Ho avuto la fortuna di conoscere la mia bisnonna materna. Una vecchina minuta, dai lunghi capelli bianchi, sempre vestita di nero. La ricordo la sera, seduta accanto al camino, a godersi fiamma e calore. E a raccontar storie, tra la luce rossastra e le ombre delle travi di legno.
Parlava di suo nonno, abile a fare i lunari. Di un suo zio, che diceva far parte della Mano Nera. Della Guerra. E della Malattia.
La Spagnola. Pronunciava quel nome con un misto di terrore e rispetto, come una punizione di antichi dei, e sembrava diventare più piccola di quel che era. Quasi a scomparire.
Era un Ottobre freddo. Piovoso. Vennero i soliti malanni di stagione. Tosse, ladra di respiri. Ossa che facevano male. Febbri. E all'improvviso dolori lancinanti. Il fuoco alle tempio. Il sangue nei polmoni. La gente moriva come mosche. Non i bambini e gli anziani, ma coloro che erano nel pieno delle forze.
E i giornali tacevano. Lei si ammalò. Fu fortunata. Perse tutti i capelli, ma sopravvisse. Oggi scopro che la Spagnola non era che una forma di influenza aviaria. Leggo le rassicurazioni: che il virus non si è adattato perfettamente all'uomo, che non siamo indeboliti dalla carestia, che gli antibiotici ci proteggono dalle complicazioni batteriche.
Razionalmente ci credo, eppure nell'animo rimangono i graffi dell'antica paura
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