«E allora le foibe?» è diventato il refrain tipico di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l’avversario.
Mi di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è successo realmente ?
«Decine di migliaia», poi «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione»: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente. Questo libro è rivolto a chi non sa niente della storia delle foibe e dell’esodo o a chi pensa di sapere già tutto, pur non avendo mai avuto l’opportunità di studiare realmente questo tema. Questo “Fact Checking” non propone un’altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una ‘versione ufficiale’ molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto è accaduto in anni terribili.
L'incendio[modifica | modifica wikitesto]
Nella primavera e nell'estate del 1920, a più di un anno dalla fine della guerra, e dopo l'abbandono da parte italiana delle trattative di pace, le relazioni tra Regno d'Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni erano estremamente tese. La Venezia Giulia si trovava sotto amministrazione civile italiana provvisoria, mentre la parte della Dalmazia promessa all'Italia dal patto di Londra si trovava sotto amministrazione militare italiana. La questione di Fiume era ancora aperta e le trattative tra i due Stati procedevano in un clima di veti e minacce reciproche.[6] A Trieste era da poco diventato segretario cittadino del Partito Fascista il toscano Francesco Giunta, che nel giro di pochi mesi avrebbe cambiato le sorti del movimento fascista giuliano, portandolo a conquistare l'egemonia nella vita politica cittadina. A seguito dell'uccisione di due marinai italiani[7][8] a Spalato nel corso di uno scontro fra militari italiani e nazionalisti jugoslavi mai perfettamente chiarito durante il quale era stato ucciso anche un civile croato,[9] Francesco Giunta convocò un comizio nel tardo pomeriggio del 13 luglio 1920 in piazza dell'Unità. Nel memorandum presentato il 1º settembre dalla società politica slovena Edinost al Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti, si legge: «Il giorno 13 luglio 1920 i giornali nazionalisti triestini Il Piccolo, L'Era Nuova e La Nazione riportavano un proclama del Fascio Triestino di Combattimento dove si invitava la popolazione per le ore 18 ad un comizio in Piazza dell'Unità esortandola ad una energica reazione ai fatti di Spalato col motto che "è finito il tempo del buon Italiano"»[10]. La questura prevedeva che nel pomeriggio probabilmente ci sarebbero stati dei disordini, e predispose ingenti misure di protezione delle associazioni politiche, culturali ed economiche slave di Trieste.[11]
Durante il comizio la tensione era molto alta.[7] Giunta pronunciò un discorso dal tono e dai contenuti estremamente violenti e minacciosi:
«L'anima grande del comandante Gulli, barbaramente ucciso, vuole vendetta. Fratelli, che avete fatto voi del provocatore pagato? (Giunta si riferiva a un passante che era appena stato salvato dai carabinieri dopo essere stato aggredito perché sorpreso a leggere un giornale in sloveno, n.d.r.) È stato poco, dovevate uccidere! Bisogna stabilire la legge del taglione. Bisogna ricordare ed odiare (...). Gulli era l'uomo di Millo, il più grande ammiraglio che abbia avuto l'Italia. Gulli va vendicato (...) L'Italia ha portato qui il pane e la libertà. Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affilati e lucidi, che deponemmo pacificamente al finir della guerra, e quei pugnali riprenderemo - per la salvezza dell'Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno (...)» |
(Dal discorso di Francesco Giunta in Piazza dell'Unità il 13 luglio 1920.[12][13]) |
Verso la fine del comizio, scoppiarono dei tafferugli, nel corso dei quali diverse persone caddero a terra riportando ferite da arma da fuoco o da taglio. Tra queste, il fuochista Antonio Raikovich, che se la cavò con 15 giorni d'ospedale,[13] e il cuoco della trattoria Bonavia, il diciassettenne di Novara Giovanni Nini, che morì sul colpo.[13][14] La responsabilità di questa uccisione non fu mai accertata. Nel 1924 il Prefetto Mosconi parlerà de «[…]l'uccisione di un cittadino in un comizio di protesta, ritenuta (sic) opera di uno slavo…»[15] Secondo lo storico Attilio Tamaro, irredentista, volontario di guerra, e successivamente diplomatico durante il ventennio fascista, «mentre si svolgeva l'imponente comizio e Francesco Giunta, segretario del fascio, parlava, uno slavo uccise un fascista, che s'era intromesso per salvare un ufficiale da quello aggredito.»