insegniamo a giovani il significato della morte e della vita , ma soprattutto a distinguere l'ecezione dalla regola


 cazzeggiando     sulla  home  di fab  ho  trovato     questo post      secondo me     attuale    visto il forte  numero degli anziani  ed il calo  demografico .Infatti  l'articolista    ha  perfettamente  ragione  questo  si  chiama  accanimento  terapeutico  .  curiamoli  a  casa   o  se  non se  può  fare  a meno   in day  hospital . ma  no accaniamoci  inutilmente    i vecchi dovrebbero morire  nel loro letto  .
 Impariamo  a  accettare  che  tutto   ,  la  vita  compresa  ha  un inizio  ed  una  fine  . ma  soprattutto non  facciamo   gli ipocriti  ed  isegnaniamo  a  giovano  cosa  è  la  morte    vera  non quella  dei noir  triller  ,  splatter  , ecc. Infatti  un amico di famiglia medico in ensione  ha  scritto    come  commentri  a post  che  trovate  sotto   : << Bellissimo post che descrive con dovizia di particolari ciò che ho sempre notato e deprecato nella mia lunga vita di medico ospedaliero. Purtroppo, grazie alla medicina difensiva, se hai un paziente in reparto, hai l’obbligo di fare diagnosi e terapia e non importa se dopo tre giorni il vecchietto comincia a dare numeri, se, grazie ai vari cateteri intervengono le infezioni, o se si cominciano ad intravvedere le piaghe da decubito. Si sono seguite le linee guida! Soluzione sarebbe il divieto di ingresso in ospedale a meno di episodi cataclismici, potenziamento della medicina del territorio e così via. Ma entriamo nel territorio dell’utopia😥 >> . 



COME MUORE UN ANZIANO OGGI ? Muoiono in OSPEDALE.



Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.
“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!
Esattamente lo stesso motivo (non per tutti, sia chiaro!) per il quale da diversi anni è rinchiusa in casa di riposo.
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”.
Chi lavora in ospedale si è trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una attempata signora di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Certe volte comprendo la difficoltà e il disagio in certi ragionamenti.Talvolta no.
Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la Signora ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.
A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo.
La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.
All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.
“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.
“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.
Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante (spesso il Rianimatore sollecitato di corsa per “fare di tutto”)scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”.
La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.
Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri anziani che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita.
Che serve amore, vicinanza e dolcezza.
Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.
Ma perché?
Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.
In ultimo, per noi medici: ok, hanno sbagliato, ce l’hanno portata in ospedale, non ci sono posti letto, magari resterà in barella o in sedia per chissà quanto tempo. Ma le nonnine e i pazienti, anche quelli terminali, moribondi,non sono “rotture di scatole” delle 3 del mattino.
O forse lo sono. Ma è il nostro compito, la nostra missione portare rispetto e compassione verso il “fine vita”. Perché curare è anche questo, prendersi cura di qualcuno.Anche e soprattutto quando questo avviene in un freddo reparto nosocomiale e non sul letto di casa.
di Carlo Cascone


 mentre  finisco      di  copiare  questa  storia    ecco che  su   facebook    ne  leggo un altra  , meno male   conclusasi  bene ,   multa  a parte 


Lei è Federica. Ha 28 anni. È incinta. La sua prima figlia sta per nascere. Ha già un nome, si chiama Maria Vittoria. Sono gli ultimi giorni di una gravidanza che ha attraversato il caldo soffocante di questi nostri tempi. Federica è pronta. Le hanno spiegato ogni cosa. Passeggiare, salire e scendere le scale. Lei esce in strada a fare due passi. Siamo a Napoli. Una piccola camminata. Una fitta. Improvvisa. Sotto la pancia. Sono proprio quei dolori. Quelli di cui le hanno parlato, che suonano la campana. L’inizio del parto. Federica ha un attimo di
smarrimento. Si guarda intorno. Pensa alla cosa più giusta da fare. Potrebbe chiamare il marito, un parente, un amico. Potrebbe chiamare un taxi. Vede arrivare un autobus. È proprio quello che va al Cardarelli, il più grande ospedale del Sud, il più attrezzato. Mancano giusto un paio di fermate. Federica è salita a bordo. Non l’ha deciso. Lo ha fatto. Si siede. Respira. Lenta. Resta calma. C’è un uomo. Le si para davanti. Chiede il biglietto. È un controllore. Federica non ha pensato al biglietto. Non lo ha timbrato, non lo ha nemmeno comprato. Respira. Lui vuole il biglietto. Ora. Adesso. Subito. Lei ha altro a cui pensare. Manca una sola fermata. Respira. Lui vuole i documenti. Federica gli passa il portafogli. Ci siamo quasi. Respira. Lui prende il documento, se lo tiene mentre fa il giro degli altri viaggiatori. Ecco il Cardarelli. Federica lo chiama, gli dice che deve scendere al Pronto Soccorso. La sua pancia sta scoppiando. Lui risponde non si preoccupi, scendo con lei. Lei chiede se è proprio il caso di farle la multa. Lui dice che è un pubblico ufficiale, e lei sta aggravando la sua posizione. Federica è nel panico. Scende. Cammina per mezzo chilometro. Il controllore non la accompagna. La lascia sola. Lei arriva al pronto soccorso. Partorisce qualche ora dopo. Nasce Maria Vittoria. Tornata a casa, Federica Caroccia trova la multa. Presenta ricorso. L’azienda dei trasporti lo respinge. Lei rende pubblica la sua storia. La stessa azienda si scusa..

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