PAROLE PER UN MOVIMENTO DI RESISTENZA CULTURALE
Sotterranei della Stazione Termini (Roma) Domenica 7 Settembre 2003. Ore 11,27
(Meno 230 giorni, 20 ore, 33 minuti, alla caduta del governo Berlusconi)
Ho soltanto me stesso da darvi, un vocabolario, una penna. Vivo ai margini, in silenzio, solo. Questo giornale mi ha restituito la libertà di scrivere e di mantenermi che mai, fino a ieri, mi era stata negata. Non sono un martire né uno sconfitto, non muoio di fame e non soffro di un male incurabile. I miei tic, vizi e piccoli orrori non posso certo imputarli a questa società. Faccio sogni sempre più corti: una piccola casa fuori città, una battuta di pesca notturna, il sorriso gentile di un estraneo, una teoria originale, l'ultima donna che avrò. Di conseguenza, ho cento e una ragione per considerarmi un italiano felice. Ma non posso esserlo, non ci riesco, è più forte di me. Un codice interiore, l'educazione dei miei padri, una parola che non trovo, mi proibiscono di vivere serenamente. Perché non sono un emigrante in Cile sotto Pinochet; non sono un clandestino in Russia sotto Stalin; non sono uno studente pacifista arabo nell'America di Bush. Io sono un italiano. Ma questo non è più il mio Paese. Straniero mi ero sempre sentito, ma è una categoria dell'anima. Clandestino una vocazione del cuore. Vagabondo una passione. Senza patria no, è uno stato civile. Vivi e non vivi. Esisti ma è come se non ci fossi. Parli ma non hai più voce. Ti senti soffocare ma sai che nessuno correrà in tuo aiuto. Il ponte che ti univa con radici profonde e secolari agli altri e al tuo Paese è stato fatto saltare. Sei dentro e fuori, solo insieme, libero in carcere. Sei un italiano senza l'Italia. Si può essere un cittadino apolide? No, è un controsenso. Ma io sono certo che migliaia e migliaia di persone, in questo momento, stanno pagando questo controsenso sulla loro pelle. Io sono certo che migliaia e migliaia di italiani, nella testa e nel cuore, si sentono derubati dalla loro appartenenza civile. Io sono certo che migliaia e migliaia di presenze invisibili, in Italia, saluterebbero, come una liberazione, la nascita di un grande movimento di resistenza culturale. Io sono certo di non essere solo.
Una casa visitata da bande di ladri |
E dico grazie, ma grazie davvero al Presidente del Consiglio, per avermi definitivamente convinto che la sua Italia non è il mio Paese. E un grazie altrettanto grande lo devo alla sorella del giudice Borsellino, intervistata venerdì sera al telegiornale, per non aver saputo trovare le parole per commentare le dichiarazioni del Presidente sui magistrati affetti da "turbe psichiche" e "antropologicamente diversi dalla razza umana". Dopo tanto, tanto tempo, ho ritrovato nel volto gentile di quella signora, una persona di famiglia. Nel suo silenzio indicibile, il mio. L'Italia della quale sono figlio, la nostra gente, la nostra "razza", la nostra passione civile, il rispetto per la nostra Costituzione e il nostro cuore. Venerdì sera ho visitato la mia vecchia casa, quella di sopra. Sembra sia stata visitata da bande di ladri, a ondate successive, negli anni. Sui vetri alle finestre spiccano vecchie scritte rosse inneggianti alle BR, altre verdi, più recenti, firmate U.B., Festa Lega Lombarda di Cabiate, 25 luglio 1997: "Quando vedo il tricolore m'incazzo. Il tricolore lo uso soltanto per pulirmi il culo". L'ultima è azzurra, con sbavature di vernice fresca, troneggia sulle pareti del tinello fra due macchie di muffa: "I giudici sono antropologicamente diversi dalla razza umana". Su un divano di pelle sfondato sono gettati alla rinfusa gli elenchi di Castiglion Fibocchi, tre o quattro tessere della P2 dalle foto