[16] Secondo lo storico antifascista C. Schiffrer, «in realtà il disgraziato giovane (il cuoco pugnalato) si trovava lì per caso e quando fu colpito ..., secondo le cronache giornalistiche, esclamò:"io non c'entro!". La verità è che a Giunta occorreva la "scintilla", occorreva un morto, ed i suoi provvidero».[17] Appena si sparse la notizia della morte del Nini, il Prof. Randi salì sul palco e annunciò che un italiano "ex-combattente" era stato ucciso da uno slavo.[18] Muovendosi secondo un piano precostituito,[19] gruppi di manifestanti lasciarono la piazza e attaccarono diversi obiettivi. Le azioni compresero il danneggiamento di negozi gestiti da sloveni, l'assalto di alcune sedi di organizzazioni slave e socialiste, la sassaiola contro la sede del consolato jugoslavo di via Mazzini e la devastazione degli studi di diversi professionisti, tra cui quello dell'avvocato Josip Vilfan,[20] uno dei leader politici delle comunità slovena e croata di Trieste. Le squadre d'azione fasciste si divisero in tre colonne, di cui una percorse la via Roma, un'altra la via San Spiridione, e la terza la via Dante; riunitesi presso il Narodni dom, seguite da una folla ingente, iniziarono ad assediare l'edificio da ogni lato, sotto la guida di Giunta.[21] L'hotel Balkan in quel momento era protetto da oltre 400 fra soldati, carabinieri e guardie regie inviate a presidio dell'edificio dal vice commissario generale, Francesco Crispo Moncada.[22]
All'appressarsi della folla, dal terzo piano dell'edificio fu lanciata almeno una bomba a mano, cui secondo testimonianze dell'epoca seguì anche una scarica di colpi di fucile contro la folla.[23] Fu ferito dalle schegge della granata il ventitreenne Luigi Casciana,[24] tenente di fanteria che si trovava in licenza a Trieste, che morì la settimana successiva in circostanze poco chiare dopo essere stato trasferito all'ospedale militare.[25] Altre otto persone furono ferite dalle bombe. I militari che circondavano l'edificio risposero al fuoco. La ricostruzione esatta della dinamica dei fatti, tuttavia, è controversa.[26] Secondo un'altra versione, dal palazzo delle Ferrovie qualcuno sparò in aria un razzo, dopodiché l'edificio del Narodni Dom fu bersaglio della sparatoria e i militari presero l'iniziativa di assaltarlo.[21] I fascisti forzarono le porte dell'edificio, vi gettarono all'interno alcune taniche di benzina e appiccarono il fuoco, dopodiché impedirono ai pompieri (subito intervenuti) di spegnere l'incendio.[21][27] Secondo la stampa dell'epoca, il rapido propagarsi dell'incendio con numerosi scoppi sarebbe stato favorito dal fatto che membri della comunità slava avrebbero celato all'interno del Narodni un arsenale di esplosivi ed armi. Tuttavia, riporta Apollonio,[28] dalle successive indagini di polizia non emerse alcun riscontro dell'esistenza di tale arsenale. Altri sottolineano le responsabilità dei militari che avevano il compito di proteggere l'edificio, i quali non fermarono gli aggressori, ma di fatto si unirono a loro.[27] Apollonio riporta le testimonianze di tre cittadini statunitensi, ospiti dell'albergo, secondo cui gli assalitori, una volta entrati nell'edificio, ammassarono delle masserizie e vi versarono sopra del liquido infiammabile. Le fiamme si propagarono rapidamente all'intero edificio.[29]
Tutti gli ospiti del Narodni dom riuscirono a salvarsi, ad esclusione del farmacista di Bled di origini lubianesi Hugo Roblek.[30] In alcune fonti Roblek è erroneamente indicato come custode o addirittura proprietario dei locali; Roblek si gettò da una finestra e morì sul colpo, mentre la moglie[31], che si lanciò con lui, pur ferendosi gravemente, riuscì a salvarsi. L'incendio distrusse completamente l'edificio: per alcuni testimoni l'intervento dei vigili del fuoco fu impedito dagli squadristi; per altri invece l'intervento dei vigili del fuoco ci fu e riuscì ad impedire al fuoco di attaccare gli edifici circostanti. L'incendio fu domato completamente solo il giorno successivo.[32] La sera del 14 luglio venne devastato e incendiato anche il Narodni dom di Pola, nel corso di un'azione simile.[33][34]
Dopo l'incendio[modifica | modifica wikitesto]
