Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
26.5.22
1924, così nacque lo scudetto: un affare di cuore Un unicum a livello europeo ed il libro il mio nome è scudetto di Marco impiglia ed Annalena Tappenier la prima donna a lavorare in una cava di marmo
da il fatto quotidiano del 25\52022
Per più di 75 anni è stato rigorosamente a sinistra. Era così importante cucirlo sul cuore che in due occasioni – quando le divise non avevano né sponsor, né marchi, né nomi stampati – per non sloggiare lo stemma del club (anch’esso da inserire preferibilmente là dove si mette la mano sul cuore) si
trovarono soluzioni innovative: nel 1969 la Fiorentina, fresca del suo secondo titolo, cucì accanto al tricolore un giglio viola a mo’ di fiocco; il Torino, nel 1976, campione per la settima volta, il toro rampante granata ce lo volle impresso sopra come un tatuaggio. Fu la Lazio, dopo il secondo titolo vinto nel 2000, a spostarlo a destra, imitata l’anno dopo dai cugini della Roma (ma nelle stracittadine, si sa, è meglio non abusare dei titoli di parentela) l’anno seguente dopo il terzo trionfo. Sarà la Juventus (36 titoli), a metà anni 2000, a spostarlo a centro casacca. Ed è lì che lo si è visto più spesso negli ultimi 15-20 anni sulle maglie bianconere e su quelle nerazzurre dell’inter (19). Vedremo dove sceglierà di cucirlo l’anno prossimo il Milan, fresco campione d’italia per la diciannovesima volta nella sua storia. Ma dovunque sarà, il simbolo del cuore è sempre quello: lo scudetto
La storia del distintivo tricolore – un unicum europeo, fatta eccezione per il Portogallo – che la squadra
vincitrice del campionato di Serie A ha il diritto di cucirsi sulle maglie per il campionato successivo, ce la racconta oggi lo storico Marco Impiglia nel volume ampiamente illustrato e autoprodotto Il mio nome è scudetto (256 pagine in quadricromia, 150 copie numerate, lo si può richiedere scrivendo a marco.impiglia@gmail.com). L’origine dello scudetto è eminentemente politica. Fu infatti Gabriele D’annunzio a inventarlo nel 1920, durante l’occupazione di Fiume. Sulle maglie della squadra cittadina che in un’amichevole sfidò i militari, il “vate” fece cucire (e il volume presenta una preziosa documentazione fotografica) un distintivo tricolore verde-bianco-rosso, mondato dagli stemmi di casa Savoia, poiché quella di Fiume era un’autoproclamata Repubblica.Il passaggio al campionato italiano di calcio è breve. Nel 1924 la Figc concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi lo “scudetto” sulle maglie. L’onore toccò per primo al club allora più titolato d’italia, il Genoa.
Il Grifone, quell’anno campione per la nona volta, il 3 settembre 1924 (dopo un primo esordio in un match amichevole contro l’alessandria) scese in campo a Marassi contro la Cremonese col tricolore cucito sulle casacche rossoblù. Finì 3-0 per i padroni di casa, primo gol del mitico Renzo De Vecchi detto “il figlio di dio”. L’inizio di una storia che dura ancora oggi.
TUTTE LE SQUADRE scudettate sono belle, soprattutto quelle a cui capita o è capitato di rado: il Bologna di Bulgarelli, la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi, la Lazio di Chinaglia, il Cagliari di Gigi Riva, il Torino di Pulici e Graziani, il Verona di Bagnoli, la Roma di Falcao e Di Bartolomei, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini e ancora la Lazio e la Roma di inizio anni 2000. Ma lo stesso, ovviamente, vale per i tre club più blasonati (Juventus, Inter e Milan) che in oltre 120 anni di storia si sono divisi 74 titoli in tre. Un solo club, pur avendo vinto sette campionati, non ha mai cucito lo scudetto sulle maglie: la gloriosa Pro Vercelli. Ai tempi di Fiume e di D’annunzio le bianche casacche dei pionieri piemontesi avevano infatti già vinto tutto. Un’altra, invece, ha diritto di esibire, sempre, una piccola coccarda che non è uno scudetto ma è tricolore: lo Spezia, vincitore del campionato di guerra Alta Italia del 1944, torneo mai riconosciuto dalla Figc, vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, che – nonostante la leggenda – non era una squadra di dilettanti ma semplicemente di atleti (molti erano ex del Livorno che nel 1943 sfiorò lo scudetto) inquadrati nei Vigili del Fuoco per esentarli dal servizio militare nella Rsi, così come il Torino era “Torino-fiat” e la Juventus “Juventus-cisitalia”.
Ma c’è una squadra il cui binomio con il tricolore è indissolubile: il Grande Torino.
Nel 1924 la Figc Concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi il “triangolo” sulle maglie: sempre a sinistra, Lazio e Roma lo spostano a destra
Gli “Invincibili” di Valentino Mazzola vinsero cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, e morirono tutti insieme sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Dalle macerie del bimotore schiantatosi sul terrapieno della Basilica tanto cara ai torinesi, spuntarono subito le maglie granata scudettate, quelle che i ragazzi di Ferruccio Novo indossavano in ogni fotografia.E non è un caso che lo scudetto che ancora oggi si sfoggia sulle maglie dei campioni sia lo “scudetto Grande Torino”, che la Figc volle sulle maglie dei granata campioni nel 1942-43, dopo la forzata sosta bellica, già nel campionato 1945-46, ancora prima della proclamazione della Repubblica, così come lo conosciamo oggi, mondato (proprio come aveva voluto D’annunzio un quarto di secolo prima) da ogni simbolo sabaudo e, ovviamente, fascista, che negli anni 30 e primi anni 40 avevano sostituito lo scudetto tricolore sulle maglie dei campioni d’italia.
