Il senatore a vita, nel '77 ministro dell’Interno, ripercorre i conflitti sociali «Non rimanderei i blindati in piazza Molti autonomi finirono nelle Br» Cossiga: «Co quell'intervento ho stroncato il movimento ma spinto le teste calde verso la violenza armata» |
ROMA — Presidente Cossiga, nel suo libro 1977 Lucia Annunziata la chiama Dottor Stranamore, e la accusa di aver «fatto dello scontro politico una sfida personale con il movimento». «Sono amico della Annunziata, le presenterò il libro; così come ho amici cari tra gli ex di Lotta continua, tra i ragazzi del '68. Credevano di essere una grande partito operaio, i veri rivoluzionari. Non avevano capito che, se avesse potuto, Togliatti la rivoluzione l'avrebbe fatta eccome, proprio come a Praga, Varsavia, Sofia». Con i gulag per voi democristiani? «No. Si sarebbe concesso un partito cattolico: la Dc sarebbe stata come Pax in Polonia o come il partito dei contadini. E Nenni non sarebbe stato impiccato come Slansky ma avrebbe avuto la presidenza di una fondazione». Cosa risponde a chi le rimprovera di aver soffiato sul fuoco del '77? «La migliore risposta la potrebbe dare Fausto Bertinotti. Quell'anno lo incontrai a Torino. Parlammo a lungo. Tornato a casa, disse alla moglie: questo è il ministro dell'Interno più democratico che potessimo avere». Non ha nulla da rimproverarsi? «Ho uno scrupolo. Io ho stroncato definitivamente l'autonomia: mandando i blindati a travolgere i cancelli dell'università di Roma e rioccuparla dopo la cacciata di Lama; poi inviando a Bologna, dopo la morte di Lorusso, i blindati dei carabinieri con le mitragliatrici, accolti dagli applausi dei comunisti bolognesi. Tollerammo ancora il convegno di settembre; poi demmo l'ultima spazzolata, e l'autonomia finì. Ma la chiusura di quello sfogatoio spostò molti verso le Brigate rosse e Prima Linea». Sta dicendo che se potesse tornare indietro non manderebbe più i blindati all'università di Roma o a Bologna? «Mi farei più furbo. Incanalando la violenza verso la piazza, l'avremmo controllata meglio, e alla lunga domata. Riconquistando la piazza, si spinsero le teste calde verso la violenza armata».
Ne parlò mai con suo cugino Berlinguer? «Berlinguer pose come condizione, per sostenere con l'astensione il primo governo Andreotti, che io rimanessi al Viminale, dove mi aveva messo Moro. Non avevamo bisogno di parlarne. E la disposizione che avevo dato alla polizia era: se sono operai, giratevi dall'altra parte; se sono studenti, picchiate tosto e giusto. Mai più i morti di Reggio Emilia. Dal Pci non vennero mai critiche alla linea dura. Anzi, un grande leader comunista e partigiano… ». Pajetta? «Questo lo dice lei. Un leader mi disse: ora che avete qualche terrorista in carcere, perché non gli date una strizzatina? Gli attacchi semmai venivano da uomini del mio partito, che mi chiedevano una risposta ancora più ferrea. E da Montanelli, che mi rimproverò di aver voluto la milizia rossa, quando Agnelli e Lama si accordarono per creare squadre di autoprotezione contro i sabotaggi in fabbrica. L'intesa avvenne al Viminale. Il presidente della Confindustria e il capo della Cgil però evitarono di incontrarsi. Restarono in due stanze attigue, e io facevo la spola». In piazza c'erano gli agenti in borghese con la pistola, vero? «Vero. Ma contro la mia volontà. Chiesi notizie al questore di Roma, che negò. Ma quando i giornalisti dell'Espresso mi mostrarono foto inequivocabili, andai alla Camera a chiedere scusa, e destituii il questore». Fu un errore vietare i cortei per un mese e mezzo, dopo la morte dell'agente Passamonti? «Quella decisione non fu mia, ma del comitato interministeriale per la sicurezza, presieduto da Andreotti. Ricordo che Donat-Cattin spinse molto per il divieto. Le mie perplessità furono zittite da Evangelisti, che mi disse: "Non hai le palle per farlo". Fu facile replicargli: "Come fai a dire questo a uno che non sa se tornerà a casa stasera?"».