scolorite, i nomi illeggibili. Della mia collezione di dischi non hanno trafugato soltanto "Il flauto magico" di Mozart, "Princesa" di De André, "Democracy" di Cohen, "Pablo" di De Gregori. Una piccola catasta di libri è ammonticchiata sul pavimento della sala, fra lattine di birra e escrementi di topi. Sono tutti libri di storia dalle copertine sbruciacchiate. Di mobili ne hanno lasciati un paio. La scrivania a sghimbescio (hanno usato una gamba per il barbecue sul terrazzino) e il letto di noce dei miei, trapanato dai tarli. Nella cameretta dove giocavo da bambino è rimasto solo il ritratto del Piccolo Principe con la cornice di smalto turchese, un triciclo arancione e il primo sillabario. In corridoio scatoloni di documenti di famiglia, tasse e accertamenti, la mia vecchia licenza di pesca, la foto di una fidanzatina che oggi sarà madre di un gigantesco usciere delle poste o di un broker mingherlino della Fineco. Della mia libreria di ragazzo è rimasta la pagina di una raccolta di Costantino Kavafis, crocifissa alla porta di casa con una puntina da disegno. Una poesia che il vento, dai vetri rotti del salone, frigge e sbandiera: "Aspettando i barbari". Perchè il senato è inoperoso? E perchè siedono senza far leggi i senatori? Perchè oggi arrivano i barbari. Che leggi devono mai fare i senatori? Quando verranno, faranno leggi i barbari. Nello studio di mio padre, il computer è rimasto acceso, un vecchio modello che ronza come uno sciame d'api, ma funziona. Un vocabolario. Io. Fine.
Il Paese degli Invisibili |
Non so a voi che cos'altro rimane, fratelli senza passaporto, presenze invisibili di un Paese spogliato e offeso. Mi auguro per voi, sinceramente, qualcosa di più. Ma qualunque coccio di valore sano vi sia rimasto, di sinistra, di centro, di destra, prima o poi dovremo incollarlo insieme, vedrete, al di là delle nostre distinzioni e delle nostre bandiere che ancora ci infiammano, come sarebbe giusto in un Paese normale, ma che in questo silenzio indicibile, in questo baratro antidemocratico nel quale stiamo precipitando, muti, stentano a rappresentarci, sono etichette mobili e basta, per chi ormai ha scoperto di vivere Altrove, nell'Italia degli Invisibili. Vorrei condividere con voi questa consapevolezza. Non è molto, lo so. Ma dalle nostre famiglie siamo stati educati a non promettere mai quello che non avremmo potuto mantenere. Ve lo ricordate ancora, vero? Vi ho avvertito all'inizio. Io ho soltanto me stesso da darvi, un vocabolario, una penna. Se avete proseguito a leggermi sin qui, delle due l'una: o vi specchiate nelle mie parole o volevate sputare nello specchio. In entrambi i casi, vi aiuto. Sono un disubbidiente all'antica e a mani nude, pago il prezzo di non chinare il capo e dire "Sì" a chi usa il potere come arma di consenso indiscriminato e senza regole, anche se facendo orecchie da mercante avrei, come molti miei colleghi, vita più facile. Cerco di rispettare come meglio posso un codice interiore (non scritto), e la Costituzione del mio Paese (non sembra, ma è scritta). Tutto qui. Fino a ieri ero un italiano come voi senza altre qualità. Come tutti, avrei potuto diventare anch'io un ottimo Presidente del Consiglio e, volendo, anche un discreto Papa, anzi, credo proprio di averlo confidato a mia madre, una volta, mentre stavamo andando in corriera al mare a Torre del Greco (lei con la sporta del picnic, io benedicendo il traffico con una paletta e il secchiello) e un'altra volta, a letto con la mia fidanzata, guardando un mondiale di calcio, dissi che se io fossi stato Baggio non avrei sbagliato quel cazzo di rigore. Ma poi spegnemmo la luce sui comodini, facemmo altro, e la cosa finì lì. Siamo