“Io, figlio di un pentito costretto a lasciare l’Italia per proseguire gli studi”

  leggendo  su repubblica  06 Settembre 2020  questo articolo di  ALESSIA CANDITO che  trovate  sotto  ,  ho avuto la  risposta  al perchè contro la mafia   non si vice ( anche  se  una   vittoria  effimera   perchè si disinfetta  la  ferita  ma  non  si cura  l'infezione    che essa   ha creata     cioè non si eliminano  le  cause  secolari     ) come  si fece  c, in maniera  altrettanto effimera  con il terrorismo  degli anni  70\80 . 

REGGIO CALABRIA — Ha un nome, ma non può rivelarlo. Una storia, ma è costretto a nasconderla dietro un’esistenza inventata da zero ogni volta che per ragioni di sicurezza deve cambiare città, casa, scuola. Ha obiettivi normali, comuni ai ragazzi della sua età, ma per lui sono mete impossibili da raggiungere. Perché è il figlio di un pentito di ’ndrangheta. Suo padre, Luigi Bonaventura, è stato uno degli elementi di vertice dei clan del crotonese e con le sue rivelazioni ha fatto male al casato mafioso. E lui ha dovuto imparare a nascondersi dietro vite e identità inventate di sana pianta, dietro tonnellate di scuse plausibili per giustificare l’arrivo in un posto nuovo. «Sono andato via dalla Calabria quando avevo sei anni — racconta con accento che del Sud conserva solo una lontana inflessione — Ho solo qualche ricordo, ma nulla di vivido». Da allora ha cambiato più volte città, cognome, ma mai nulla di definitivo.

«Adesso vorrei solo avere la possibilità di andare all’università — dice al telefono — ma al momento anche questo sembra impossibile». Glielo hanno comunicato i funzionari che si occupano di lui e della madre, gli unici rimasti sotto protezione da quando il padre è uscito dal programma. Per una serie di interviste non autorizzate, dicono le carte, «perché ero stanco di essere impossibilitato a vivere normalmente, senza un lavoro e senza un’identità spendibile» sostiene lui. Il cambio definitivo di generalità non è mai riuscito ad ottenerlo. «È un limbo», dice Bonaventura.
Un pantano in cui adesso è costretto a dibattersi anche il figlio, uscito dal liceo scientifico con voti tanto alti da poter ambire a entrare in diversi atenei. Anche per ragioni economiche, aveva scelto quello più vicino a casa. «Ma i funzionari che si occupano della nostra sicurezza — afferma il ragazzo — mi hanno detto che non sarebbero in grado di assicurarmi copertura. A scuola però ero iscritto con il mio nome e cognome. Non figuravo nei registri ma non avevo un’identità diversa, non capisco perché non si possa fare la stessa cosa». Lo ha chiesto ai suoi funzionari di riferimento, «ma non hanno saputo rispondermi».
Per lui, l’unica soluzione sarebbe frequentare l’università in una regione diversa da quella in cui la sua famiglia risiede, ma costa troppo e anche lì di certo non si azzererebbero i rischi. «Mi permetterebbero di iscrivermi all’università con un nome diverso dal mio, ma fuori sarei costretto a continuare a usare i miei documenti. Sarei Caio nell’ateneo e Mevio fuori. Una situazione ingestibile». Anche per lui, che da tempo ha imparato a gestire le amicizie e i contatti lasciati nelle diverse città in cui è stato. «Per alcuni mi chiamo in un modo, per gli altri in uno diverso, ho anche una storia diversa. Ed è complicato, a volte fai confusione».
La sua, racconta, è stata un’esistenza piegata alla necessità di mentire ma che comunque «non mi ha mai permesso di avere una vita normale, relazioni normali, di fare cose normali». I problemi per accedere all’università sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Ho deciso di andare via, di lasciare l’Italia e di uscire dal programma di protezione. Il primo anno lo dedicherò a fare un lavoro qualsiasi e studiare la lingua, poi tenterò di entrare all’università lì». Non nasconde che la cosa gli faccia paura ma, dice, «mi sento fra l’incudine e il martello ma se rimango in mezzo, finirò per essere schiacciato. Per questo ho deciso di andare via». Una scelta che il ragazzo ha spiegato con una lunga lettera indirizzata alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, al Servizio centrale di protezione e alla Commissione centrale con delega ai collaboratori e testimoni di giustizia, presieduta da Vito Crimi e per conoscenza anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al premier Giuseppe Conte, al senatore Nicola Morra che presiede la commissione parlamentare antimafia, al capo della Dna Federico Cafiero de Raho e a quello della procura di Catanzaro Nicola Gratteri.
«Sono un essere umano, non un oggetto, una cosa da lasciare su un mobile e spostare più o meno a seconda della convenienza — scrive per annunciare la sua decisione di partire e lasciarsi tutto alle spalle — Sono maggiorenne, in piena età della ragione e decido io ora per me». Entro 15 giorni — mette nero su bianco in quella missiva — andrà via dall’Italia con il proposito di non tornarci più. «Ho sentito di doverlo fare, un po’ per dare ufficialità alla cosa, un po’ per sfogo, ma forse — ammette — anche per inviare una richiesta di aiuto».

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