Secondo Gaetano Salvemini l'obiettivo immediato che i fascisti e i nazionalisti si proposero di realizzare attraverso l'incendio del Narodni dom sarebbe stato quello di sabotare le trattative italo-jugoslave per la questione di Fiume e dei confini tra i due paesi.[35][36] Se da quel punto di vista si può dire che l'obiettivo fu mancato, le conseguenze del rogo tuttavia furono gravi e di lunghissima durata. L'incendio del Narodni dom rappresentò un momento di svolta nell'affermazione del "fascismo di confine": «Il rogo annuncia, con le fiamme che ben si possono scorgere da diversi punti della città, un drastico cambiamento. Sembra quasi una celebrazione sacra, di morte e di purificazione: nella reinvenzione della storia, che il fascismo opera per gli eventi locali e nazionali, lo scenario maestoso di quel rogo diventa uno dei più importanti miti d'origine della nuova Italia di confine».[37] Non a caso, l'anno successivo, durante il comizio inaugurale della sua campagna elettorale per le elezioni politiche, Giunta si espresse in questi termini:
«Per me il programma (elettorale) comincia con l'incendio del Balkan» |
(Dal discorso di Francesco Giunta al Politeama Rossetti, nell'aprile del 1921.[38]) |
L'invasione della Jugoslavia[modifica | modifica wikitesto]
Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Jugoslavia, la quale, dopo la resa dell'esercito, avvenuta il giorno 17[50], e l'inizio della politica di occupazione, fu smembrata e parte dei suoi territori furono annessi agli stati invasori.
A seguito del trattato di Roma l'Italia annesse parte della Slovenia, parte della Banovina di Croazia nord-occidentale (che venne accorpata alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro (che andarono a costituire il Governatorato di Dalmazia), divenendo militarmente responsabile della zona che comprendeva la fascia costiera, e il relativo entroterra, della ex-Jugoslavia.
In Slovenia fu costituita la Provincia di Lubiana, dove, a fini politici e in contrapposizione con i tedeschi, si progettò, senza successo, di instaurare un'amministrazione rispettosa delle peculiarità locali[51]. Nella Provincia di Fiume e nel Governatorato di Dalmazia fu invece instaurata fin dall'inizio una politica di italianizzazione forzata, che incontrò una decisa resistenza da parte della popolazione a maggioranza croata.
La Croazia fu dichiarata indipendente con il nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.
La resa dell'esercito jugoslavo non fermò i combattimenti e in tutto il paese crebbe un'intensa attività di resistenza che proseguì fino al termine della guerra e che vide da un lato la contrapposizione tra eserciti invasori e collaborazionisti e dall'altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche.
Durante tutta la durata del conflitto vennero perpetrati, da tutte le parti in causa, numerosi crimini di guerra[52]. Nel corso della guerra in particolare si ebbero circa mezzo milione di serbi vittime di violenze da parte degli estremisti croati e 100.000 croati vittime delle violenze serbe[53]
Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerse presto un movimento resistenziale: la conseguente repressione italiana fu dura e in molti casi furono commessi crimini di guerra con devastazioni di villaggi e ritorsioni contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana, aumentarono il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.
«Si procede ad arresti, ad incendi [. . .] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [. . .] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi» |
(Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e del 31 agosto 1942, indirizzate all'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto Rosin[54]) |
A scopo repressivo, numerosi civili sloveni furono deportati nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars[55].
Nei territori annessi, accorpati alla Provincia di Fiume e al Governatorato della Dalmazia, fu avviata una politica di italianizzazione forzata del territorio e della popolazione. In tutto il Quarnero e la Dalmazia, sia italiana che croata, si innescò dalla fine del 1941 una crudele guerriglia, contrastata da una repressione che raggiunse livelli di massacro dopo l'estate del 1942.
«. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori . . .» |
(Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30 maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač, Atlante storico dell'Adriatico orientale (op. cit.)) |
Il 12 luglio 1942, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell'eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate[56].