Le misero anche una bomba in ufficio. «Nello studio privato di via San Claudio, a mezzogiorno, un'ora in cui ero sempre là. Quel giorno il consiglio dei ministri si era protratto più del previsto. Sentimmo un botto. Un collega pensò al cannone del Gianicolo; ci avvertirono che era una bomba. Tutti balzarono in piedi tranne me, che dissi ad Andreotti: "Giulio, vedrai che l'hanno messa nel mio studio". Era stato un terrorista rosso travestito da frate. Non l'abbiamo mai beccato. I vetri del palazzo andarono in frantumi: dovetti mandare fiori a tutte le signore, ovviamente pagati con i fondi riservati del ministero». Il 12 maggio fu uccisa Giorgiana Masi. «Avevo supplicato in ginocchio Pannella di rinunciare alla manifestazione in piazza Navona. Gli ricordai che io stesso avevo mandato la polizia a impedire un comizio democristiano a Genova. Gli dissi che i radicali non erano in grado di difendere la piazza e chiunque si sarebbe potuto infiltrare. Tutto inutile ». Chi fu a sparare? «La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l'ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore». Fuoco amico? «Questo lo dice lei. Il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo una bottiglia di champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità, pensando a tutto quanto ci hanno detto». Capo dei giovani comunisti era D'Alema. «La Fgci e Cl furono le uniche a contrastare gli autonomi. Infatti vennero prese di mira. Quando a Milano cadde Custrà e venne scattata la famosa foto dell'autonomo che spara, fu una delle due organizzazioni - non dirò quale - a dirci il nome del pistolero». Adriano Sofri scrive di aver sostenuto l'amnistia nel '77 in quanto, presagendo il diluvio, bisognava comportarsi come se il diluvio ci fosse già stato. «Stimo Sofri. Mastella dovrebbe avere un gesto di coraggio e graziarlo: è assurdo che Manconi sia sottosegretario e il suo ex leader rischi di dover tornare in galera. Considero Sofri innocente per la morte di Calabresi; credo sappia chi è stato, ma non lo dirà mai. Quanto all'amnistia, la si fa a guerra finita e vinta, non prima. Il Curcio di allora non era quello di oggi. So per certo che quand'era latitante un dirigente del Pci milanese, non dell' ala secchiana, lo contattò per garantirgli il perdono giudiziario in cambio della rinuncia alla lotta armata, invano. E poi Curcio mi è antipatico anche oggi: presuntuoso, supponente. Quando nel suo libro elenca i caduti e li compatisce, non ha una parola per Guido Rossa, su cui peraltro tacciono anche i Ds: nella cultura comunista non c'è comprensione per chi collabora con il potere; un compagno non va tradito neppure quando sbaglia. Questo spiega anche il silenzio sceso su Ugo Pecchioli». Com'erano in realtà i suoi rapporti con Pecchioli? «Fu sempre leale con me, e io con lui. Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali. Questo non mi impedì, in una conversazione con Carlo Casalegno, di dire cosa pensavo davvero di loro». Come andò? «Ero a Torino. Casalegno mi chiese un'intervista. Risposi che avevo parlato fin troppo; ma che l'avrei visto volentieri, per dargli elementi per il suo articolo. Venne con Arrigo Levi. E io dissi che le origini ideologiche delle Br andavano ricercate nel marxismo leninismo storico, unito all'utopia cattolica appresa a Trento. Quando uscì il pezzo di Casalegno, venne da me Tonino Tatò, braccio destro di Berlinguer, a protestare. Tenni il punto: non è vero che Lenin escludesse il terrorismo; lo condannava come azione esemplare, ma lo approvava come detonatore della rivoluzione. L'idea delle Br, appunto. Pochi giorni dopo quell'articolo, Casalegno fu assassinato. E' un altro scrupolo che mi porto dentro. Aver raccolto le mie parole gli costò la vita ». Con alcuni brigatisti lei ha poi avuto rapporti amichevoli. «Sono stato in carcere a trovare Prospero Gallinari su richiesta della famiglia. Mi disse: io non sono un intellettuale come altri compagni che ha conosciuto, ero un operaio che leggeva di notte; resto un militante comunista, e lei per me resterà sempre il ministro dell'Interno. La cosa mi piacque. Mi adoperai per farlo uscire di prigione, dove sarebbe morto, malandato com'era». Fu Gallinari a sparare a Moro? «No. Né lui né Moretti. Mi risulta che fu l'ingegner Altobelli, Germano Maccari, l'ultima figura a emergere. Mancano ancora i due in motocicletta che fecero da staffetta in via Fani. Ma i brigatisti non ne diranno mai i nomi. Tutto si può chiedere a un irriducibile, non quello. Uno di loro mi scrisse, quando Alberto Franceschini prese la tessera Ds, per chiedermi la tessera dell'Udr: "In fondo lei ha portato il primo comunista al governo, D'Alema". La motivazione mi parve ineccepibile. Fui tentato di tesserarlo davvero. Mastella non avrebbe avuto obiezioni: per una tessera in più…». Aldo Cazzullo 25 gennaio 2007 |
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