Il virus vuole darci un pretesto per espellere ciò che non amiamo davvero

  questo   ottimo articolo   di DANIELE MENCARELLI Scrittore sul primo  numero del  quotidiano    nuovo   quotidiano Domani   uscito  oggi   che  trovate  qui https://www.editorialedomani.it/

Il virus vuole darci un pretesto per espellere ciò che non amiamo davvero

Il primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mare

Il primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mareIl primo giorno di scuola davanti a un cubo di cemento di comune bruttezza, segno concreto che il Covid-19 è devastante quando si abbatte su crisi già in atto. Cronaca di una mattina fra drammi, distanziamenti, TikTok e racconti d’estate, perché va bene la pandemia, ma il mare è il mare","articleBody":"La ragazzina parla al telefono, non lo tiene all’orecchio ma davanti al viso. «Nun puoi capire. Quattro ore de mascherina, ricreazione seduti, se devi anna’ al bagno te guardano tutti male, dai professori ai bidelli». La scuola è ufficialmente cominciata, in convivenza forzata con il Covid-19, le chiacchiere lasciano il posto alla pratica della realtà, regina, sempre. Il plesso scolastico sta a sud di Roma. Un istituto comprensivo come tanti sparsi sul nostro territorio, dall’asilo alle scuole medie. Sono le 12, all’entrata si mischiano vite e desideri, richieste e preoccupazioni. Una masnada di genitori in fitto conciliabolo, alla faccia del distanziamento, voci che si parlano sopra, un coro stonato che mastica rabbia. La vita dei figli ricade su quella dei genitori. Ogni famiglia è un incastro di bisogni primari e altri assolutamente secondari, se non inutili, ma oramai tutti noi abbiamo agende che sprizzano impegni, e la scuola non è più quello centrale, fondamentale, per i nostri figli, ma uno dei tanti. Da un’altra parte i ragazzi, a raccontare dell’estate aggredita dal Covid, pure lei, ma il mare è il mare, due ragazzine si abbracciano unite dalla nostalgia in suo ricordo, anche loro, alla faccia del distanziamento. Con la maglietta della Roma, biondo, quasi bianco, si allontana a tutta velocità un ragazzino delle medie, è stanco, sudato. Ha la mascherina infilata all’altezza dell’avambraccio. «Com’è stare a scuola con la mascherina?» Lui non si aspettava una domanda da uno sconosciuto, mi studia da testa a piedi. «Com’è? È n’ammazzata. Ecco com’è. Nun se respira, se devi parla’ te manca il fiato, se t’avvicini a n’amico la prof te strilla. Il peggio poi è a ricreazione, la famo scaglionata, ma devi sta’ seduto e con la mascherina comunque, se c’hai il telefono puoi usa’ quello. Basta». Si ravvia i capelli tagliati di fresco, rasati ai lati, un ciuffo lunghissimo sulla fronte. «Con tutte le regole che hanno messo per il Covid come ti trovi?». Il ragazzino mette su una faccia da adulto, improvvisa quanto credibile. «Io so’ albanese, cioè io so’ nato qui, ma mamma e papà no. Il problema è loro più che mio. Perché mamma e papà lavorano in nero, e so’ preoccupati perché se me viene anche solo un raffreddore non me possono porta’ a scuola e non sanno dove lasciamme, invece prima me portavano anche con la febbre, me mettevano la Tachipirina e me portavano». In me, istantaneamente, si affaccia il genitore con due figli in età scolare, il piccolo borghese educato in un certo modo. «Però se ci pensi anche quello che facevano i tuoi genitori non è giusto, per gli altri bambini, se uno sta male deve stare a casa, altrimenti rischia di ammalare tutti». Lui inizia ad annuire meccanicamente, ma senza grande convinzione. «È vero». Poi mi assesta uno sguardo che vale un trattato di sociologia. In un lampo mi dice che la verità, la giustizia, sono valori altissimi e non meno condivisibili, ma spesso permetterseli non è possibile. Intanto, con una capacità che mi fa rodere d’invidia, scrive a due mani sullo smartphone, a velocità impensabile, almeno per me nato analogico. «Qual è la materia che ti fa soffrire di più?». Ora è prostrazione allo stato puro. «Matematica. Ma tu me spieghi a che serve? Ormai ci stanno i telefonini, se devo fa’ un conto apro la calcolatrice e via». Anche in questo caso vorrei rispondere dal mio punto di vista, ma rinuncio, anche perché smontare la sua convinzione rischierebbe di portarci altrove. «Mi dici una cosa? La pandemia dei mesi scorsi, questo anno scolastico che inizia con le mascherine e tutto il resto, tu come lo hai vissuto? Come lo vivi?». L’interrogato incrocia le braccia. Riordina i pensieri. «Bellissimo all’inizio, schifoso dopo, e adesso. Sta’ a casa il primo mese m’è piaciuto, ma poi me so’ mancati gli amici, il pallone, ho giocato a Fortnite tutto il tempo, ma alla fine me rompevo, e poi i miei so’ stati senza lavoro. Mio padre bestemmiava tutto il tempo. Mamma uguale». Vorrei chiedergli tante altre cose ma temo di approfittarmi del suo tempo, lo saluto, lui fa altrettanto, si allontana da me correndo. Alla sua età non si cammina, si