da https://www.facebook.com/Figari-344625018929607/?fref=photo |
da http://www.terradiviareggio.it/GolfoAranci-1.htm
Antiche voci del mare
Il Museo della Marineria stracolmo di persone commosse e partecipi. La consapevolezza di affrontare una storia che trasuda dolorosa umanità. L’empatia ormai totale con Rebecca, Samanta e Adriano. Le voci dei capitani marittimi Francesco Vassalle e Amerigo Bertacca che giungono a noi dalle pagine ingiallite de “La Burlamacca” e che dedico a tutti coloro che hanno assistito alla storia d’archivio “A voi che nei vortici del mare furente”. Queste voci...
“Partii da Viareggio la sera del 7 gennaio con 130 tonnellate di legname di pino diretto a Carloforte. Il mio equipaggio era composto di 5 marinai, un mozzo di 14 anni e un fanciullo di 11, figlio di un marinaio che era meco, certo Giovannetti. Navigai felicemente fino alla sera del giorno 8 con vento sud-ovest. Al tramonto siamo nei paraggi di Capo S. Andrea dell’Isola d’Elba, ove prendemmo altro vento da scirocco che continuò sino a un’ora di notte del giorno 9. Calmato il vento principiò a tuonare: balenava per Greco-Tramontana. A un tratto si sviluppò un forte uragano di neve e vento che ci trovò assicurati di vele. Si andava col piccolo fiocco a prua, percorrendo la rotta di Sud fino alle 11 antimeridiane del 9 stesso. A Mezzogiorno si è fatto consiglio ed abbiamo deciso di alleggerire il bastimento. Infatti si è gettato in mare tutto il tòmito di coverta. Dopo di che si è cambiata la rotta per Sud-Sud-Est, onde evitare di trovarci alla costa. Alle 4 siamo in prossimità di Capoferro, senza veder nulla, ma ne ero certo, perché prima di lasciarmi dall’Elba e dalla Pianosa avevo eseguito il rilievo. Allora si è fatto consiglio di alzare la veletta terzarolata e abbendata: quindi abbiamo mollato la cecarola che dopo pochi istanti è andata in frantumi. Alle 6 si è nuovamente fatto consiglio di ammainare la veletta perché a quest’ora abbiamo udito un cupo rombo come di tuono seguito da un lampo per la direzione di Greco-Levante. Mezz’ora dopo le 6 ho avvistato il fanale di Tavolara che rimaneva da me a Libeccio e abbiamo proseguito sempre la stessa rotta. Dopo tre quarti d’ora ci è venuto giù l’albero, troncato due metri e mezzo sotto alle crocette. In questo momento il mare spazzava la coverta. Impossibile governare il timone, e rimanemmo alla balia di un mare così infuriato che io da poi che navigo non avevo mai veduto. Era tutto uno sconvolgimento, un maremoto. Mi avvidi che si andava contro la costa e raccomandai ai miei marinari che non si sgomentassero, non avessero paura e che dessero retta a me. Gli dissi fino: “Quando sbaglio tagliatemi la testa”. Non avevano voluto mangiar più nulla dal giorno precedente, per quanto li pregassi a farlo. Mi rispondevano: “Chi ce la manda giù!” – Io per mio conto avevo mangiato due gallette inzuppate nel vino. Verso le 9 di sera il bastimento urtò di fianco negli scogli. Un marinaio disse: “Guardiamo di buttarci di prua”. Ma io conoscendo che da quella parte il salvataggio era maggiormente pericoloso gli gridai: “Non vi buttate di prua, c’è la scogliera bassa, il mare vi porta sotto al bastimento e vi frange!” – Ciò detto ho agguantato uno che era già in mare con gli incerati e l’ho tirato a bordo. Intanto sono andato nella poppa, ho preso il mozzo Giorgio e il bimbo che ho consegnato al padre Giovannetti, lì alle sartie e dissi a tutti che mi aspettassero, sarei andato per il loch. Tornai nella poppa e non trovandolo fra il buio rimontai in coverta e non trovai più nessuno. Chiamai. Nessuno mi ripose. Pensai che per l’ansietà di salvarsi si fossero gettati in mare e li feci già in terra. Allora anche io mi lanciai sullo scoglio e un colpo di mare mi sbatacchiò su per le rocce. Quando fui in terra chiamai di nuovo ma ero avvilito. Me ne andai a ridosso di un cespuglio e lì mi rannicchiai, cuoprendomi la testa con la camicia di lana per ripararmi dal vento e dalla neve ghiacciata. Così stetti fino alla mattina del 10. Guardai il mare: del mio bastimento non vidi più nulla, nessuno dell’equipaggio. Mi arrampicai coi piedi intirizziti dal freddo, e scorsi la ferrovia e un casello. La cantoniera mi vide e chiamò gente. Mi apprestarono le prime cure e con un vagoncino 4 sardegnoli mi trasportarono in mezz’ora al Golfo degli Aranci. Ivi il capo stazione, un dottore di cui ignoro il nome, il delegato di porto, gli impiegati postali, i capi uffici del telegrafo, i comandanti dei piroscafi della navigazione generale, fecero per me tutto quello che poterono, diversamente non potevo essere vivo, per cui la prego – così concluse il capitano Vassalle – a ringraziare col giornale, a mio nome, quella buona gente, compresi il capitano, l’equipaggio e i passeggeri del vapore “Palestina” che mi condusse a Livorno.
