1.1.13

Uomini dentro un vestito da sposa Processo a un artista-contro

Finalmente   dopo  4  mesi    dopo  gli insulti  e l'emarginazione  , per  le  sue provocazioni  stilistiche di far vestire   gli uomini con abiti  femminili  da  sposa  (  vedere  scansione dell'unione sarda del 30\9\2012  )  preda dalal sezione press  del suo sito  ( http://nicola-mette.blogspot.it/ ) 
   riesce  a vincere i pregiudizi e  l'emarginazione di  un paese intero  e  l'isolamento   creatogli attorno  per   queste sue  , discutibili e  perchè no anche  criticabili  , ma  non irrispettose  , provocazioni stilistiche  qui e  nel  video  sotto  


  Ulteriori dettagli si  trovano  nel   bell'articolo di  intervista  di Giorgio Pisano    preso ( eccetto le foto  che  vengono dal http://giuseppefraugallery.blogspot.it perchè  pe run arcano  mistero   visto  che ormai sono due anni che  l'edizione    online  free  del quotidiano  non le pubblica  più ) dall'unione sarda del 30\12\2012


Uomini dentro un vestito da sposa Processo a un artista-contro

di GIORGIO PISANO
Non era facile ma alla fine ce l'ha fatta: tutto il paese contro di lui. Dal sindaco al parroco passando per l'assessore alla Cultura senza dimenticare i ragazzini che, quando lo vedono per strada, lo insultano. C'è addirittura chi ha messo mano al pennello e, dribblando la sintassi, ha scritto sull'asfalto: Nicola Mette sei la vergogna del paese gay . Paese gay? 
Di sicuro a Sindia nessuno dimenticherà l'avvenimento. Ancora adesso, a distanza di due mesi, sfrigola come un rogo d'estate.Intanto Nicola Mette vive in galera. Nel senso che si sente imprigionato nella casa dei genitori, dov'è tornato a giugno dopo una decina d'anni trascorsi a Roma. Dove andare?, con chi uscire?, con chi parlare? Gli hanno costruito attorno una sorta di cordone sanitario. Niente minacce e neppure lettere anonime ma qualcosa che forse pesa ancora di più: il silenzio. Un silenzio teso e greve, rotto soltanto dai tweet e dagli strali lanciati su Facebook.Trentatré anni, fisico da alpino che ha ecceduto con la polenta, Nicola mostra sensibilità e cultura. Le offese non lo sfiorano: sapeva che la sua doveva essere una provocazione e provocazione è stata. Ha esagerato? Giudicate voi: ha vestito da sposa (sposa, non sposo) un gruppo di giovani maschi. Abito tradizionale della Sardegna: ma, come dire?, al rovescio. Così le spose, candore dei veli a parte, risultavano in sostanza grotteschi balentes travestiti. Apriti cielo. «Vai a spiegarlo che era solo una performance». Ossia l'esibizione di un artista che vuol denunciare a modo suo le discriminazioni sessuali. Indice di gradimento dell'opera (ma sarebbe più giusto parlare di happening)? Quasi zero, salvo lo spasso dei protagonisti, ragazzi di Cabras, Ottana e Sedilo che hanno accettato di buon grado la festa en travesti.Il sindaco l'ha presa male, il prete addirittura peggio: cosa hai combinato? E per punirlo gli ha dato lo sfratto da una stanza parrocchiale che Nicola utilizza come laboratorio. A parte questa rappresaglia, il resto è rabbia, mezze parole tra i denti. E la condanna all'isolamento: totale e ininterrotto. «Non intendevo offendere nessuno ma solo ricordare cosa dice l'articolo 3 della nostra Costituzione. Siamo tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle, fede e orientamento sessuale».Figlio di un ex muratore e di una casalinga, Mette ha frequentato l'Istituto d'arte di Oristano per trasferirsi più tardi a Roma dove si è diplomato all'Accademia delle Belle arti. Ha partecipato a una biennale londinese e a quella di Venezia, una personale importante in Olanda e un passaggio a New York. «Sono un artista. È presuntuoso dirlo? Non posso sminuire il lavoro che faccio. Le mie opere parlano». L'ultima, provvisoriamente sistemata su un mobile del soggiorno, è un mezzo busto femminile che ha però due teste: una da donna, l'altra da uomo. Prezzo? Ventimila euro. Inquietante e fascinosa nello stesso tempo, sicuramente non banale. È il punto d'arrivo di un cammino iniziato con la pittura, proseguito con la scultura e attualmente vicino ai lavori del celebre e discusso Maurizio Cattelan.
La performance che ha scosso Sindia era, in realtà, una seconda visione. Tutto già visto e già fatto.«Volevo parlare di diritti civili e il 21 aprile, data di nascita di Roma, ho reclutato trans, gay, lesbiche, etero, insomma un po' di tutto. Li ho vestiti da sposa e siamo andati a piazza del Popolo».