italiani. "Ciucci e presuntuosi", diceva una mia vecchia zia di Ragusa. "Vogliamo la nostra libertà e disprezziamo quella degli altri", sosteneva Ennio Flaiano. E aggiungeva: "L'italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia." Mai però questi vizi nazionali avevano rischiato il suicidio della specie. Mai gli italiani si erano lasciati legare mani e piedi dall'imbecillità più assoluta. Mai ci eravamo sottomessi a un'ignoranza letale. Da ragazzo consideravo Montanelli di destra e lo disprezzavo. Quando le BR gli spararono alle gambe scoppiammo in una risata delirante con altri giovani sciocchi, esclamando: "Chissà quanto gli sarà costato a Montanelli pagare quei killer". A trent'anni dovetti riconoscere che era un giornalista straordinario. Oggi mi manca come mi mancano i miei. Era un italiano di famiglia. Non un "visitors". Era come la sorella di Borsellino. Come Pertini. Come il giudice Antonino Caponnetto, quel magistrato così antico, così fragile, eppure così forte che quando i giornalisti gli chiesero come fosse stato possibile che, d'incanto, la cavalleria berlusconiana avesse conquistato il cento per cento della Sicilia, rispose: "Me lo chiedo con angoscia: che ne è, delle decine di migliaia di persone che incontravamo, con cui parlavamo di Falcone e Borsellino, di ideali, di cambiamenti… e venivano, venivano da riempire le sale, le piazze. Venivano… E ora dove sono quei ragazzi, dove sono finiti? Me lo chiedo con angoscia…" Caponnetto è morto senza risposta ai primi di Dicembre 2002. Sono trascorsi nove mesi, nel tempo della gestazione di un bambino è nato il Paese dei Visitors, e la domanda di un vecchio giudice, un italiano della razza di Pirandello e di Sciascia, non posso essere io solo a sentirla come un brivido sulla schiena di tutta l'Italia: "Dove sono quei ragazzi? Dove sono finiti?" Lo so che ci siete, a migliaia e migliaia, invisibili, disubbidienti o già mezzo addomesticati, diffidenti a tutto, non rappresentati da nessuno, resi cinici e ostili dallo sfascio al quale assistete ogni giorno, schiacciati fra un'opposizione che leva sempre più stridule grida di scandalo come una vergine un po' gattamorta e un governo che l'insidia lanciandole merda a palate per poter smaneggiare meglio le leggi e le istituzioni con una dolcezza da caterpillar, finché l'ultimo bulldozer non ha fatto saltare l'esile filo di quel ponte che ci teneva legati alla società. Ci incrociamo tra le macerie senza neppure riconoscerci. I volti grigi di polvere, gli occhi vuoti da smemorati, e tutt'intorno, sulle torrette, ci controllano i "visitors". Basta guardare le orecchie a punta del direttore di Sky News per capire in che guaio ci siamo ficcati. Niente razzismi, d'accordo. Era solo una battuta. Ma sempre citando Flaiano "La razza è un modo di vivere. Ed è qui che sono possibili le distinzioni." E io non ho le orecchie a punta. E poi questa ignominia sulla razza l'ha tirata fuori il vostro Presidente del Consiglio dei Visitors, il Goering degli gnomi. Montanelli, dicevo, il toscanaccio. Di razza umana, quella dei nostri padri, che nel corso della vita tutti vorremmo strozzare con la cravatta almeno una dozzina di volte, poi, quando muoiono, soffriamo come se ci avessero segato entrambe le gambe e rimaniamo attoniti, come mezzibusti in diretta senza microfono. "L'Italia berlusconiana mi colpisce molto" ammise Montanelli poco prima di morire. "È la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo". Dai sotterranei di questo pozzo, precisamente da quelli della Stazione Termini, oggi, Domenica 7 Settembre 2003, alle 11,27, vi sto cercando uno per uno, e non me ne frega niente per chi avete votato, o se morire a Guernica