Nello Stato Indipendente di Croazia, il regime ustascia scatenò una feroce pulizia etnica nei confronti dei serbi, nonché di zingari ed ebrei, simboleggiata dall'istituzione del campo di concentramento di Jasenovac, e contro il regime e gli occupanti presero le armi i partigiani di Tito, plurietnici e comunisti, e i cetnici, nazionalisti monarchici a prevalenza serba[57], i quali perpetrarono a loro volta crimini contro la popolazione civile croata che appoggiava il regime ustascia e si combatterono reciprocamente. A causa dell'annessione della Dalmazia costiera al Regno d'Italia, cominciarono inoltre a crescere le tensioni tra il regime ustascia e le forze d'occupazione italiane; venne perciò a formarsi, a partire dal 1942, un'alleanza tattica tra le forze italiane e i vari gruppi cetnici: gli italiani incorporarono i cetnici nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC) per combattere la resistenza titoista.
Dopo la guerra la Jugoslavia chiese di giudicare i presunti responsabili di questi massacri (come il generale Mario Roatta), ma l'Italia negò la loro estradizione grazie ad alcune amnistie[58].
Gli eccidi contro la popolazione italiana[modifica | modifica wikitesto]
1943: armistizio e prime esecuzioni[modifica | modifica wikitesto]
L'8 settembre 1943, con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verificò il collasso del Regio Esercito.
Fin dal 9 settembre le truppe tedesche assunsero il controllo di Trieste e
successivamente di Pola e di Fiume, lasciando momentaneamente sguarnito il resto della Venezia Giulia. I partigiani occuparono quindi buona parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria[59]. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria.
Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare[60]. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello Stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata.
La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita[61]. Secondo le stime più attendibili, le vittime del 1943 nella Venezia Giulia si aggirano sulle 600-700 persone[62].
Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste vi sono quelle di Norma Cossetto (cui è stata riconosciuta la medaglia d'oro al valor civile[63]), di don Angelo Tarticchio e delle tre sorelle Radecchi.
I ritrovamenti dell'autunno 1943[modifica | modifica wikitesto]
Le prime ispezioni delle foibe istriane, che furono disposte immediatamente dopo il ripiegamento dei partigiani conseguente alla successiva invasione nazista, consentirono il rinvenimento di centinaia di corpi.
Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria, in particolare nella Foiba di Vines.
La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall'altro la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.
L'armistizio in Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]
Il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato e in altri centri dalmati entravano i partigiani jugoslavi. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie e alcuni civili.
La Dalmazia fu occupata militarmente dalla 7. SS-Gebirgsdivision "Prinz Eugen" tedesca. Gli italiani, con la 15ª Divisione fanteria "Bergamo" di stanza a Spalato e precedentemente impegnata per anni proprio nella lotta antipartigiana, in quel frangente appoggiarono in massima parte i partigiani e combatterono in condizioni psicologiche e materiali molto difficili contro le truppe germaniche, fra le quali la sopra citata Divisione "Prinz Eugen", nonostante l'atteggiamento aggressivo e poco collaborativo dei partigiani titini. Dopo la capitolazione ordinata dal comandante, generale Emilio Becuzzi, molti ufficiali italiani furono passati per le armi da parte di elementi delle truppe germaniche, in quello che è noto come il massacro di Treglia. La Dalmazia fu annessa allo Stato Indipendente di Croazia. Tuttavia Zara, restò - seppur sotto il controllo tedesco - sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava dell'ottobre 1944.
L'occupazione tedesca della Venezia Giulia e l'Ozak[modifica | modifica wikitesto]
A seguito dell'armistizio di Cassibile i tedeschi lanciarono l'Operazione Nubifragio, con l'obiettivo di assumere il controllo della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e dell'Istria.
L'offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943 e portò all'annientamento della resistenza opposta da parte di nuclei partigiani, che furono decimati, catturati, costretti alla fuga o dispersi. I partigiani cercarono di ostacolare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati: questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi.
Uno dei momenti più significativi sul territorio italiano fu la battaglia di Gorizia combattuta fra i giorni 11 e 26 settembre 1943 tra l'esercito tedesco e la Brigata Proletaria, un raggruppamento partigiano forte di circa 1500 uomini, costituito in massima parte da operai dei Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone e rafforzato da un consistente gruppo di partigiani sloveni.