L'hanno presa bene?
«I carabinieri ci hanno identificato ma non ci sono stati incidenti. Gli abiti erano di una stilista, Maria Monserrata, che si è sentita molto stimolata da questa provocazione. Qualcuno, impropriamente, ha parlato sui giornali di sfilata. Si trattava di qualcosa assai diverso. Siamo andati pure nella Metro e perfino in Vaticano».
E anche lì nessuna reazione.
«Giusto qualche sacerdote che si è voltato a guardare, più incuriosito che scandalizzato. Non è accaduto davvero nulla di spiacevole. E quindi mi domando: perché a Sindia è scoppiato invece il terremoto?»
Provi a indovinare.
«È la solita storia: la cultura arcaica, le tradizioni, il provincialismo e quel che vi pare. Così, però, non cambierà mai nulla. Non ho mancato di rispetto a nessuno ma, semplicemente, messo in discussione principi che sembrano sacri e sacri non sono. È successo anche quando mi sono occupato di taroccamenti».
Che genere di taroccamenti?
«Ho preparato una mostra sul made in Italy pensando alla violenza delle contraffazioni che subisce. Ho dipinto la Statua della Libertà e sotto ho scritto made in Sardinia oppure la Lupa di Romolo e Remo made in England ».
Cosa voleva dire?«Mi interessava mettere in evidenza uno stravolgimento del costume, la contaminazione dei prodotti-simbolo di un Paese. La gente ha capito. È che spesso conviene far finta di non comprendere».Esempio?«Grande scandalo per lo sposo vestito da donna, niente da dire invece per il Carnevale di Bosa. Che è colorato, imponente e porno. Esibire in parata falli giganteschi è una trasgressione-provocazione, o no? Allora qualcuno mi deve spiegare perché può valere soltanto a Carnevale».
Il conformismo ha il suo calendario.
«Ecco, io intendo stravolgerlo questo calendario. Voglio parlare di diritti civili e lo farò».
Restando a Sindia?  «Qui sono tornato perché a Roma non riuscivo a mantenermi. C'è una crisi tale che non si riesce a trovare manco un posto da cameriere. A parte questo, ci ho vissuto dieci anni: ora basta. Vorrei andare a Milano o all'estero per continuare la mia ricerca».
Nel frattempo?
«Butto giù qualche idea e aspetto di poter scappare. Sono in attesa di una borsa di studio e poi via».
Paura?«Per me no ma mi secca tenere sulla corda i miei genitori e mia sorella. Non voglio che si sentano in difficoltà per colpe che sicuramente non hanno. Io riesco a star bene anche da solo: faccio lunghe passeggiate in bici, mi distraggono e mi rilassano. Ogni tanto vado a chiacchierare con due fratelli che realizzano bellissimi fumetti. Mi piacerebbe aiutarli, farli conoscere all'esterno».
Ha pensato di parlarne in Comune?
«Il sindaco, a parte scrivere su Facebook che la mia è un'operazione di colonialismo culturale, riuscirebbe al massimo a salutarmi».
Altri?
«L'unica amicizia che avevo è quella col parroco ma è finita male. Quando ha saputo della incursione in Vaticano, m'ha proprio cacciato. Nessuno che provi a chiedersi se Sindia esiste davvero».
Cosa significa?
«Mi domando se siamo vivi sul serio. Di noi sul giornale si parla solo per furti e rapine. Di cultura mai, neppure per sbaglio. Avrebbero dovuto essere contenti dell'eco che ha avuto la mia provocazione: una volta tanto si parlava di questo paese in termini positivi».
Lei non è esattamente un artista low cost, giusto?
«L'arte contemporanea è un investimento e io non faccio acquarelli da strada. Ho venduto a privati, a manager. In questo momento il mercato è fermo, altrimenti non sarei qui».
Oltre l'omofobia, su quali altri bersagli punta?
«Nel 2006, quando si parlava di epidemia di aviaria, ho dipinto dei polli enormi, tre metri per due: bestie giganti che ci stavano sovrastando e avrebbero potuto distruggerci. Ho dipinto anche i 4 mori della Sardegna che si trasformano in galli e, per finire, pacifiche galline sovrastate da un'aureola».
