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26.8.25

Caterina Malavenda: «Io Perry Mason e giornalista, la democrazia funziona quando non si processano le opinioni»«I processi contro i cronisti? Così ho difeso la loro libertà». Il libro con dieci casi simbolo

non sono una signora - loredana berte
Gracias A La Vida - Mercedes Sosa


 fonte  corriere  della  sera  





Parla «l'avvocato» che difende i giornalisti. Il suo ultimo libro, «E io ti querelo», è sui 10 casi che l’hanno più appassionata Nino Luca, inviato in Liguria / CorriereTv



Riviera ligure, spiagge piene sotto il sole. Caterina Malavenda abbraccia la chitarra sul suo terrazzo e si lancia in «Vitti 'na crozza» e poi si concede a una inedita intervista con il suo libro ( «E io ti querelo»,) poggiato sul tavolo.
Come nasce la sua vocazione?
«Quando ero bambina, ero innamorata di Perry Mason. All’età di sei anni, impazzivo appena sentivo la sua sigla. Correvo davanti alla tv, anche di nascosto, a volte scappavo dal letto. E lui vinceva sempre. A me piace vincere, così ho deciso che lui era il mio idolo e l'ho seguito».
Lei ha detto che «l'esito dei processi è un eccellente termometro per misurare il reale stato della democrazia in Italia».
«In un processo, quello per diffamazione, dove mancano i fatti, spesso si discute di opinioni, di critiche, di satira. Si discute di cose molto impalpabili. Un po' come l’osceno e il senso del pudore. Per cui i giudici si misurano con concetti che vanno un po' fuori dai “processi normali”: rapine, droga, omicidi. Quindi se chi giudica ha un'apertura mentale adeguata, riesce a distinguere il giusto dall'ingiusto. Se invece uno ha la mente ristretta, è molto conformista, sta molto attento alla virgola, il processo può finire male. La democrazia, secondo me, è tale quando le informazioni circolano liberamente, le opinioni anche, senza passare per i processi penali».
Perché lei difende i giornalisti?
​«Un giornalista è una personalità molto complessa: narcisista, pessimista, è sempre scontento. Se fosse un po' più ottimista sarebbe meglio. Perché li difendo? Perché io volevo fare la giornalista. Io scrivevo sul giornalino del liceo, mi piaceva molto andare a fare un po' le pulci alla segreteria del liceo, al professore... A un certo punto ho detto Perry Mason oppure Il giornalista. Ho realizzato i miei sogni, sono diventata avvocato e giornalista pubblicista».
Ha detto avvocato e non avvocata.
«Sì, perché volevo fare l'avvocato, avvocato è il mio titolo. Dopodiché non ho nulla da dire su chi preferisce essere chiamata avvocata o avvocatessa».
Eppure tra avvocato e avvocata c'è qualche presidente di tribunale che invece la chiamava semplicemente signora.
«Questo è un aneddoto molto divertente perché dà il termometro della posizione delle donne ai tempi in cui ho iniziato, nei primi anni Ottanta. Il presidente del collegio si rivolgeva al mio collega dicendo “avvocato dica”, “avvocato faccia”. E a me, “signora dica”, “signora faccia”. Così su sollecitazione del mio cliente attacco: “Scusi presidente, mi chiede il mio cliente giustamente, perché mi chiama signora e non avvocato?” Risposta: “Perché per me prima è una signora e poi è un avvocato”. Quindi mi ha disinnescata, il mio cliente è stato assolto, tutto bene, però è rimasto il fatto che ho dovuto dimostrare di essere un avvocato oltre che una signora».
Si potrebbe citare Loredana Bertè, lievemente modificata. “Non sono una signora ma sono un avvocato…”.
«Esatto. Sono una signora, a volte sì, a volte no, ma sono un avvocato sicuramente. Non faccio l'avvocato, io sono un avvocato».
Quando non è una Signora?
«Quando guido per strada divento un scaricatore di porto».
