LE TRASFORMAZIONI DI PICTOR

LE TRASFORMAZIONI DI PICTOR 
(Pictor's Verwandlungen, H. Hesse, 1922)

Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che
era insieme uomo e donna. Pictor salutò l'albero con riverenza e
chiese: "Sei tu l'albero della vita?". Ma quando, invece dell'albero,
volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era
tutt'occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di
trovarsi nella patria e alla fonte della vita.

E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna.

Pictor chiese: "Sei tu l'albero della vita?".

Il sole annuì e rise, la luna annui e sorrise. Fiori meravigliosi lo
guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con
una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano,
altri annuivano e sorridevano, altri non annuivano e non sorridevano:
ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si
fondevano. Un fiore cantò la canzone del lilla, un fiore cantò la
profonda ninna-nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu,
un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del
giardino dell'infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce
della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa
lingua curva. Egli vi lecco, aveva un sapore forte e selvaggio, come
di resina e di miele, ma anche come di un bacio di donna.

Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia
inquieta. II suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte,
batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l'ignoto, verso il
magicamente prefigurato.

Pictor scorse un uccello sull'erba posato e di luminosi colori
ammantato, di tutti i colori il bell'uccello sembrava dotato. Al
bell'uccello variopinto egli chiese: "Uccello, dove è dunque la
felicita?".

"La felicità?" disse il bell'uccello e rise con il suo becco
dorato, "la felicita, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei
fiori e nei cristalli".

Con queste parole l'uccello spensierato scosse le sue piume, allungò
il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un'ultima volta e
poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell'erba, ed ecco:
l'uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano
trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori,
nella danza e negli splendori, l'uccello si era fatto pianta. Pictor
vide questo con meraviglia.

E subito il fiore-uccello comincio a muovere le sue foglie e i suoi
pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più
radici, scuotendosi un po' si innalzò lentamente e fu una splendente
farfalla, che si cullò nell'aria, senza peso, tutta di luce soffusa,
splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.

Ma la nuova farfalla, l'allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il
luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al
sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino
ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali
splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si
irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erba e piante,
come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la
sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito
incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor,
spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che
stava svanendo e la tirò a se. Estasiato, immerse lo sguardo nella
sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento
di una piena beatitudine.

All'improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il
serpente gli sibilo nell'orecchio: "La pietra ti trasforma in quello
che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo
tardi!".

Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido
disse la parola e si trasformò in un albero. Giacché più di una volta
aveva desiderato essere albero, perché gli alberi gli apparivano cosi
pieni di pace, di forza e di dignità.

Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò
verso l'alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto
contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della
terra e con le foglie sventolò alto nell'azzurro. Insetti abitavano
nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il
coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.

L'albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano.
Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non
era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d'albero.
Finalmente poté vedere, e divenne triste.

Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri
si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso
incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre
preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a se
più d'un albero scomparire all'improvviso: uno si era sciolto in
fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava
fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro
guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti
prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.

Lui invece, l'albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva
più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se
ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell'aspetto
stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi
alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli
uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il
dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e
nell'abbattimento, e perdono ogni bellezza.

Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste azzurra
si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda
fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai
pensato di desiderare il dono della trasformazione.

Più di una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un
cespuglio l'accarezzo lieve con le sue propaggini, più di un albero
fece cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che
lei vi badasse.

Quando l'albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande
struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai
accaduto. E allo stesso tempo si trovo preso in una profonda
meditazione, perché era come se il suo stesso sangue gli
gridasse: "Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua
vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà
più data alcuna felicità". Ed egli ubbidì. Rammemorò la sua origine,
i suoi anni di uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo
particolare quell'istante prima che si facesse albero, quell'istante
meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata.

Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era
stata ardente come non mai! Si ricordo dell'uccello che allora aveva
riso e dell'albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che
allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio
del serpente non era stato buono.

La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell'albero Pictor, alzò lo
sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,
nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla
forza sconosciuta si sedette sotto l'albero. Esso le appariva
solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile
nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava
lieve la sua chioma. Si appoggio al suo tronco ruvido, senti l'albero
rabbrividire profondamente, senti lo stesso brivido nel proprio
cuore. II suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua
anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti
lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire cosi? Perché
il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui,
con esso, con il bel solitario?

L'albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente
raccoglieva in se ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in
un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato
raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in
un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero
allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto
della vita? No, anche allora l'aveva oscuramente sentito e presagito -
ohimè! e con dolore e profonda comprensione pensò ora all'albero che
era fatto di uomo e di donna!

Venne volando un uccello, rosso e verde era l'uccello, ardito e
bello, mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide
volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come
sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di
tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della
sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevo
quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad
esso non vi può essere oscurità.

Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano
bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il
cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt'uno con l'albero, si
affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si
innalzò verso di lui.

Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato
trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito,
ora cantava forte Pictoria. Vittoria.

Era trasformato. E poiché questa volta aveva raggiunto la vera,
l'eterna trasformazione, perché da una meta era diventato un tutto,
da quell'istante poté continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva.
Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue
vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni
ora.

Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e
uccello. In ogni forma però era intero, era un "coppia", aveva in se
luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre,
stava come stella doppia in cielo.

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