quando i banditi si comportano meglio delle forze dell'ordine il caso della sparatoria di Ospossida

 Premetto   che non sto difendendo  criminali   ma  raccontando un episodio  cruento   della  storia del banditismo sardo  .  Sarò di parte   quello che  volete  ,  ma certe cose  non mi piacciono perchè legalità  significa   rispetto , e  quando   tu che devi  garantire  l'ordine   ti comporti cosi  ,  sei peggio di coloro  che  devi  combattere  .
Veniamo  ai   fatti

da  http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=25903&lang=it
La storia che vi raccontiamo risale a vent’anni fa, ed è una storia tragica di banditismo sardo vero, nel quale i cattivi diventano leali e i probi, col sangue de sa justhitzia, perfidi. Era la sera del 19 gennaio del 1985. Quattro fuorilegge sequestrarono l’imprenditore di Oliena Tonino Caggiari, ma furono subito intercettati ad Osposidda, nel monte Corrasi, (tra Orgosolo e Oliena) da una “pattuglia” di civili olianesi immediatamente postisi alla ricerca del compaesano. Tale manifestazione fu l’espressione de Sa kirka o de Su Kertu, così chiamata a secondo della variante linguistica, la quale rispondeva all’istituto antichissimo della radicata cultura sarda comunitaria, che impegnava gli abitanti dei rispettivi paesi colpiti dai furti di bestiame in genere (o in questo caso da sequestro), ad andare alla ricerca della cosa rubata per restituirla al proprietario. Ricevuto l’allarme, le forze dell’ordine raggiunsero, quindi, quella località: con circa cinquecento tra carabinieri e poliziotti, ma con i civili furono quasi mille gli uomini che accerchiarono i quattro latitanti più l’ostaggio. I fuorilegge non vollero arrendersi, diranno gli inquirenti, e la conseguenza fu un conflitto a fuoco durato almeno quattro ore: una vera e propria battaglia. Fu una carneficina. Sul campo rimasero i quattro latitanti più un poliziotto. Erano rispettivamente Tore Fais di Santulussurgiu, Francesco Carta di Noragugume, Giovanni Corraine di Orgosolo, Peppino Mesina anche’egli di Orgosolo e il sovrintendente Vincenzo Marongiu di Mogoro. Sui corpi dei banditi non fu possibile eseguire l’autopsia, tanto erano dilaniati dalle pallottole. Ciò che seguì fu uno spettacolo macabro che si credeva appartenere al passato, a quei tempi tanto famosi di “caccia grossa”: le forze dell’ordine in posa sorridenti accanto al morto ammazzato. Ma il culmine fu raggiunto quando i quattro corpi furono caricati in distinte camionette e portati in trofeo per le vie di Nuoro a sirene spiegate, ma a passo d’uomo, come il rituale rientro dalla caccia al cinghiale. I banditi, benché “banditi”, dimostrarono di essere più civili: liberarono l’ostaggio in un momento in cui potevano utilizzarlo come scudo. La pietà dei fuorilegge non fu ricambiata e anche da morti fu loro riservato, proprio da coloro che avrebbero dovuto comportarsi all’esatto contrario, il disprezzo e un trattamento disumano. La condotta delle forze dell’ordine rientrava nella strategia bellica esposta nella massima «Percere Subiectis et debellare superbos» ( «Perdonare quelli che si sottomettono e sconfiggere i superbi», dall’Eneide di Virgilio) dal rappresentante dello Stato Luigi Lombardini, ora defunto, il giorno dopo la strage ( su “La Nuova Sardegna” del 21 gennaio 1984), mentre il procuratore generale Giuseppe Villa Santa giustificò quella strage come “necessaria” e parlò apertamente di “Vittoria dello Stato”. Questi fatti colpirono non poco le coscienze dei sardi e la stessa Chiesa isolana si pronunciò per voce dell’allora vescovo di Nuoro monsignor Melis: «Non si deve dimenticare che la misericordia non è in contrasto con la giustizia, ma la eleva e la supera: è in altre parole una forma superiore di giustizia che va alla radice della riconciliazione fra gli uomini» ( “La Nuova Sardegna” del 27 gennaio 1985). Ad Osposidda non mancano mai i fiori.
di LENARDU SARDU


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