fu meglio o peggio che morire in Siberia, e se Oriana Fallaci avesse torto marcio, giacché non mi risulta che i mussulmani abbiano poi sottomesso l'Occidente, mi risulta semmai che Bush abbia invaso l'Iraq. Non sono un'anima bella né un beccamorto che occulta i cadaveri prodotti dal suo fanatismo e mostra solo le vittime delle altre ideologie. La morte è orrenda sempre, dovunque la guardi, dall'ultimo piano delle torri gemelle come sotto un banco di scuola a Baghdad. Io parlo d'altro. Sto parlando di me. E quando dico me, dico noi, l'io non mi riguarda, è più noioso dell'algebra e più ripetitivo di un pezzo dei Pooh. Se tu mi leggi io vivo e alimento te. Tu nel Paese di sopra, io in quello di sotto. Non si tratta di un fumetto, solo di una prospettiva diversa, tutto qui. Accorgimenti mentali. Il mestiere di Jack Folla è questo: aiutarti a riflettere da un'angolazione diversa. Un tempo si faceva, tra fratelli. Ma nella Repubblica dei Visitors è stato proibito. O hai le orecchie a punta o sei fuori. Qui ancora non sono entrati, ma non tarderanno, prima o poi troveranno il mio tombino, scenderanno di sotto e anche questo punto di fuga avrà il suo bel muro di cemento armato verde, e dovremo inventarcene un'altra, farci le corna rovesciate come segno di riconoscimento fra chi non ha le orecchie a punta, o farsi servire mezzo chilo di pasta a cranio nei ristoranti, alla faccia di Sirchia, o imparare a fare le vocali con gli anelli di fumo delle sigarette, non so, c'è sempre un modo per resistere, anche in un Paese invaso dagli extra-italiestri, e noi lo scopriremo.
Per un movimento di Resistenza Culturale |
Giorni fa, con un mozzicone di matita, ho vergato due parole su un lembo del giornale: Resistenza Culturale. Succede, a chi fa questo mestiere, di appuntare parole senza pensarci. Immagino che una domenica mattina del 1958, Franco Migliacci abbia scarabocchiato su un tovagliolo di carta dello Snack Bar Segafredo dove stava facendo colazione, o che so, su un biglietto del tram: "Mi dipingevo le mani e la faccia di blu", e sarebbe rimasto sbalordito se qualcuno, magari un angelo, leggendole, gli avesse annunziato: "Maestro, lei ha scritto un verso di 'Volare'. La sua canzone rimarrà per 13 settimane al primo posto delle classifiche statunitensi!" (E all'epoca, l'unica canzone che nel mondo aveva venduto più dei ventidue milioni di dischi di 'Volare' di Modugno era "White Christmas" di Bing Crosby). Ora, io sono limpidamente certo che "Resistenza culturale" sia una canzone che da mesi risuona nell'anima di milioni di persone con le orecchie italiane normali, è un movimento di cui non conosco ancora i volti e le parole ma è nato da quello stesso silenzio indicibile della sorella di Borsellino, e non ha barriere di sesso, età, provenienza politica, razza o religione. Chi appartiene a Resistenza Culturale, se è nato, vive o lavora in quella che fu l'Italia, già lo sa; se non lo sapeva forse l'ha capito ora; se è incerto, ma stamattina si è svegliato con un colorito verdognolo, o venerdì aveva riso alle battute sulla razza, come quella specie di Scott Fitzgerald di Rimini, dico il giornalista inglese col cappello da piccolo Gatsby che rideva a crepapelle alle esternazioni dello gnomo della Costa Smeralda, si precipiti davanti allo specchio. Se scopri di avere la punta delle orecchie a triangolo isoscele, fratello, spegni la televisione immediatamente. E di là che arrivano e ti entrano dentro. Poi chiamami o scrivi nei forum della nostra gente. Usa il mio, quello de l'Unità, o un altro della cui assoluta libertà sei certo. Io o i miei fratelli ti verremo a prendere, passerai la sera con noi davanti a un bicchiere di vino, ci