L'Operazione Nubifragio si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno.
Le truppe germaniche costituirono nell'area occupata la Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland). Questa, pur essendo ufficialmente parte della Repubblica Sociale Italiana era sottoposta all'amministrazione militare tedesca e di fatto, annessa al Terzo Reich.
Dal settembre 1943 all'aprile 1945 si susseguirono le repressioni nazifasciste che portarono la provincia di Gorizia a essere la prima in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti[64].
Autunno 1944: ritiro dei tedeschi dalla Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]
Ulteriori eccidi si ebbero nel corso dell'occupazione delle città dalmate in cui risiedevano comunità italiane.
Terribile fu la sorte di Zara, ridotta in rovine dai bombardamenti aerei anglo-americani, che causarono la morte di alcune migliaia di civili (da 2 000 a 4 000) e contribuirono alla fuga di quasi il 75% dei suoi abitanti. Alla fine dell'ottobre 1944 anche l'esercito tedesco e la maggior parte dell'amministrazione civile italiana abbandonarono la città.
Zara fu occupata dagli Jugoslavi il 1º novembre 1944: si stima che il totale delle persone soppresse dai partigiani in pochi mesi sia di circa 180[65]. Fra gli altri furono uccisi i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo (industriali, produttori del celebre liquore maraschino): secondo alcune testimonianze Nicolò fu annegato in mare[66]. Quella dell'annegamento in mare legati a macigni è una pratica di cui sono state date varie testimonianze[67], tanto da divenire nell'immaginario popolare la "tipica" modalità di esecuzione delle vittime zaratine, similmente alle foibe in Venezia Giulia.
Primavera 1945: l'occupazione della Venezia Giulia[modifica | modifica wikitesto]
Nella primavera del 1945 gli jugoslavi crearono una nuova Armata – la IV, al comando del giovane generale Petar Drapšin – con il compito di puntare verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'ordine era di occupare la Venezia Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni in quella che venne in seguito chiamata corsa per Trieste. Tale obiettivo divenne primario per l'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia: il 20 aprile 1945 la IV Armata jugoslava entrò nella Venezia Giulia e, assieme alle unità del IX Korpus sloveno, ivi già operanti dal dicembre 1943, tra il 30 aprile e il 1º maggio dilagò nel Carso e nell'Istria, occupando Trieste e Gorizia (1º maggio), Fiume (3 maggio) e Pola (5 maggio)[68], all'incirca una settimana prima della stessa liberazione di Lubiana e Zagabria. Ciò corrispondeva alla volontà di Tito di creare il "fatto compiuto" sul terreno, determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia, invadendo l'Italia nord-orientale fino al fiume Tagliamento, mentre la sovranità sulle capitali di Slovenia e Croazia non era in discussione. Allo stesso modo, gli jugoslavi entrarono in forze nella Carinzia austriaca, già oggetto di rivendicazioni al termine della Prima guerra mondiale.
Il nuovo regime si mosse nella Venezia Giulia in due direzioni. Le autorità militari avevano il mandato di ristabilire la legittimità della nuova situazione creatasi con operazioni militari di occupazione. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava, invece, operava nella più totale autonomia.
Dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume il potere venne assunto dalle forze partigiane jugoslave; tale periodo fu funestato da arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive. A Gorizia, Trieste e Pola le violenze cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, e il 20 giugno a Pola; a Fiume, invece, gli alleati non giunsero mai e le persecuzioni continuarono.
Eccidi a Trieste e in Istria[modifica | modifica wikitesto]
I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista di Jugoslavia di Tito.
Di nuovo si verificarono uccisioni efferate, come quella dei democristiani Carlo Dell'Antonio e Romano Meneghello e di don Francesco Bonifacio, torturato e quindi assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato); ritenuto martire in odium fidei dalla Chiesa, è stato beatificato nel 2008.
Tra gli altri politici di riferimento del CLN, si segnalano i casi di Augusto Bergera e Luigi Podestà - che restano due anni in campo di concentramento jugoslavo - e quelli del socialista Carlo Schiffrer e dell'azionista Michele Miani, che riescono ad aver salva la vita[69].
