storie dal mondo del calcio . la storia di Jorge Omar Carrascosa il capitano dell'Argentina che lasciò la nazionale per il bene del suo Paese e quella di Giovanni Branchini, a quasi 65 anni, è uno dei più vecchi procuratori di calcio italiani

Nonostante gli scandali e la fusione tra il calcio ( e lo sport in generale ) tra il mondo dello spettacolo\ gossip cioè lo Show business (spesso abbreviato in showbiz o show biz). mi piacciono e d appassionano le sue storie . Come quelle che sta facendo repubblica con la  rubrica storie  di maglie      o  fa egregiamente  il sito  https://storiedicalcio.altervista.org/ ( in questo caso ) . Una storia quella di Jorge Omar Carrascosa che è stato a lungo il capitano dell'Argentina di Menotti. A pochi mesi dal Mondiale del 1978 ha lasciato la nazionale e la fascia, quando il calcio era ancora poco inquinato e troppo lontano dall'immagine e dal denaro .
Una decisione inaspettata che l'ha trasformato in un eroe. Oggi Jorge Carrascosa non disputerebbe neppure un incontro: troppi soldi e compromessi, in giro. «Ogni epoca ha le sue sfide. Forse questa è più difficile, è tutto sempre più complesso e ingiusto: ma l’uomo deve continuare a cercare, a farsi delle domande. Chi lavora, ha l’obbligo morale di contribuire al miglioramento del suo lavoro e del mondo: coi fatti. Basta poco, ma ci vuole coerenza». intervista del protagonista a https://storiedicalcio.altervista.org/blog/jorge-carrascosa-lupo-disse-no-ai-colonnelli.html




  da STORIE  DI MAGLIA  DI REPUBBLICA  

 
di Pier Luigi Pisa
a cura di Leonardo Meuti
riprese di Luciano Coscarella
La maglia originale esposta appartiene al Museo del Calcio Internazionale


 
 

 Storie di maglie è il format Gedi Visual dedicato al racconto di leggendarie divise da calcio originali: dalla numero 14 arancione di Johan Cruyff, usata ai Mondiali del 1974, alla numero 10 bianconera che Michel Platini ha usato nel 1985 in occasione della Toyota Cup (così si chiamava all’epoca il Mondiale per club, ndr). Dalla rarissima maglia verde che l’Italia ha indossato nel 1954, contro l’Argentina, a quella del 1935 con cui Silvio Piola ha debuttato in nazionale maggiore. Un tuffo nel passato più iconico e glorioso del calcio, insomma, reso possibile dalla collaborazione con il Museo del Calcio Internazionale, esposizione permanente che vanta cimeli di ogni epoca provenienti da tutto il mondo, e con il Museo del Calcio di Coverciano, promosso dalla Figc, dedicato ai campioni della nazionale italiana.




Giovanni Branchini: “Cavalli e pugni inseguendo Clint Eastwood"
Intervista con il procuratore sportivo. Ha portato Ronaldo all’Inter ed è l’agente di Allegri ma dice: "I miei sogni più belli li ho vissuti nella boxe e nel cinema. Mio padre si faceva spedire giornali da tutto il mondo, siamo stati i precursori di Internet. Il calcio? Purtroppo è malato"




Giovanni Branchini, a quasi 65 anni, è uno dei più vecchi procuratori di calcio italiani. È l'uomo che portò Ronaldo il Fenomeno all'Inter e l'ombra di Massimiliano Allegri che non è riuscito a portare al Real Madrid perché Max ha scelto Torino e la Juventus. È grande e grosso. Avrebbe voluto fare il pugile oppure l'attore. Nello
sport comunque c'è il suo destino."I cavalli arrivarono per primi. Mio nonno Nello all'inizio del '900 trasformò nel trotto le corse dei calessini delle campagne emiliane e toscane, che erano vere e proprie sfide tra i possidenti agricoli. Qualcuno si è giocato intere cascine. Ebbe tre figli, dei due maschi di casa mio zio Fausto continuò nel solco tracciato dal padre mentre mio papà, Umberto, sposò il pugilato".



