DA REPUBBLICA del 20 FEBBRAIO 2021
E chi fa brillare i piatti?
Il lavoro del lavapiatti è considerato umile. Ma nel mondo della ristorazione il cliente è al centro e il dietro le quinte è tutto. «Se non ci fossero, crollerebbe il ristorante». E se lo dice lo chef stellato Pietro Leeman...
Ogni mattina mia figlia mi guarda le mani, e se ci sono tagli o bruciature mi sgrida», ride Nicoleta Cristea. Così le chiedo di mostrarle a me, e nemmeno sembrano le mani di una lavapiatti tanto sono curate, le unghie perfette, lo smalto lucido, la pelle delle dita, decorate da anelli d’argento, morbida. A ben guardare, però, ecco un minuscolo taglio alla base dell’indice della destra. Glielo indico, Cristea sorride come a dire: “Eh, può capitare”. Ha appena compiuto 37 anni, e dunque è ormai più italiana che rumena, essendo arrivata a Torino da Galati quanto ne aveva 18. Dal 2018 si occupa del lavaggio all’Osteria le Putrelle nel capoluogo piemontese, una trattoria di quartiere molto amata, tutta vitelli tonnati e agnolotti. Mi porta nella minuscola cucina e mi mostra il suo posto di lavoro: è un lavandino con una sfilza di rastrelliere e una lavastoviglie proprio dietro la porta dello stanzino. Sei giorni su sette, dalle 11 alle 15 e poi di nuovo dalle 18.30 alle 23.30, è la destinataria di tutte le stoviglie, tutte le pentole roventi, tutte le posate, tutti i coltelli sporcati dai clienti e dal cuoco Martino. «Prima ho fatto la baby sitter e la
badante, ma questo lavoro è mille volte meglio: è semplice, ha orari regolari, i miei colleghi sono la mia seconda famiglia. Quando facevo la badante avevo più responsabilità, e molti più imprevisti». È soddisfatta, Cristea, da tutti punti di vista: guadagna mille euro al mese cui si sommano 300 di assegni familiari; con i 1.300 totali riesce a mantenere sé e i due figli, un maschio di 19 anni e una bimba di cinque, e a coprire le spese dell’appartamento nel quartiere Mirafiori e dell’auto con cui viene a lavorare. «È un lavoro che consiglierei a chiunque, anche a mio figlio. Bisogna essere ordinati, veloci e precisi. Perché dovrebbe essere considerato un lavoro umile?».
Nicoleta tocca un grande tema: i “lavori umili.”. Quelli che “gli italiani non vogliono più fare”.
Il suo entra perfettamente nel cliché: il gesto del pulire è associato da sempre alle attività più popolari, e il lavapiatti è una figura invisibile, così come, del resto, lo erano i cuochi fino a vent’anni fa (e ancora, in parte, i camerieri). «Infatti non mi piace dire “lavapiatti”, preferisco “interno cucina”. Ed è stata una grande fortuna quando abbiamo conosciuto Chiara». A parlare ora è Alessandro Gozzi, siamo a Firenze, nella storica Trattoria Sergio Gozzi in cui la sua famiglia da più d’un secolo serve ribollite e lampredotto. Chiara Innocenti mi siede davanti a un tavolaccio dell’osteria, con le sedie sollevate per lavare il pavimento. È finito da poco il servizio, e Chiara ha l’aria stanca. Le leggo negli occhi che non ha voglia di parlare con me, è una che si fa i fatti propri, e poi ha il figliolo che l’aspetta. È più a suo agio di là, davanti all’enorme lavandino d’acciaio in cucina, tra mestoli, vassoi e scolapasta. «Lì sto bene: nella vita ne ho viste e vissute tante, questo è ciò che fa per me. La trattoria è la mia famiglia».
L’idea di “seconda famiglia” torna, nei racconti dei lavapiatti come di tutta la gente di cucina, e non potrebbe essere diversamente: si lavora stretti, il rapporto è fisico. Innocenti compirà cinquant’anni tra pochi giorni – «sono dell’Acquario», e sembra un segno del destino – ha due figli di 15 e vent’anni, è soddisfatta di stipendio e orari che qui sono da vera trattoria, cioè limitati al solo pranzo: «Arrivo alle 8.30, libero il lavabo, do una mano a Marco (lo chef) in cucina, “gliela tengo snella”, durante il servizio lavo tutto insieme alla “mia bambina”, così chiamo la lavastoviglie, tranne i coltelli, quelli si fanno a mano, e alle 16 ho finito. Quando lavoravo al Baglioni come “addetto breakfast” - e sia chiaro: mi piaceva - mi alzavo alle quattro e mezza».