Gli scritti dell'allora sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, nonché alcuni documenti inglesi riportano che "molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali" riferendosi alla sola città di Trieste e alle zone limitrofe, non includendo dunque il resto della Venezia Giulia, dell'Istria (dove si è registrata la maggioranza dei casi), del Quarnaro e della Dalmazia. In possesso di queste informazioni il Governo De Gasperi, nel maggio 1945, chiese ragione a Tito di 2.500 morti e 7.500 scomparsi nella Venezia Giulia. Tito confermò l'esistenza delle foibe come occultamento di cadaveri e i governi jugoslavi successivi mai smentirono tali affermazioni.
Un controverso studio svolto dalla giornalista Claudia Cernigoi[70] stima nel numero di 517 le vittime triestine, delle quali 412 sarebbero appartenute a formazioni militari, paramilitari o di polizia, poste al servizio delle autorità germaniche dell'OZAK (tra cui la Milizia Difesa Territoriale, l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, formazioni della X^ MAS, Brigate Nere, formazioni squadriste), e sostiene che una consistente parte di esse (almeno 79) non sarebbero state infoibate[71] ma sarebbero decedute a Borovnica o in altri campi di prigionia militari jugoslavi.
Eccidi a Gorizia e provincia[modifica | modifica wikitesto]
Con l'arrivo dell'Armata Popolare Jugoslava, anche a Gorizia iniziarono le repressioni che toccarono l'apice fra il 2 e il 20 maggio. Migliaia furono gli arresti e gli scomparsi non solo tra gli italiani, ma anche tra gli sloveni che si opponevano al regime comunista di Tito.
Fra le vittime si ricordano alcuni esponenti politici locali di riferimento del CLN: Licurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione, riguardo al quale non si sa ancora la data dell'uccisione e se il suo cadavere sia stato infoibato[72].
Le autorità slovene, a marzo del 2006, hanno consegnato al sindaco di Gorizia un elenco di 1.048 deportati dalla provincia di Gorizia, dei quali circa 900 non hanno fatto più ritorno; di questi, circa 470 appartenevano a forze di ordine pubblico e formazioni militari italiane postesi al servizio degli occupatori tedeschi, circa 250 erano civili giuliani, 70 erano civili originari di altre province italiane e circa 110 erano sloveni collaborazionisti o presunti tali. Secondo il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, questa lista sarebbe ancora grandemente incompleta[73].
Eccidi a Fiume[modifica | modifica wikitesto]
Fiume fu occupata[74] il 3 maggio dagli jugoslavi, che avviarono in breve tempo un'intensa campagna di epurazione. Gli agenti dell'OZNA deportarono 65 guardie di pubblica sicurezza e agenti della questura, 34 guardie di finanza e una decina di carabinieri; alcuni esponenti compromessi con il regime fascista furono invece uccisi sul posto[75].
Tra gli esponenti più in vista del PNF furono uccisi i senatori fiumani Icilio Bacci e Riccardo Gigante (podestà di Fiume dal 1930 al 1934), che non si erano macchiati di alcun crimine. Nell'ambito della caccia agli esponenti politici italiani vennero uccisi, fra gli altri, gli ex podestà Carlo Colussi (in carica dal 1934 al 1938, venne eliminato con la moglie Nerina Copetti) e Gino Sirola (podestà dal 1943 al 1945). In anni recenti, vicino alla località di Castua, è stata individuata la fossa dove riposano i resti di Gigante, ma il loro recupero risulta complesso.
Particolarmente violenta fu anche la caccia ai superstiti del Partito Autonomista Fiumano, concepito come un potenziale ostacolo all'annessione della città alla Jugoslavia. Il quotidiano comunista La Voce del Popolo scatenò una campagna di denuncia contro gli autonomisti, che vennero equiparati ai fascisti. I partigiani, nelle prime ore di occupazione della città, uccisero i vecchi capi del partito, fra i quali Mario Blasich, Giuseppe Sincich, Nevio Skull, Giovanni Baucer, Mario De Hajnal e Giovanni Rubinich, che fu fondatore del Movimento Autonomista Liburnico.
La persecuzione colpì anche gli esponenti dei CLN, secondo una linea ampiamente usata anche a Trieste e Gorizia. Numerosi furono nelle tre città gli arresti e le deportazioni di antifascisti, dei quali solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione. Ancora nel 1946, assai dopo le esplosioni di "jacquerie", risulteranno comminate condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN[76].