E i figli con lui?
"Eravamo tre fratelli nati a dieci anni di distanza l'uno dall'altro, il primogenito Marco, che purtroppo ci ha lasciati nel 2004, ha intrapreso la carriera di driver, io e mio fratello minore, Adriano, abbiamo seguito papà nella boxe. A 18 anni ho avuto la tessera di procuratore sportivo dalla Federazione pugilistica italiana".


Quali sono i suoi primi ricordi?
"Da bambino passavo molto tempo nello studio di mio padre che fu un vero precursore del concetto di network e in un certo senso di Internet. Infatti, già negli anni '60 riceveva in abbonamento tutte le riviste specializzate e i quotidiani sportivi più importanti a livello mondiale. Lo faceva per trascrivere su appositi cartoncini i record di tutti i pugili in attività, ricavava i risultati dalla stampa. Parlava e scriveva in inglese, francese e spagnolo, possedeva le basi di giapponese e traduceva nomi, esiti degli incontri, peso degli atleti. Una di queste riviste era double face. Aveva due copertine e testi differenti a seconda del verso da cui cominciavi a leggere, ma soprattutto da una parte c'erano foto di pugili bianchi e dall'altra erano, invece, tutti di colore. Veniva dal Sudafrica".




Fu un modo salgariano di scoprire il mondo senza muoversi di casa.
"Papà aveva corrispondenti ovunque, trascorreva la sua vita alla macchina da scrivere e non passava giorno in cui non spedisse dalle 8 alle 15 lettere, più qualche telegramma. Non vi era altro modo di comunicare sino alla creazione da parte dell'azienda telefonica dell'epoca di un sistema chiamato Gran Parlatore che dai primi anni '70 consentiva di chiamare in teleselezione a costi esorbitanti".

Vi alzavate nel cuore della notte per seguire gli incontri americani?
"Il ricordo più nitido mi porta al primo Benvenuti-Griffith, al Madison Square Garden. Era l'aprile del '67. Fino all'ultimo non venne comunicato se sarebbe stato trasmesso dalla Rai in diretta. Rimanemmo svegli tentando inutilmente di sintonizzare il televisore tra Rai e Televisione della Svizzera Italiana. Ci siamo dovuti accontentare della storica radiocronaca di Paolo Valenti".




A quando risale la sua prima volta a bordo ring?
"Al 23 aprile del 1965, avevo otto anni. Eravamo al Palazzo dello Sport di Roma gremito sino all'esaurimento dei posti, mio papà con l'aiuto e l'organizzazione di Rino Tommasi era riuscito a condurre alla disputa del titolo mondiale uno dei suoi campioni prediletti, Salvatore Burruni. Nella concitazione generale non trovarono dove farmi sedere, alla fine mi sistemarono proprio all'angolo di Burruni, appena al di là delle corde. Ero rivolto verso il pubblico e ricordo di aver letto, per la tensione, l'andamento del match negli sguardi e nelle espressioni dei tifosi vip che stavano in prima fila".

Mai infilato i guantoni?
"Sì, mi sono allenato per molti anni in palestra con i nostri ragazzi e anche con degli amici ma non ho mai combattuto. Mi sarebbe piaciuto farlo. In compenso ci ha pensato mio figlio Giacomo a combattere da dilettante. Ancora oggi mi sveglio nel cuore della notte per assistere agli incontri più importanti. Grandissimi sono stati Carlos Monzon, Salvador Sanchez, Alexis Arguello, Roberto Duran, Sugar Ray Leonard, Mike Tyson. Ma ne dimentico troppi. Oggi Saul Canelo Alvarez è un campionissimo. Assieme a papà ho gestito nove campioni del mondo, ma sono legato soprattutto a un gruppetto di ragazzi: Rocky Mattioli, Loris e Maurizio Stecca, Francesco Damiani, Luigi Minchillo e Salvatore Melluzzo".