Capitano marittimo Francesco Vassalle, unico sopravvissuto della tartana “Fenice”.
Anch’io partii da Viareggio insieme alla Ifigenia e alla Fenice, la sera del 7 gennaio con 110 tonnellate di pino, diretto all’Argentiera, in Sardegna. A bordo eravamo 6 compreso il mio figlio Sandro di 13 anni. Navigai felicemente sino alla mattina del giorno 9 quando fummo sorpresi da un grosso temporale da nord-nord-est. I lampi e i tuoni mi fecero assicurare di vele, ma la prima raffica di vento ci portò via la prua: vele e bastone di fiocco. Allora ordinai di alzare la cecarola per sostenere il bastimento. Dopo pochi momenti un altro colpo di vento distrusse in un attimo la vela maestra imbrogliata. Mentre si camminava in secco con la piccola cecarola, dettemo mano a gettare in mare tutto il colmo del legname, andando a discrezione del fortunale che sempre più rinforzava. Terminato il getto del legname di coverta tra le 10 e le 12 alzammo la veletta interzarolata. Intanto perdevamo la lancia che era già al fondo piena d’acqua e tremende raffiche di vento ci portavano via la veletta e la cecarola di su la prua. Allora mollammo un piccolo fiocco che serviva da temperola e così senza veder nulla, investimmo verso le sette di sera in un monte chiamato la “Cala d’Oro”, distante due miglia da Solenzara in Corsica. I colpi del mare scoppiavano a bordo e ci ricoprivano, per cui bisognava ad ogni momento afferrarsi per non essere portati via. Il mio ragazzetto, spaventato, mi si avvinghiava alla vita: gridandomi: “Salvatemi, papà, salvatemi”. Io non perdei mai la calma e guardai il pericolo senza spaventarmi. Anche i miei marinari non si confusero e obbedivano ai miei ordini. Vedevo che i colpi del mare potevano da un momento all’altro portarmi via il figliolo, mi passai rapidamente una cima intorno ai fianchi ove me lo assicurai mediante una legatura. Intanto che le onde si rovesciavano sul bastimento, nei brevi istanti di tregua, tornai a raccomandare la calma ai marinari e più specialmente ad un mio fratello dei quali faceva parte e gli gridavo che non avessero furia. Finalmente un gran colpo di mare lanciò la barca su le rocce facendovela rimanere con la poppa. Allora, sembrandomi giunto il momento opportuno pel salvataggio, cominciammo in mezzo ai più gravi pericoli a calarci su gli scogli bassi. Io mi lacerai questa gamba destra, ma lì per lì non sentii nulla. Mio fratello era già stato ferito da un legname nella sinistra e il di lui salvataggio riuscì oltre ogni dire pericoloso e disagevole: fu l’ultimo ad abbandonare la barca che ad ogni colpo di mare ricevuto a prua, scricchiolava, minacciando di sfasciarsi. Una volta tutti su per gli scogli, cominciammo a prendere una direzione, ma ad ogni passo si cadeva sulla neve che era alta un metro. Scalzi, assiderati e stanchi, ci facevamo coraggio l’un l’altro, gridando con quanta forza avevamo: “Aiuto! Aiuto! Che moriamo!” – ma nessuno udiva. Non una casa, non un lume; la neve continuava a cadere. Io allora, per dirle la verità, mi sgomentai un po’ e dissi: “Siamo scampati dal mare ma si muore dal freddo”. Il mio Sandro non ne poteva più. Lo trascinavamo per le mani. Le spine che erano sotto la neve ci tormentavano i piedi nudi. Era una disperazione. Come Dio volle, ci parve aver trovato una strada che menava a ponente. Tornammo a gridare aiuto e a un tratto ci comparve una diligenza, che era in ritardo, proveniente da Solenzara, la quale udendo i nostri urli disperati, si fermò e ci imbarcò conducendoci ad una casa di campagna poche miglia distanti dal punto ove avevamo naufragato. Era abitata non da un corso ma da una famiglia lucchese. Ci ristorarono con vini caldi e con del fuoco. Il mio bimbo lo fasciarono tutto con delle coperte calde di lana. Non rammento il nome di quella povera ma buona gente. La mattina mi feci di coraggio e andai a vedere cosa era stato del mio bastimento. Lo trovai in pezzi. Due giorni stemmo in quella casa, scalzi, scapigliati: io con la flanella e le sole mutande. Da Solenzara, poi, a mezzo del Console, passammo a Bastia, ove il postale ci condusse a Livorno.
Capitano marittimo Amerigo Bertacca, fortunatamente salvatosi con tutto l’equipaggio della tartana "Etruria".
tratto da
http://riccardomazzoni.splinder.com/
sul versante sardo
http://www.youtube.com/watch?v=5d3lWd1i540#t=159 parte 1
è molto vivo , oltre ai video sopra riportati , la cura e il recupero del ricordo ( vedere le loro pagine di fb sotto citate da parte di questo griupp di Golfo Aranci ) di tale evento .
da https://www.facebook.com/figarolo/?fref=photo e da https://www.facebook.com/Figari-344625018929607/
da https://www.facebook.com/figarolo/?fref=photo e da https://www.facebook.com/Figari-344625018929607/
Nessun commento:
Posta un commento