vola. Ho per un secondo l’istinto di richiamarlo, abbiamo parlato senza nemmeno dirci i nomi. Un senso di colpa mi intristisce di colpo, gli ho fatto tante domande senza partire da quella più importante, come si chiama. «Se ti dico che è pazza, fidati» «Questi so’ tutti matti, ma matti veramente». Non posso dar fondo al senso di colpa per come vorrei, attratto dalle parole di un uomo in divisa da guardia giurata che scende le scale dell’ingresso, guadagna l’uscita passandomi proprio a fianco. «Problemi?». Avrà una trentina d’anni, alla vita la fondina con la pistola. Anche lui è sudato, balla dal nervosismo. «Ho chiesto informazioni sulla mensa, se già ce so i blocchetti dei buoni pasto, io c’ho mi fija celiaca. Nun m’hanno saputo risponne. Però m’hanno detto che i ragazzini piccoli dovrebbero pranza’ alle undici e mezza, perché devono fa’ diversi turni, dai piccoli ai grandi. Ma puoi fa’ pranza’ un ragazzino alle undici e mezza? E fino alle quattro de pomeriggio come c’ariva?». La guardia giurata è meno disponibile, e senz’altro più imbufalita, del ragazzino di prima. Poco lontano da me, in capannello stretto stretto, quattro signore di diversa età. Non ci vuole particolare ingegno per capire che si tratta di professoresse. Mi avvicino, cercando il più possibile di non dare nell’occhio. «Se ti dico che è pazza, fidati, secondo lei noi riusciamo veramente a tenere fermi ventisette ragazzini di 12 anni, con mascherina e distanziamento, con tre Dsa e una 104?». Le prof si accorgono di me, immediatamente smettono di parlare. Il capannello, per colpa mia, si scioglie dopo un breve saluto. Ora, a parte me, non c’è più nessuno. L’entrata della scuola è visitata solo dal sole e dalle cicale, a rammentare che l’estate ancora non è morta. Dal portone d’ingresso, poi su di piano in piano, resto a fissare questo cubo di cemento vecchio di una quarantina d’anni. Gli anni che ci siamo lasciati alle spalle, soprattutto i decenni che vanno dai Sessanta alla fine del Novecento, hanno prodotto brutture che dovrebbero essere rasate al suolo. Semplicemente. Nel nostro paese la categoria del brutto è nata dal secondo dopoguerra in poi. Prima del Covid, ci abbiamo pensato noi a sprofondare in luoghi, scuole come questa. Dove la bellezza non sembra necessaria al benessere del singolo individuo, poi della collettività. Questa pandemia maledetta aggiunge abbruttimento su abbruttimento, traccia in maniera spietata le differenze, le possibilità degli uni contro le difficoltà materiali degli altri. È la decima piaga che si abbatte su un paese massacrato di suo. E come ogni piaga che si rispetti accresce le distanze, protegge quelli che hanno e condanna tutti gli altri. Il Covid è la somma degli addendi, rischia di trasformarsi in un pretesto meraviglioso per togliere quel poco che tanti hanno strappato alla vita. La maglietta di TikTok Alle mie spalle, un fiato grosso in avvicinamento. «Speriamo che la bidella me fa entra’». La prima ragazzina incontrata, quella che parlava al telefono tenendolo di fronte al viso. Sulla maglietta bianca il logo di TikTok. «Tutto ok?». Anche lei mi scruta, intimorita. «Sì, sì, me so’ scordata l’elenco delle cose che dobbiamo compra’ co’ i miei, ogni anno c’è una lista de materiali». Mi risponde senza fermare la corsa verso l’ingresso della scuola. Di nuovo solo, io e il canto delle cicale. Di fronte a un cubo di cemento armato trasformato in scuola. La ragazzina marchiata TikTok ha avuto successo: mi passa nuovamente di fronte tenendo in pugno un foglio. «Ci sei riuscita». Lei lo sventola neanche fosse un trofeo. «Sì, pe’ fortuna». «Questa scuola con il Covid come ti sembra?». Si mette le mani sui fianchi. «Sinceramente è pesante, il tempo a scuola già non passa, così sembra ancora più lunga, ma quello che me fa soffrire di più è altro, mi’ madre da quando c’è il virus non me manda più dai nonni, dai genitori de papà, perché dice che sono pericolosa per loro, ma loro ormai escono, nonna va al supermercato, lo potevo capì durante il lockdown, ma ora no». Mi saluta con la mano, poi se ne va. Un pretesto meraviglioso. Fare del virus esattamente questo. Non è un rischio che corrono solo i governanti, i capitani d’industria, quelli che volano sopra le nostre teste. Lo corriamo tutti. Trasformare il Covid in una resa dei conti indolore, espellere dalla nostra vita tutto quello che non amiamo veramente facendolo passare per un gesto di cortesia. «Aspetta quarcuno dotto’?». La bidella porta in ogni mano un sacco nero, pieno di carta e altro. Faccio di no con la testa, poi mi dirigo verso il grosso cancello di ferro. Il Covid passerà, se non sarà per questo inverno dovremo aspettare il prossimo. Ma ce lo lasceremo alle spalle. Noi rimarremo. Dentro le nostre scuole, famiglie, vite che cercano forme di resistenza nuova ai mali di sempre. Buona scuola a figli e genitori."

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