Che cos'è il pugilato?
"La boxe è verità. Non ci sono trucchi o chiacchiere, nella boxe devi essere te stesso, non puoi bluffare. La pazienza e il coraggio devono coniugarsi perché campioni non si nasce, si diventa imparando innanzitutto a camminare sul ring e poi piano piano a colpire e a non essere colpito. Il coraggio serve per ragionare non per picchiare".

Che cosa deve ai suoi genitori?
"Nella mia famiglia mamma è stata spesso anche padre. Nel '46, quando mio fratello Marco aveva appena un anno, papà partì per una tournèe negli Usa con tre atleti italiani, non lo vedemmo per diciotto mesi. Negli anni '70 gestiva un campione del mondo thailandese, Chartchai Chionoi, e quindi passava lunghi periodi in Asia. Insomma una famiglia normale, papà al lavoro e mamma casalinga, in cui ho presto imparato come il concetto di normalità sia flessibile".

Il cinema era l'avventura, il sogno?
"Credo che quelli della mia generazione siano cresciuti nei cinema molto più che davanti a uno schermo domestico. Se dovessi giocare con la risposta direi che mi sarebbe piaciuto essere il grande Peter Lorre di M - Il Mostro di Düsseldorf oppure un meraviglioso Clint Eastwood in tutte le sue interpretazioni".

Ci sono film che ha visto più di una volta?
"Moltissimi. C'era una volta in America di Sergio Leone e Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ma tra i miei favoriti ci sono due capolavori del 1957 di Ingmar Bergman: Il Settimo Sigillo e Il posto delle fragole. Alcune opere mi hanno divertito moltissimo condizionando, credo, anche la mia ironia personale e sono Harold & Maude di Hal Hashby, Il Dittatore dello Stato Libero di Bananas di Woody Allen, Frankenstein junior di Mel Brooks e il primo Amici miei di Mario Monicelli. Se devo però dare un punto di partenza al mio amore per il cinema devo indicare alcune opere di John Cassavetes: Una moglie, La sera della prima e Gloria".

Le piace ancora il calcio?
"Amo il sacrificio dell'allenamento, l'alchimia dello spogliatoio e il valore mistico della sconfitta. Amavo soprattutto accompagnare l'opportunità che lo sport offre ad ognuno di poter crescere sul piano umano. Oggi questo concetto di sport propedeutico alla vita si è molto perduto, il guadagno è divenuto l'unico motore, la priorità invece della conseguenza".

Ma voi procuratori siete i profeti del dio denaro.
"Non siamo tutti bestie. Il potere dei procuratori è direttamente proporzionale allo spazio e alle connivenze che presidenti e club concedono. Non sono ancora riuscito a convincere i reggenti del calcio a sedersi insieme a un tavolo per resettare un meccanismo impazzito, per condividere e affrontare le sue patologie. Mi rispettano, mi ascoltano ma poi non succede nulla e tutto continua come prima".

Cosa sono i soldi per lei?
"I soldi sono spesso la conferma del valore di ciò che fai, ma sono soprattutto una scialuppa di salvataggio quando si affrontano le tempeste della vita. Senza aver mai assaltato diligenze ho potuto guadagnare con soddisfazione".

Chi è stato Ronaldo?
"Ho cominciato ad assistere Ronaldo quando aveva 17 anni e da subito ho percepito due cose: la sua vivissima intelligenza e l'empatia che sapeva creare intorno a sé. Era facile condividere con lui anche le decisioni più complesse, bastava spiegargli il contesto e i motivi di una scelta. Fu così anche per la sofferta decisione di lasciare il Barcellona. Era il numero uno al mondo e aveva diritto a un contratto trasparente e cristallino. Esattamente quello che l'Inter gli garantì".

Chi è Max Allegri?
"Uno che risponde no grazie al Real Madrid. E ho detto tutto".

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