Morte? Impossibile. Uno scherzo del web, abbiamo subito ipotizzato, ormai assuefatti alla banalizzazione d’un evento divenuto anch’esso liquido, evanescente, irreale. “È la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto”, cantava Lucio in quello che è considerato il suo capolavoro assoluto, Caruso. La tragedia contemporanea consiste appunto in questo: nel non pensarci poi tanto. Ma la morte giunge, radicalmente grave, incredibilmente volatile: prende e rapisce, lasciandoci dentro un pesante vuoto. Il vuoto del rammarico, del rimpianto. Dell’inafferrabile.
Ma Lucio era così cattolico. E da cattolico, per lui, non era la morte a giungere, ma la vita a finire; e, come il suo Caruso, non ci pensava poi tanto perché aveva molto amato. Perché la vita naturalmente e ovviamente finiva, e finisce così, per tutti noi, per ognuno di noi.
Abbiamo eluso una verità così semplice? Colpa nostra.

Era immenso, questo piccolo-grande uomo. E lo dico senza retorica alcuna. Da quanti secoli mi manca? Gli chiedo scusa, scusa per non aver assimilato del tutto quel suo messaggio di vita che finisce, ciclica, spontanea, profumata d’erba, di mare.
Lucio Dalla era un meticcio marino. Non si capiva bene da quale parte iniziasse, o finisse, il suo corpo basso e stortignaccolo. Un mozzo irsuto? Un Querelle italiano? Un avventore di bar di provincia? Tutto questo, e molto di più. Un periferico che come nessuno aveva saputo scrutare la mia Milano. Quella degli anni ’70, truce e concitata, di Corso Buenos Ayres. Odiava quella frenesia da calibro 9, il bolognese Lucio, e lo urlava, lo digrignava anzi, sempre con un lampo di ferrigna ironia, ma sapeva anche accarezzare così bene, e delicatamente, la città nuda e tentacolare: “Milano lontana dal cielo, tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.
Ancora mare, profondo, ovviamente. Quella sì, era la sua traversata biblica. Con qualche accento disperato, degno d’un moderno Giobbe: “Frattanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione, che li mise d’accordo tutti, i belli con i brutti, con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare”. Insomma: la religione ci ha lasciati più inguaiati di prima, quando si è istituzionalizzata. E chi ne ha fatto le spese è sempre stato il povero diavolo. Lo stesso concetto nell’altro suo eroe marino, Ulisse: “Mi sono immaginato la protesta d’un marinaio: senta signor Ulisse, lei parte, va, conquista mondi, seduce le donne più belle, e quando si trova nei guai, tracchete! Ecco un dio che la salva. I suoi sbagli, però, siamo noi a pagarli, noi non protetti da nessuna divinità, noi che abbiamo solo una casa e una moglie e un misero stipendio”. Con queste parole, una volta, Dalla spiegò la genesi di Itaca, con quel magnifico coro “fuori sincrono” maschile e pure femminile; coro di mondine e di operaie, perché Itaca era la metafora, anche, della violenza del potere sulla classe oppressa; forse, persino del capitalista illuminato. Come nell’”orazion picciola” dell’Ulisse dantesco, infatti, alla fine anche il marinaio di Lucio resta sedotto dal fascino ambiguo dell’eloquio itacense: “Anche la paura in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora mondo sono pronto, dove andiamo”.
1 commento:
La casa in riva al mare per me è la canzone che più lo rispecchia.
Lui che era un artista naif. Un umile artigiano naif.
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Canzone poetica e lirica.
Aria illuminata dal cuore.
Fatta di tutto e di niente.
Fatta d'attesa e di fiducia. Evanescente come uno sguardo al mare.
Lieve come la brezza che spira di pomeriggio verso l'entroterra
Puro volo di gabbiano quella vita di prigioniero che è la nostra vita
E Maria è il nome della libertà che da sempre amiamo, che da sempre inseguiamo. Noi che sogniamo una vita che si lasci vivere.
Un vento impalpabile che arrivi a socchiudere la porta della nostra cella e che ci apra la strada
per il mare
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