Eutanasia, in viaggio con Susanna: “Vi racconto i miei ultimi istanti di vita” Nella clinica svizzera con una torinese di 56 anni, malata da 25 di sclerosi multipla: “Ho visto passare la mia esistenza senza parteciparvi: oggi faccio una cosa per me”

Una delle tristi storie di chi è costretto ad andare all'estero ( in questo caso ) o a farlo nella clandestinità per poter decidere portare a termine con dignità la propria vita anzichè continuare a vivere e a soffrire come un vegetale un inerme

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Da www.lastampa.it/ del 8.III.2016



In Italia è vietato, ma a dieci chilometri dal confine, in Svizzera, c’è una delle cliniche in cui è possibile scegliere come morire. Tutto è molto accogliente, ma anche formale: la scelta del paziente è sacra.L’infermiera svizzera usa le parole con parsimonia professionale. «Come preferisce assumere il farmaco?». Gli occhi di Susanna Zambruno Martignetti, posati inquieti e neri sull’enorme lago che si stende oltre la finestra, si fanno all’improvviso piatti per intrappolare le emozioni. Qual è l’alternativa? «Può berlo, oppure posso farle una flebo». Susanna, che da 25 anni combatte con la sclerosi multipla, dice: «La flebo». L’infermiera le fa firmare un foglio e si allontana. «Vado a Lugano, compro il farmaco e torno». È il penultimo atto del rapido protocollo dell’eutanasia. Un minuetto preciso, apparentemente pulito - un accordo tra adulti consenzienti - che consegna ogni singola responsabilità legale e morale a chi ha scelto di morire, vietato in quella prateria bruciata dei diritti individuali che è ancora il nostro Paese, possibile appena dieci chilometri oltre il confine, dove, partendo dall’acqua, la linea dell’orizzonte si alza vertiginosamente sulla cima delle montagne per poi confondersi in un cielo luminoso e sterminato. Il mondo alla sua massima potenza.
Dove trova la forza per andarsene in un giorno spettacolare come questo?, le avevamo chiesto poche ore prima, nella sua casa di Torino. E Susanna, 56 anni, un’età nella quale si avrebbe ancora diritto di attendere la morte con stupore, aveva risposto pescando le parole in fondo alla pancia. «La trovo perché ho deciso». Poi, dopo una lunga pausa aveva aggiunto. «L’Italia costringe chi è schiavo della malattia a scappare come un ladro se vuole farla finita. Lo costringe a spendere un mucchio di soldi - a me sono serviti 13.000 euro - perché le tasse che paghiamo qui non sono sufficienti a garantirci un’uscita di scena dignitosa».


“La mia dolce morte in Svizzera: diecimila euro per non soffrire più”La diagnosi di sclerosi alla cinquantatreenne torinese Paola Cirio è stata fatta nel 2002: «È una discesa senza freni, ma la vita è mia e voglio il lieto fine. Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto farlo». Così parla Paola in attesa della chiamata della clinica elvetica dove ha deciso di ricorrere all’eutanasia: «Mi hanno detto che per morire ci vogliono cinque minuti e diecimila euro. Ti danno un gastroprotettore e subito dopo un bicchiere di veleno. A quel punto te ne vai. Senza sentire dolore».
di Andrea Malaguti



