemellaggio celebrato nel 1996, in occasione del centenario di quella tragedia, allo scopo di tenerne vivo il ricordo, che costituisce una pagina indelebile di storia marinara. Alla memoria delle vittime di quella immane sciagura, come anche a tutti gli altri scomparsi “nei vortici del mare furente”, noi, quest’oggi, nel 120° anniversario di quella sciagura, abbiamo voluto dedicare questa rievocazione ed il nostro… e vostro… rispettoso omaggio. E siamo certi che centoventi anni fa, gli abitanti di quella scogliera, forse anche lo stesso casellante e sua moglie che soccorsero il capitano Vassalle, unico sopravvissuto, abbiano accompagnato i nostri concittadini verso l’ultimo viaggio recitando su quei semplici tumuli in pietra, questa loro preghiera, le cui origini si perdono nel tempo! https://www.facebook.com/tdviareggio/"
"tomba del piccolo Clodoveo Cupisti anni 11  PREGHIERA DEL NAVIGANTE

Al calare della sera

noi, uomini di mare

a Te leviamo o Signore

la nostra preghiera

e i nostri cuori:

i vivi sulle navi

i morti in fondo al mare.

Fa che la notte passi serena

per chi veglia nel lavoro,

per chi stanco si riposa.

Fa che ogni navigante

prima del sonno si segni col Tuo segno

nel Tuo amore e nel Tuo perdono

ed in pace coi fratelli.

Fa che ogni nave conservi la sua rotta

ed ogni navigante la sua fede.

Comanda ai venti e alle onde

di non cimentare la nostra nave,

comanda al Maligno

di non tentare i nostri cuori.

Conforta la nostra solitudine

col ricordo dei nostri cari,

la nostra malinconia

con la speranza del domani

le nostre inquietudini

con la certezza del ritorno.

Benedici la famiglia

che lasciammo sulla riva,

Benedici la nostra Patria

e tutte le patrie dei naviganti

che il mare unisce e non divide.

Benedici chi lavora sul mare

per meritarsi il pane quotidiano;

Benedici chi lavora sui libri

per meritarsi il mare,

Benedici chi giace in fondo al mare

E attende la Tua luce e il Tuo perdono.

E così sia.                                                                           TESTO M. Filippo Guerrieri - MUSICHE Padre Mario Mereu"

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