10.11.08

L'eterna madre


 



Se n'è andata all'improvviso, subito dopo l'esibizione per Roberto Saviano. Aveva 76 anni Miriam Makeba: simbolo della terra ha avuto il destino del vento, che soffia in ogni dove, e non si ferma mai.

E' morta lontano dalla sua patria, perché lei, così profondamente africana, non conosceva alcun padre. Lei era solo e definitivamente madre, "Mamma Africa", e, come tutte le madri, si riuniva in ogni dove, risorgeva nel più sperduto anfratto, si trovava lì, quando echeggiava nella notte il lamento d'un figlio.

Solo una madre è sempre uguale a sé stessa. Non cittadina del mondo, bensì mondo: cosmo, pianeta. Simbolo anche, certo. Ma simbolo di carne, simbolo perché donna, perché umana. Nata nel Paese simbolo del più odioso dei simboli, il Sudafrica dell'apartheid, era normale per lei accorrere e soccorrere le mille apartheid quotidiane, le apartheid dei bianchi che dall'Africa hanno tratto origine, i Sudafrica italiani che impediscono a uno scrittore di creare, perciò di vivere. I Sudafrica che spengono le voci libere, i Sudafrica delle squadracce fasciste che, fedeli alla loro linea di morte e di sangue, assaltano senza vergogna i canali della pubblica informazione. I Sudafrica d'una polizia con lo sfollagente che, per tua somma umiliazione, non trova di meglio che apostrofarti come "comunista" o "frocio". I Sudafrica della "gente perbene" che scheda i clochard, i Sudafrica dell'ignoranza, del maschilismo e della miseria. I Sudafrica in cui noi stessi ci rinchiudiamo, quando la rassegnazione, lo sconforto, la desolazione ci afferrano e ci dilaniano. Quando ci arrendiamo al Male.

Miriam Makeba cantava la gioia. Che non è solo assenza di dolore, né si limita alla superficiale felicità. Cantava un sentimento intimo, esclusivo, irrinunciabile, il sentimento dell'appartenenza al sangue, la fierezza e l'orgoglio di sentirsi figli e integri, quel valore della quotidianità che nessun tiranno potrà mai scalfire, perché la dignità umana è dentro di noi, scolpita nel volto di ognuno.

I regimi dittatoriali non si accaniscono subito sulle persone. Bensì sui simboli. Perché, se è vero che il simbolo può diventare feticcio, è anche vero che rappresenta l'icona dell'ineffabile. Uno dipinto, un racconto, un brano musicale, un ritmo di tamburi riecheggiano ataviche libertà, primordiali struggimenti, fermano l'occasione, l'anello che non tiene, aprono le porte della conoscenza. Intessono, con finissimi sistri d'argento, un inno alla nostra inafferrabile unicità.

Ma le dittature, inumane e immanenti, non possono che sterminare l'involucro. Materia bruta, annientano la materia. Ma il canto, la poesia, il colore è cielo. E il cielo, quando sposa la terra, la rapisce da sé. Miriam lo sapeva. Grazie, eterna madre.



Daniela Tuscano








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