A mezzo secolo di distanza dall'uscita dell'album d'esordio della leggendaria band di Los Angeles, ristampato in questi giorni, il chitarrista racconta la sua esperienza con Jim Morrison e la Los Angeles della Summer Of Love: "Mi sento un sopravvissuto"

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Robby Krieger e i Doors, 50 anni dopo: "Le droghe ci hanno rovinato"
 di   ALFREDO D'AGNESE





A mezzo secolo di distanza dall'uscita dell'album d'esordio della leggendaria band di Los Angeles, ristampato in questi giorni, il chitarrista racconta la sua esperienza con Jim Morrison e la Los Angeles della Summer Of Love: "Mi sento un sopravvissuto"



Ricordi la prima volta? È il titolo di un servizio sui più grandi debutti di tutti i tempi realizzato dalla rivista britannica Q. Robby Krieger, ex chitarrista dei Doors, rammenta perfettamente le registrazioni al Sunset Sound Studio nell’estate del 1966 per l’album d’esordio del gruppo in cui suonava. I Doors non sono mai scomparsi dalla sua vita. “Se guardo indietro – dice – non mi sembra affatto che siano trascorsi 50 anni. Ho suonato la musica dei Doors ininterrottamente negli ultimi venti”.

A Los Angeles c’è il sole, fa caldo. Krieger è in giro per la città. In movimento. Il suo cellulare squilla a lungo prima che risponda. Parla a voce bassa, quasi lamentandosi, a fatica. Non è entusiasta di raccontare per la milionesima volta la leggenda del Re Lucertola. Ma la sua vita è stata talmente condizionata da quel disco e dall’avventura con Jim Morrison, Ray Manzarek e John Densmore che il malumore e la noia passano quasi subito. I ricordi di quella stagione lo riportano al buonumore in poche battute. La linea cade continuamente: “Sono in un cattivo punto”, prova a scusarsi. Poi ferma il suo cammino e riprende a parlare. “I Doors sono vivi nella testa e nel cuore. Continuo a suonarli dal vivo con una nuova band. Alla voce c’è mio figlio”, dice quasi schernendosi. Per lui è stato impossibile liberarsi della stagione “in cui tutto sembrava possibile”. Una storia troppo grande per essere cancellata da un colpo di spugna.



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 L’eterno presente di Krieger ha una data, quella della pubblicazione di The Doors. Il primo gennaio 1967 arrivava nei negozi il disco del quartetto californiano. Conteneva 11 canzoni che sarebbero passate alla storia. Era il perfetto apripista di una stagione che avrebbe segnato l’universo del pianeta giovani. Nel giro di pochi mesi sarebbe stato seguito dai debutti di Pink Floyd, Procol Harum, Velvet Underground, Captain Beefheart e Jimi Hendrix. Sarebbe stato l’anno di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e di molti album indimenticabili.
Da qualche giorno The Doors è nuovamente nei negozi per celebrare l’anniversario, The Doors: 50th anniversary deluxe edition è un cofanetto di tre cd contenente l’edizione originale in versione mono e stereo più la registrazione del concerto tenuto il 7 marzo al club The Matrix di San Francisco. La confezione è arricchita da foto rare o inedite e dal testo scritto dal giornalista David Fricke. Nonostante Jim Morrison e Ray Manzarek siano scomparsi da anni, il mito dei Doors non accenna ad affievolirsi. “Già – commenta Krieger – la nostra è stata un’epoca mistica. Eravamo giovani. Avevo appena 19 anni. Intorno a noi fiorivano movimenti d’ogni tipo: gruppi di meditazione, collettivi anti-guerra. Avevamo tutti in testa la stessa idea: volevamo cambiare il mondo”.

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Perché non ci siete riusciti?
“Non so cosa sia successo. I soldi, le banche, le grandi corporazioni hanno avuto il sopravvento sui nostri ideali. Perfino le droghe, che sembravano nostre alleate, ci hanno rovinato. Erano gli anni dello strapotere della CIA e della guerra in Vietnam”.

Qual era il ruolo della musica in quella stagione?
“È stata una grande era, una manna per la creatività. La musica era analogica e tutto quello che dovevi fare era suonare bene il tuo strumento. Quando ho conosciuto Morrison in California regnava un’atmosfera rilassata. Era l’estate dell’amore, la Summer of Love. C’era un incredibile giro di artisti che collaboravano tra di loro. Ogni sera si improvvisava tutti insieme in qualche locale. Ricordo bene i Buffalo Springfield, Neil Young, Frank Zappa e the Mothers of Invention, i Mamas and Papas”.