Il volume Io sono scudetto, non a caso, verrà presentato venerdì al museo del Grande Torino di Grugliasco. E non è un caso – per tornare al simbolo del cuore – se il Torino nel 1976 optò per uno scudetto “tatuato” con il toro rampante: forse fu per non confonderlo con quello degli “Invincibili”. Un dilemma – per sfortuna dei tifosi granata – che non si è più riproposto.
Oggi
Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO PAVESI
Nella cava, quando si spengono le macchine, sembra di essere dentro una cattedrale
Nel posto in cui lavora Annalena, la luce del sole non arriva mai. Per terra c’è un mare di fango pallido, d’inverno la temperatura scende sottozero e l’unico suono che rimbomba tra le pareti infinite è il fracasso dei macchinari. Ogni mattina alle 6.30 lei e i suoi 16 colleghi (tutti uomini) salgono a bordo del minivan che si arrampica fino a 1.526 metri d’altitudine, nel Parco nazionale dello Stelvio. Annalena comincia il turno che è ancora buio e ne esce 10 ore dopo, con la faccia bianca come una statua, senza sapere se fuori troverà bel tempo o due metri di neve. Annalena Tappeiner, 25 anni e un corpo da bambina infilato nella felpa doppia, fa la cavatrice nella cava di marmo di Lasa-Weißwasserbruch, in Alto Adige. Per quanto ne sa, è l’unica donna in Italia a fare questo mestiere. Ed è felice. «Qui dentro per me il tempo vola», dice, mentre regola il taglio di un blocco grande quanto un monolocale. «In mezzo a tutto questo bianco è un po’ come stare sulla Luna».
Che il suo futuro non sarebbe stato in ufficio o all’università, Annalena l’ha capito presto, alle medie. «Le ore inchiodata al banco per me erano una tortura. Per imparare io devo fare, non ascoltare». Per qualche anno ha lavorato come commessa in un panificio. Poi ha deciso che ne aveva abbastanza, di segale e di Alto Adige.
La sveglia all’alba. Il freddo. I blocchi di pietra da tagliare, grandi come case. I colleghi maschi dicevano che avrebbe retto tremesi. Ma lei è felice. «È come lavorare sulla Luna»
Del suo stipendio mette via tutto quello che può per comprarsi un container. «Vorrei sistemarlo inmezzo a un prato e vivere lì. Nel silenzio, tra le stelle»
Voleva andare lontano, «in un posto con almeno un oceano nel mezzo». Dall’Australia, dove ha fatto la ragazza alla pari, è tornata indietro con qualche tatuaggio e due certezze: primo, è inutile avere paura dei ragni, anche di quelli più grossi, «basta spostarli con un pezzo di carta». Secondo, per stare bene ha bisogno delle montagne. Le sue montagne. Rientrata a Lasa, ha frequentato per un paio d’anni la scuola professionale per scalpellini. «È una scuola famosa, per frequentarla arrivano anche dall’Englandia», spiega, nel suo italiano ruvido e sorridente. Nel frattempo, continuava a cercare un lavoro che non la chiudesse in una stanza. Un giorno si è offerta in una vetreria, ma l’hannomandata via in malo modo: mica è un lavoro da femmine, questo. Finché sua mamma non le ha mostrato un annuncio del Vinschger, il quotidiano locale. La Lasa marmo, che produce uno dei marmi più puri del mondo, il preferito dell’architetto Calatrava, cercava personale. «Al telefono mi hanno chiesto: lei è interessata al posto in amministrazione, giusto? Quando ho risposto che volevo andare in cava quasi non ci credevano». Al suo primo giorno di lavoro, gli altri operai hanno scommesso che non avrebbe retto tremesi. Un anno e mezzo dopo Annalena è ancora in galleria, col cappuccio della felpa infilato sotto il casco e gli occhi incollati alla pietra, ché qui se ti distrai rischi la pelle. I suoi colleghi ogni tanto la chiamano mädel, “ragazzina”, «ma mi aiutano e mi hanno insegnato tutto quello che so. È come avere 16 papà». Quando alle 5 del pomeriggio scende giù dalla montagna, per lei comincia un’altra giornata. Va ad arrampicare sul Martello, oppure si siede al pianoforte e suona «le canzoni tristi», quelle che la rilassano. E quando non c’è nessuno che l’ascolta, canta. «Anche nella cava, quando si spengono le macchine. Sembra di essere in una cattedrale». Di tutte le belle cose che fanno i suoi coetanei in città non le importa nulla: Annalena non beve alcol, usa i social controvoglia e la discoteca le fa venire il mal di testa. «Amo stare da sola e lavorare all’uncinetto, così posso pensare. Oppure chiacchierare davanti al camino con Romina, la mia coinquilina, mentre beviamo una tisana».
Dalla Val Venosta, spiega, i giovani scappano appena possono. La Svizzera è vicina e si guadagna il doppio, e a Vienna c’è una specie di colonia altoatesina. «Questa è una terra dura, c’è chi ti guarda storto se parli italiano, se sei gay. A me non pesa, perché penso che a essere chiusa è solo la testa di certa gente, mica la mia. Ad altri sì». Dello stipendio da cavatrice, che sfiora i 2 mila euro, mette da parte tutto quello che riesce. Il suo sogno è quello di comprarsi una casa. Anzi, un container. «Vorrei metterlo in mezzo a un prato e vivere lì». Il container può essere anche grigio, assicura, tanto lo riempirà di fiori. L’importante è che intorno ci sia silenzio, così può suonare quanto le pare. E che alzando lo sguardo, la sera, si vedano solo le stelle. «Per me, questa è la libertà».
Nessun commento:
Posta un commento