Cioè cosa gli urla?
«Quello che mi passa per la testa».
Mai contro i giudici?
«Sì, mi è rimasto in testa qualche epiteto non gradevole per i giudici qualche volta. Per esempio, se un mio cliente è imputato di diffamazione e vuole difendersi, non può sentirsi chiedere “Fate un accordo, date dei soldi e chiudete”, perché non va bene».
Altra sua frase: «Il giornalismo, in passato soprattutto, non è stato una faccenda da donne».
«Se vado indietro nel tempo e voglio pensare a tre giornaliste di sesso femminile note negli anni ‘70, me ne viene in mente solo una: Oriana Fallaci. Non ce ne sono state altre. E ancora adesso i grandi quotidiani sono diretti da direttori di sesso maschile».
Gli uomini fanno muro?
«Premetto, io detesto le quote rosa. Perché le donne devono farsi largo per le loro capacità. Io sono arrivata senza avere padrini né madrine, con le mie forze. Però per noi è molto più difficile perché il mondo è maschile. Declina e pensa al maschile».
Qual è una firma che le piace leggere?
«Fabrizio Roncone mi diverte molto. È una persona che scrive delle cose interessanti in maniera molto leggera. E poi Fabrizio Gatti, un vero giornalista, uno dei più bravi d'Italia. Un processo sarà molto faticoso se il giornalista non ha curato bene i particolari. Luigi Ferrarella del Corriere della Sera è talmente scrupoloso che a volte mi scavalca. Fa cose che io neanche gli chiedo. Però ha avuto solo uno o due processi nella sua vita, quindi morirei di fame se fosse il solo».
Parliamo del suo maestro.
«Certo, l'avvocato Corso Bovio. Lui è stato il mio mentore. L'ho incontrato nell'85 per caso, mi chiese di entrare nel suo studio per sostituire i suoi collaboratori che stavano facendo gli esami di Stato. È stato amore a prima vista e sono rimasta con lui per 22 anni».
Poi però il tragico epilogo, Corso Bovio si tolse la vita.
«Spieghiamo una cosa. Lui si è tolto la vita anche se era una persona molto solare e divertente. È stata una cosa veramente imprevedibile, perché nulla lo lasciava pensare. Ci vuole coraggio per togliersi la vita e quando è andato via ha lasciato me e i miei colleghi davvero soli, perché lui era veramente un po' il sole intorno al quale noi giravamo».
Qual è stato il suo momento di svolta nella vita?
«Quando ho incontrato mio marito. Ho aperto una porta di un'aula in tribunale ed è apparso lui con i riccioli e in ciabatte. Era il cancelliere. Ho pensato: io questo me lo sposo. Un colpo di fulmine».
Si descriva con aggettivo inaspettato.
«Romantica. Piango guardando il film Bambi. Ho pianto quando la mamma di Bambi è morta. Ho pianto quando E.T. è tornato nel suo pianeta. Mi commuovo moltissimo. Però piango al cinema dove nessuno mi vede».
E invece, nelle aule del tribunale, è cinica.
«Sì, dicono quella cosa orribile: “Ha le palle”».
Maschilista, però il complimento rimane.
«Sì, ma un avvocato non deve essere capace. Il senso è che la bravura è solo in ambito maschile? L'errore è credere che l'avvocato debba essere uno che si fa valere, che alza la voce. Non serve. L'avvocato deve modularsi sul caso che sta affrontando».
E lei ha mai alzato la voce In tribunale?
«Una volta ho battuto un pugno sul tavolo perché il giudice stava facendo altro».
Cosa augura per se stessa nel futuro?
«La mia terza vita sarà fare la libraia, perché io possiedo quattro librerie in Liguria insieme con altri soci».
Cosa vorrebbe che si dicesse di lei?
«Che ho vissuto. Mi basta quello, ho una vita piena, ringrazio la vita tutti i giorni perché sono soddisfatta».
Ringrazia la vita, non Dio. Perché non crede?
«No, sono agnostica, nel senso che non professo».
Vuole le prove?
«Quando le avrò, crederò».