Messaggio recepito?
«Credo di sì. Altrettanto è accaduto quando ho aperto il tema della violenza alle donne segnalando l'uso di cavie umane da parte delle aziende farmaceutiche».
Ce l'ha più o meno con tutti.
«Il mondo che viviamo è sopraffatto dalla brutalità, dall'ingiustizia, dallo sfruttamento. Un artista ha il dovere di ricordarlo continuamente, non può perdersi in esercizi accademici di puro narcisismo. Non a caso io detesto la politica e i politici: tutti, nessuno escluso».
Quando ha iniziato, sapeva dove sarebbe andato a parare?
«Non potevo immaginarlo. Ho cominciato ispirandomi alla simbologia antica, bronzetti, fossili che arrivano a sbordare dal dipinto per finire sulla parete. In Accademia, dove ho fatto anche l'assistente di incisione, ho cambiato tecniche e tematiche. Ho scoperto, per esempio, la pittura liquida».
Ossia?
«Un sistema per manipolare la densità del colore. Con un po' d'acqua riesco a renderlo quasi evanescente e questo dà una corposità diversa all'oggetto che dipingo».
Ma come le è venuta in testa la performance dello scandalo?
«Era Natale e mi ritrovavo assolutamente solo nella casa dove abitavo, a Roma. Sui giornali si parlava di Berlusconi e delle escort, dei festini ad Arcore: insomma, l'harem del Potere».
E allora?
«Ho costruito per la Biennale sei busti femminili, naturalmente senza testa perché la testa non ha alcuna importanza nella donna: due verdi, due bianchi, due rossi. Nelle mani, tenute in alto, tutte stringono un oggetto sadomaso. Al centro, la foto di Silvio Berlusconi insieme a Gheddafi. Quello è stato il punto di partenza».
Poi?
«Siccome un artista non deve mai perdere il contatto con la realtà, a Napoli ho realizzato una performance per distribuire finte mazzette di danaro per strada. Al Museo della Civiltà romana dell'Eur ho invece schierato su un grande tavolo trecento Barbie, qualche Ken e molte borchie: cioè un genere umano molto vicino al nostro. A fianco al tavolo, un trans vero, in carne e ossa, con fascia tricolore e braccio teso nel saluto fascista».
Ce l'aveva col sindaco di Roma?
«Ce l'ho con l'ipocrisia di chi divide il mondo tra quello che predica e quello che in realtà fa».
Cosa cambierebbe nella vita di tutti i giorni?
«Non sopporto la monotonia, è la cosa che mi spaventa di più. Mi fa impazzire non potermi muovere, vivere giorni disperatamente uguali uno all'altro. Sindia, da questo punto di vista, è una prigione. Ho bisogno di rompere con tutto quello che mi circonda e scoprire altri luoghi».
Allargando il tiro, neanche la Sardegna le va bene.
«Ha grandi cose ma non sa valorizzarle. Idee poche, e subito copiate. Uno s'inventa le cortes apertas e tutti gli altri fanno lo stesso, un altro organizza un festival letterario ed ecco che ne spuntano altri dieci in un mese...».
Succede dappertutto.
«Certo ma noi riusciamo a far tutto peggio. Siamo inchiodati da un provincialismo senza scampo, da una Chiesa arretrata e invadente. Con l'aggiunta di una politica che non vale nulla. Io personalmente ho qualche problema ad accettare anche gli elettori. Sa dirmi un buon motivo, uno soltanto, per cui è giusto andare a votare?»
Insomma, non vale la pena vivere?
«La vita è una meraviglia se riusciamo a liberarci. Il motore che ci anima è sempre lo stesso: l'erotismo. Quello dei nostri tempi è purtroppo nascosto, marginale, disperato. È un erotismo intenso ma raramente portatore di felicità».
La prossima?
«Mi piacerebbe intrufolarmi in una festa paesana molto nota, molto affollata, molto popolare. Vorrei provare a modificarne la ritualità, l'anima. Sarà peccato mortale. Beh, pazienza».

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