Il Baglioni, uno dei più famosi alberghi di Firenze. Ecco, nei grand hotel ancora si segue la suddivisione militaresca dei ruoli codificati da Auguste Escoffier, quando sfamava i soldati al quartier generale dell’Armata del Reno durante la guerra franco-prussiana. In quello schema fatto di maître de salle, maître de rang, chef de rang, demi-chef de rang, commis de rang, commis debarasseur, il lavapiatti si chiama plonge, letteralmente “tuffo”, e il suo è un comparto essenziale. Per capire come funzioni in una grande struttura rimango a Firenze e mi dirigo verso uno dei suoi hotel più lussuosi, il Four Seasons. Lo chef che conduce il ristorante Il Palagio e tutta la complessissima offerta food and beverage dell’albergo è Vito Mollica. Qui può capitare che diverse parti della struttura siano contemporaneamente occupate dalle centinaia di ospiti della pasqua ebraica, da un meeting di un fondo finanziario e dal matrimonio di una rockstar. A dipendere da Vito, nella sola parte gastronomica, sono 160 persone. Ma i lavapiatti, come capita spesso in questi colossi, sono esternalizzati, cioè non sono dipendenti dell’azienda, bensì di un fornitore; in questo caso la cooperativa Mapri, che con circa mille uomini presta servizio a tanti hotel cittadini.
«Sono quasi tutti ragazzi stranieri: marocchini, rumeni, albanesi, pachistani. Giovani, che abitano fuori - a Pisa, a Montespertoli - con un forte turnover: la paga non è alta, spesso se trovano di meglio cambiano lavoro», dice Jacopo Vettori, stewarding coordinator, cioè la persona interna all’albergo che, tra l’altro, si occupa dei rapporti con i ragazzi della cooperativa. Del resto qui parliamo di numeri molto variabili, che possono diventare importanti: «In alta stagione, con la banchettistica aperta, arriviamo anche a 35 addetti». «Incontriamo persone incredibili», aggiunge Mollica, «immigrati che magari nel proprio Paese erano medici, ingegneri. Qui sono costrette a ricominciare, ma lo fanno con orgoglio e determinazione».
E come immigrato è arrivato in Italia Salah Khaled, da 31 anni lavapiatti, colonna portante, uomo di fiducia, confidente, amico fraterno di Pietro Leemann, il cuoco stellato del Joia di Milano. «Salah svolge il suo lavoro in modo esemplare, con la massima cura», racconta lo chef di alta cucina vegetariana. «Troppo spesso si pensa al lavapiatti in modo denigratorio. Invece se quel comparto non funziona crolla tutto il ristorante. E mi piace che i ragazzi che lavorano con me considerino il lavapiatti fondamentale: così capiscono che tutti i ruoli meritano rispetto». Un rispetto che negli anni è diventato amicizia: «In tutto il ristorante, Salah e io siamo gli unici due che si danno del tu». Con il suo lavoro Khaled ha potuto far studiare i figli: il primo è all’università, la seconda sta per andarci. Chiediamo a Leemann se Khaled abbia mai voluto “fare carriera”: «No, gli piace il suo lavoro. E poi, a dirla tutta, preferisce la cucina di sua madre alla mia», ride lo chef.
Ecco, la carriera: in cucina c’è mobilità verticale? Funziona l’ascensore sociale? In soldoni: si può partire da lavapiatti e finire chef o patron? Per rispondere basta un nome, Pino Cuttaia. Uno dei più grandi cuochi italiani - due stelle Michelin a Licata, in Sicilia - ha cominciato proprio così, tra lavandino e detersivo.
Lavapiatti celebri
Forse il più noto è Anthony Bourdain, come scrive nel suo Kitchen Confidential. Anche lo stellato Eric Räty ha cominciato alla plonge. E Kurt Cobain, prima dei Nirvana, lavava i piatti al ristorante Lamplighter.
DA LAVAPIATTI A CHEF? Nel passato, quando la cucina era diversa e la formazione professionale non aveva ancora raggiunto livelli d’eccellenza, entrare in una cucina come lavapiatti era il primo passo verso altri mestieri. Oggi le cose sono decisamente diverse, anche se non mancano storie di chi ce l’ha fatta partendo dalle retrovie imparando il mestiere giorno per giorno. «Nell’organizzazione di una cucina moderna c’è una differenziazione tra i settori. Se chi si propone in cucina o in sala ambisce a crescere, i lavapiatti solitamente sono donne e uomini del posto che cercano un impiego fisso», dice Marco Sacco che li sceglie tra chi si propone attraverso i curriculum.
« Sono in pochi tra i lavapiatti quelli che vorrebbero entrare in cucina », è d’accordo Cesare Battisti. Tra coloro che, eccezioni che confermano la regola, ha cambiato posizione c’è Jacky, capo pizzaiolo di uno dei locali di Gilmozzi.«Jacky arriva dal Bengala, ha cominciato da me come lavapiatti in pizzeria e non si è più fermato. A spingerlo è stata la passione, oggi è il capo pizzaiolo e il mio assistente per i lieviti», conclude Gilmozzi confermando che storie come quella di Sonko, lavapiatti gambiano del Noma diventato socio di René Redzepi, non sono irripetibili.
Mariella Caruso
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