confronteremo senza giudicarci e guardandoci diritto negli occhi, e domani ti sveglierai pronto per opporre la tua personale e insostituibile resistenza culturale all'invasione degli ultranani. Se qui e lì scherzo, scusatemi, lo faccio per tirarmi su. Non sto bene, non stiamo bene, e vorrei vivere in un Paese che si occupasse, tanto per dirne una, di lottare in sede internazionale per restituire alla libertà 27 milioni di schiavi nel mondo, invece di ospitare Putin e le sue navi da guerra (come se in Sardegna non ce ne fossero già abbastanza) solo per fargli esibire un torace da canottiere fra i cactus, o farci rifilare qualche aereo russo antincendio. Vorrei pagare un po' meno tasse, avere processi più celeri, assistere a programmi televisivi meno beceri, non dover pagare la verdura come un dessert all'Hilton, e disporre di ospedali pubblici dove non si entra per un'ernia e si esce con una gastroenterite acuta. Vorrei -ma sia detto fra noi- vivere come un europeo qualunque, senza che quando passo tutti gli altri europei si mettano a ridere. Non è facile scrivere Resistenza Culturale, mentre sulla testa ti sfrecciano centinaia di treni pieni di gente che non si è accorta di nulla, che lavora, fotte, bestemmia per la pensione, legge "Sai tenere un segreto?" o "Come dire no ed essere più apprezzati", si scandalizza perché le Tiscali non salgono sopra sei euro, quest'estate vorrebbe essere andata a Malibù come "quel porco del principale proprio con la segretaria che tirava a me", e non ha ancora capito se, con la riforma Moratti, il governo le allungherà o no almeno mezza milionata mandando i figli a scuola dai preti. Non è facile, oggi, in questo Paese che più Italia non è, fare a braccio di ferro con la memoria per ricordarsi i titoli di coda del film "Z", che Costa Gavras trasse dal romanzo di Vassilis Vassilikos, e ti senti solo e assurdo, ma lo fai, eccome se lo fai, e se ti viene da recitare il catechismo delle cose proibite in Grecia dai colonnelli, qualcosa di indicibile in Italia è accaduto davvero, e tu lo sai come me, fratello. Lo sai, ma non vuoi ammetterlo, perché riconosci la Storia e le sue ombre. "E da quel giorno furono proibiti: i capelli lunghi, le minigonne; Eschilo, Sofocle, Euripide, Tolstoj, Dostoevskij, Sartre, Jonesco; i Beatles, la musica pop, Zorba il greco di Theodorakis; dire che Socrate era omosessuale; la matematica moderna; imparare il bulgaro, il russo e il rompere i bicchieri alla russa; la libertà politica, sindacale e di stampa; i movimenti per la pace; e la lettera Z che vuol dire "è vivo" in greco antico." Ecco, tutto quello che avevo da darvi stamani, l'ho dato. Adesso salirò nella mia città in cui mi sento straniero, devo prendere il cibo per Sarak e volevo comprarle una ciotola rossa, ma se sei di destra e ti offendi, (nera proprio non ce la faccio, fratello), la sceglierò del colore argento delle spade, così, mangiando, si specchierà nella ciotola, e anche a lei sembrerà di essere in due. Come tu e io, e il nostro movimento di Resistenza Culturale. Riusciremo a riconoscerci nelle strade del Paese degli Invisibili? Riusciremo a marciare insieme e a mani nude, a riprenderci l'Italia che ci è stata rubata? A non aver paura di essere derisi, o di essere tacciati di qualunquismo o di retorica soltanto perché abbiamo lanciato oltre il muro le parole silenziose della nostra canzone più segreta? Bisogna agire come bambini, rischiare le sculacciate, diceva Flaiano, perché quando non si è più ragazzi si è morti. Resistenza Culturale. Non vergognatevi. Si può cominciare a praticarla anche da soli come vi ho appena dimostrato. Ma fatela. |
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