  fonte mdn.it 

Se ritenete di aver subito un danno e decidete di denunciare un giornalista, fate attenzione. Se il suo avvocato è Caterina Malavenda sarà difficile vincere. E non solo perché lei è tra i legali più bravi e preparati che ci siano, ma perché la sua determinazione e la sua idea di libertà di stampa sono un’arma potente, spesso infallibile.
Non fa sconti, soprattutto ai clienti, conosce i limiti di ogni causa, sa quando può oltrepassarli, pure rischiando ma ottenendo poi il risultato. Ecco perché il suo libro E io ti querelo, edito da Marsilio, è in realtà un romanzo che racconta in maniera diretta ed efficace i dieci processi che, dal suo punto di vista, certamente mettono in luce il non facile rapporto tra informazione e potere. E in realtà rappresentano lo specchio di un Paese dove il mestiere del cronista — sia esso applicato alla politica, all’economia o alla «nera» — è spesso mal sopportato oppure vissuto come un ostacolo a chi si sente disturbato dalla verità dei fatti.
Malavenda lo sa e non a caso nella premessa scrive: «Non so più quanti giornalisti ho difeso e, proprio grazie all’esperienza che ho maturato, posso affermare con sicurezza che l’andamento e, soprattutto, l’esito dei processi che li riguardano sono un eccellente termometro per misurare il reale stato della democrazia in Italia. La democrazia, infatti, funziona solo se notizie, critiche e polemiche circolano liberamente, consentendo all’opinione pubblica, quando ne ha bisogno, di sapere, capire e farsi un’idea su quel che accade. E questo è possibile solo se quella stessa democrazia garantisce un’informazione senza pressioni e condizionamenti. E il più subdolo modo per intimidire un giornalista che dà fastidio è senza dubbio trascinarlo in tribunale, accusandolo di diffamazione».
E io ti querelo non è un manuale, ogni vicenda è narrata andando oltre la scena, svelando quel rapporto speciale che Malavenda sa creare con i propri clienti, sfinendoli con la richiesta delle «pezze d’appoggio» fondamentali per dimostrare che il giornalista ha fatto il proprio mestiere — talvolta anche sbagliando — ma sempre con l’onestà di chi vuole semplicemente informare i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori nel modo più completo possibile. Andando oltre quel che appare, ricostruendo con onestà quel che il cittadino non vede ma deve sapere.
Ogni caso è trattato rivelando il rapporto — talvolta complicato — che si crea tra l’avvocato e il suo assistito: le discussioni, la diversità di vedute e dunque di strategia, il compromesso finale che talvolta non soddisfa uno o l’altro però viene sempre raggiunto grazie a un confronto aperto e leale. Come accade quando l’imputato decide di rinunciare alla prescrizione e il difensore, pur non condividendo la scelta, deve accettarla, o quando è invece il legale a riuscire ad imporsi, sapendo bene che la strada è stretta, dunque la soluzione può essere soltanto una.
Ogni capitolo è dedicato a un giornalista, alla ricostruzione del processo in tutte le sue fasi, al confronto duro con le controparti. E si capisce quanto difficile sia stato affrontarlo quando Malavenda scrive: «Il dilemma del giornalista su cosa pubblicare e come, e cosa invece omettere, dunque, è difficile da risolvere. Specie quando dalla scelta possono derivare conseguenze deleterie per lui se tace, e per altri se scrive. La mia ricerca di una soluzione equa non si è ancora conclusa. E non sono certa che alla fine ne troverò una che mi convincerà davvero. Ma so di sicuro, e non ne faccio mistero, che, se si ha un dubbio, la cosa migliore è fermarsi e ricordare le parole di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Matteo 7, 12). O, più semplicemente, non fare ad altri quel che non vorresti fosse fatto a te e alle persone cui tieni. Secondo me funziona».
Ma la parte che davvero colpisce è quella dedicata a Tangentopoli, quando Malavenda ha la fortuna di lavorare con il suo maestro Corso Bovio. Dai primi passi nel mondo dell’avvocatura fino alla scomparsa di lui, il loro è stato un sodalizio speciale e lo si capisce dalle pagine che gli dedica, dall’attenzione che usa quando racconta che «lui non mi ha mai fatto pesare di essere donna e del sud. Nella Milano degli anni Ottanta era un connubio che poteva creare qualche problema, se l’idea era quella di farsi largo e trovare uno spazio in un mondo di uomini».
Ma anche quando ricorda la bufera che dalla procura di Milano colpì politici, imprenditori, manager e lei era il difensore, ma certo anche qualcosa di più. Tanto che adesso dice «ancora mi vergogno un po’ di aver fatto cose che il mio ruolo non prevedeva e mi pento di non aver deciso sempre come avrei voluto. Ho persino aiutato, in quegli anni, chi doveva andare in carcere a preparare la valigia, selezionando quel che poteva portare in cella. Ricordo gli occhi increduli e smarriti con cui qualcuno di loro mi aveva guardata, scoprendo che non erano ammessi pipa e tabacco o dentifricio e schiuma da barba. Non erano preparati a quella prova; nessuno di loro l’aveva messa in conto, qualcuno non ha resistito e si è tolto la vita. Oggi sembra impossibile che tutto questo sia successo, ma è davvero accaduto. Ed è altrettanto incredibile che qualcuno, anche se costretto per un po’ a vivere in cella, abbia mantenuto, invece, una vena di ironia e la voglia di far sorridere, pur parlando di cose estremamente serie».
Nel finale del suo libro Malavenda si dichiara «grata alla vita». Una gratitudine che i suoi clienti, tutti, certamente condivideranno.

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