Che ricordi ha delle registrazioni di The Doors?
“Non eravamo mai entrati in uno studio, ma avevamo suonato nei club quelle canzoni tante di quelle volte che in sala il lavoro fu veloce. Le conoscevamo a memoria. Solo The End ci ha dato qualche problema. Era più complessa degli altri brani. Non avevamo fatto i conti con Jim e la sua follia. Alla fine dette di matto. Dopo una lunga giornata di incisione decise di tornare di notte allo studio, sotto l’effetto di alcol e droga, convinto che stesse andando a fuoco. Prese un estintore e provò a spegnere le fiamme. Mi ha distrutto la chitarra, non l’ho mai dimenticato. Ci abbiamo riso per anni”.
Cosa ha reso speciale quel disco?
“Le canzoni. Hanno fatto la differenza e la fanno ancora oggi. Siamo stati un gruppo diverso dagli altri. La poesia di James era la padrona di casa. Ognuno di noi portava in dote un tocco di personalità, le proprie passioni e influenze: io ero innamorato del flamenco, Ray amava la scuola di Chicago e il blues, John seguiva il jazz. Nessuno aveva mai scritto musica come quella prima d’ora. È un’opera irripetibile. Contiene una serie di combinazioni che la storia ha reso uniche”.

Lei è anche l’autore di Light My Fire, il singolo che determinò il successo planetario dei Doors.
“Era una canzone dedicata alla passione. Conoscevamo il suo potenziale. Alla Elektra Records piaceva a tutti, ma aveva un difetto. Era troppo lunga per essere trasmessa in radio. E senza promozione radiofonica sapevamo che non avrebbe avuto successo. Il nostro produttore (Paul Rothchild, ndr) un giorno ci chiamò e ci fece ascoltare una versione perfettamente tagliata e rimontata senza gli assolo. Durava tre minuti ma sconfessava tutto quello in cui credevamo. Non volevamo farlo. Ma uscimmo dal suo studio dopo aver dato il nostro assenso. E finimmo primi in classifica”.

Che ruolo hanno avuto le droghe nella vostra formazione?
“Penso che sia stata un’influenza positiva. Almeno all’inizio. Tutti cominciammo ad assumere droga con l’idea di esplorare la mente. Allo stesso tempo cominciava a diffondersi una cultura esoterica in cui si ascoltava la musica di Ravi Shankar e tutto ciò che arrivava dall’Oriente. Jim e molti altri hanno esagerato. Agli stupefacenti si è aggiunto l’alcol in dosi sempre più massicce. Ed è stata una rovina”.

Quali sono i suoi ricordi di Jim Morrison?
“Non ci sarà mai un artista come lui. Aveva una grande personalità. Non gli interessavano i soldi. L’unica cosa che lo smuoveva era la poesia. Jim era un esploratore dell’universo e non si fermava davanti a nulla. Metteva in gioco anche la sua vita in cambio di emozioni e risposte alle sue domande”.

Vi hanno definito come la faccia oscura del rock. Era così?
“Solo in parte. I Beach Boys e i Beatles erano dipinti come il lato buono del movimento giovanile. Ma noi non eravamo così cattivi come ci dipingevano. Jim poteva essere sia un angelo che un diavolo. I problemi arrivavano quando emergeva la sua parte eccessiva. È quella che lo ha distrutto”.

Ha mai pensato di scrivere la sua versione sulla storia dei Doors?
“Ho un sacco di materiale già pronto. Prima o poi pubblicherò un libro. Le biografie di Ray (Manzarek) e John (Densmore) ci hanno causato molti problemi. Aspetterò il momento giusto. Ora ho uno studio di registrazione e sto seguendo la carriera di alcune giovani band”.

Perché lei e Manzarek avete provato più volte a resuscitare i Doors?
“Dopo la morte di John abbiamo provato in tre a continuare, ma non aveva senso. Abbiamo sciolto i Doors. Nel 2000 ci abbiamo riprovato con diversi cantanti, come Ian Astbury e Scott Weiland, ma non ha funzionato come doveva. Non poteva più esistere il gruppo dopo Jim”.

Com’è cambiata Los Angeles?
“Beh, Hollywood è sempre lì e ci sono un mucchio di gruppi che suonano nei club di rock’n’roll. C’è più traffico, oggi. In questi anni sono scomparsi un po’ di vecchi amici. Come mi sento? Come un sopravvissuto”.




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