LA DOLCE MORTE

Corso Fiume, a pochi passi dal Po e dalla Gran Madre, appartamento elegante e silenzioso. Susanna Zambruno Martignetti, ex assicuratrice di famiglia ebraica, ha passato la sua ultima notte dormendo male. Si è svegliata prima dell’alba di questo lunedì 7 marzo e non è più riuscita a chiudere occhio. «Eppure, apparentemente, non mi sento agitata». Sono sempre stati gli altri ad andare da lei piangendo. «Io resisto. E in genere li consolo. Da più di un anno la vita mi fa orrore. Ma sto facendo la cosa giusta ed è per questo che l’ho fatta chiamare. Per offrire la mia testimonianza estrema, anche se la politica capirà quello che dico solo tra 20 anni». Non è né arrabbiata né delusa. Solo stanca. E ha un progetto da portare a termine. Il suo.
Chiama Maria, la donna che da troppo tempo le fa da braccia e da gambe, e le chiede di infilarle i vestiti. «Da sola non posso fare più nulla». Sceglie un maglione rosso e nero per congedarsi. E dei pantaloni marroni di velluto. Ha un corpo sottile, che non le dà più retta, i capelli neri e il viso scavato, sofferente, eppure ancora bello, disegnato bene, capace di sorridere con larghezza. «Un anno fa ho cercato di suicidarmi con i farmaci. Mi hanno portato alle Molinette e lì mi hanno salvato. Un’infermiera mi ha detto: lo sa che siamo bravi. Ho capito che aveva ragione». Così ha organizzato il piano B. Internet, la Svizzera, la buona morte. Tutto per conto suo. Suo marito Damiano, che sta con lei da trentasei anni, le ha detto: non lo fare. Suo figlio Davide, che ha 25 anni e studia da grafico, le ha detto: mamma ti prego, no. Lei li ha guardati con tenerezza e ha risposto a entrambi: «Certo che lo faccio. Senza attendere che la malattia lo faccia per me, ma solo dopo avermi schiacciato dentro questo corpo che mi fa male». La sclerosi l’ha attaccata poco prima che nascesse Davide, quando ancora sciava, giocava tennis, andava in barca, guidava la moto e con Damiano ascoltava Bowie e «I Will Survive» di Gloria Gaynor. È andata diversamente.
La gravidanza ha fatto esplodere il male, come se la vita con una mano le consegnasse il senso più profondo di sé e con l’altra cominciasse a toglierglielo. «Sono stati 25 anni difficili. Ho guardato la mia esistenza senza poter partecipare. Come un’anziana. Mi sono indurita. E ora l’unica cosa che mi dispiace è lasciare del dolore. So che Damiano e Davide soffriranno. Ma questa è una cosa che faccio per me, non per loro». A tredici anni aveva festeggiato il bat mitzvah, la festa con cui le donne ebree entrano nella maturità, decidendo di consegnare a Dio il proprio percorso terreno. È cambiata piano piano. «Credo che non ci sia nulla oltre la vita. E questo nulla un po’ mi dà fastidio. Ma non mi spaventa. Nessuna religione, d’altra parte, consente il suicidio, no?». Nella sua testa ha sistemato ogni cosa. Davide, che è un ragazzone buono e di talento, le dice: mamma è l’ora, è arrivato l’autista. E sembra un cucciolo di cerbiatto che ha messo una zampa in fallo. Si controlla sapendo bene che le sue lacrime arriveranno lentamente. Sono le dieci del mattino.
L’ULTIMA FLEBO
Susanna vorrebbe andare da sola. Ma Damiano e Davide non ce la fanno a lasciarla così. La seguono. E con loro Silvana,la sorella di Susanna, Sara, la fidanzata di Davide, quattro amici fedeli, la sorella di Damiano. Un cordone impotente d’affetti. L’autista sa che la meta è vicina a Lugano, ma non conosce i motivi del viaggio. Lo fanno fermare lungo uno stradone davanti a una casa su tre piani che guarda il lago. Un cubo di cemento grigio arredato in modo accogliente. Il salotto. La macchina per il caffè. Un letto spazioso. Susanna si apparta con un medico venti minuti. È sicura, signora? Mai stata più sicura di niente. Ultimo atto. Alle 15,30 l’infermiera torna con il farmaco, lo inietta nella flebo. Gli occhi di Davide si sgretolano, quelli di Susanna si chiudono. È stato bello conoscervi.
Silvana attraversa la strada ancora piena di neve. Entra in un bar e si offre un bicchiere di rosso alla salute della sorella. «Lo so che ora stai meglio». E si volta a guardare la casa davanti al lago come se stesse osservando un paesaggio lontano.

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