Il numero di italiani sicuramente uccisi dall'entrata nella città di Fiume delle truppe jugoslave (3 maggio 1945) fino al 31 dicembre 1947 è di 652, a cui va aggiunto un ulteriore numero di vittime non esattamente identificabile per mancanza di riscontri certi[77].
L'esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia[modifica | modifica wikitesto]
Al massacro delle foibe seguì l'esodo giuliano dalmata, ovvero l'emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine. Nell'esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia con il trattato di Parigi e anche la Dalmazia, dove vivevano i dalmati italiani.
Con la firma del trattato l'esodo s'intensificò ulteriormente. Da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani (Capodistria, Parenzo, Orsera, ecc.) partì oltre il 90% della popolazione etnicamente italiana, da altri (Buie, Umago e Rovigno) si desumono percentuali inferiori ma sempre molto elevate. Si stima che l'esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250 000 e i 350 000 italiani. I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dal Giorno del ricordo, solennità civile nazionale italiana celebrata il 10 febbraio di ogni anno.
L'ultima fase migratoria ebbe luogo dopo il 1954 allorché il Memorandum di Londra assegnò definitivamente la zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia, e la zona B alla Jugoslavia. L'esodo si concluse solamente intorno al 1960. Dal censimento jugoslavo del 1971 in Istria e nel Quarnaro erano rimasti 17.516 italiani su un totale di 432.136 abitanti.
La questione triestina[modifica | modifica wikitesto]
Nella parte finale della seconda guerra mondiale e durante il successivo dopoguerra ci fu la contesa sui territori della Venezia Giulia tra Italia e Jugoslavia, che è chiamata "questione giuliana" o "questione triestina". Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre del 1918, al termine della prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920: al termine della seconda, con l'Italia sconfitta, ci furono infatti le occupazioni militari tedesca e poi jugoslava.
L'occupazione jugoslava fu ottenuta grazie alla cosiddetta "corsa per Trieste", ovvero all'avanzata verso la città giuliana compiuta in maniera concorrenziale nella primavera del 1945 da parte della quarta armata jugoslava e dell'ottava armata britannica.
Il 10 febbraio del 1947 fu firmato il trattato di pace dell'Italia, che istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte nordoccidentale dell'Istria, provvisoriamente diviso da un confine passante a sud della cittadina di Muggia ed amministrato dal Governo Militare Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi costituzionali del nuovo stato.
Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini e le proteste italiane: in occasione della firma del trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. All'entrata in vigore del trattato (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe jugoslave della zona B avrebbero occupato Trieste.[78] Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.
La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile del governo italiano, mentre l'amministrazione del governo militare jugoslavo sulla Zona "B" passò al governo della Repubblica socialista. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà / Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il trattato fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente importante la stabilità internazionale della Jugoslavia.
- Vademecum per il Giorno del Ricordo” dell’Irsml (Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea nel Friuli Venezia Giulia) del 2019 e 2020
- Trieste 1941-1954 la lotta politica, etnica e ideologica” di Bogdan C.Novak (Mursia 1973)
- Foibe: una storia d’Italia” di Joze Pirjevec, Gorazd Bajc (Einaudi 2009)
- L’armadio della vergogna” di Franco Giustolisi (Nutrimenti 2004 e 2019)
- Il confine scomparso. Saggi sulla storia dell’Adriatico Orientale nel Novecento di Raoul Pupo (Ed.IRSML Venezia Giulia. Collana Quaderni di Qualestoria 2007);
- Foibe e fobie” di Giacomo Scotti (saggio sulla rivista “Il ponte della Lombardia” n.2 del febbraio/marzo 1997)
- https://it.wikipedia.org/wiki/Narodni_dom
- https://it.wikipedia.org/wiki/Massacri_delle_foibe
- https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/incendio-hotel-balkan-secolo-distanza-non-ce-pace-trieste-89556/
- https://www.secoloditalia.it/2020/07/foibe-vergogna-rai-gli-strafalcioni-sulla-visita-di-mattarella-e-tutte-le-verita-che-hanno-nascosto/
Nessun commento:
Posta un commento