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18.3.25

CARO ROBERTO VECCHIONI CHE ... DICI SEI SCESO A LIVELLO DEL NEO LIBERISMO

Caro Roberto Vecchioni
Nella  maifestazione   del 15 marzo  fa, davanti a decine di migliaia di persone, lei ha parlato di cultura e di Europa, chiarendo come la prima sia esclusivamente appannaggio della seconda.
Ha usato queste testuali e disgraziate parole: «la cultura è nostra», cioè degli europei, lasciando intendere che tutti gli altri americani, russi, orientali, africani siano non si sa bene cosa, bifolchiprobabilmente, creature da guardare dall'alto in basso, barbari rimasti tali, mediocri e ignoranti: perché, appunto, «la cultura è nostra». da almeno 70 anni  la società fa uno sforzo immane per arginare questa visione rovinosa, figlia del peggior razzismo coloniale, erede di un passato suprematista che sappiamo quali danni ha prodotto. Nella politica, nel lavoro, nelle associazioni, nelle scuole e nelle università (ripeto, con uno sforzo immane) si sta tentando    di sovvertire   quest'orizzonte, ovvero quest'istinto a primeggiare, quest'eterna, aberrante e quanto mai tossica tentazione dell'eurocentrismo .Nel lontano  '82 Tzvetan Todorov pubblicò un libro: La conquista dell'America. Il problema dell'«altro». «Quando Colombo» così dice, «all'alba del 12 ottobre 1492, incontrò i primi indigeni nella piccola isola dei Caraibi da lui battezzata San Salvador questo avvenne: l'uomo incontrò sé stesso e non si riconobbe. È qui, in questo fallimento, il senso di quell'evento grandioso e tragico».Colombo quindi, il civile, l'acculturato, il superiore, Colombo l'europeo vide un suo simile e lo ridusse a schiavo, subito lo trattò da inferiore, aprendo di fatto la strada al più feroce genocidio della storia, una mattanza di quasi cento milioni di morti, che dolorosamente riposano sul medesimo assunto: l'Europa è migliore.
Caro Roberto Vecchioni, io immagino il mio continente come un luogo d'interazione alla pari, un campo dove non si gioca a chi è più grande e importante dell'altro, una terra che guarda alle altre terre con gli occhi della fratellanza, con curiosità, rispetto e coraggio.Per definizione la cultura vera   non dovrebbe  avere   perimetri, non vuole padroni, non è fatta di guinzagli. La cultura è in teoria   la libertà per antonomasia. Di più: la cultura è cultura proprio per la sua disponibilità intrinseca ad espandersi, a diventare contagio, a essere ovunque : la democrazia è nata in Grecia, è vero, ma ciò non significa che un greco possa affermare che la democrazia è roba sua e di nessun altro.  Certo   esistono le tradizioni e le personalità che fanno spiccare un Paese in un certo modo; esistono volti, pratiche e costumi che lo caratterizzano e lo fanno brillare, rendendolo immediatamente riconoscibile e  diverso  da  gli altri , ma non dominante, non preferibile.Caro Roberto Vecchioni, come  distinguere è cosa giusta, anzi santa, dividere invece non lo è. Dividere è il peggio che mi augurerei per questa Europa come per il resto del mondo, è la strada sicura per la guerra, che lei chiama orwellianamente pace. A questo, dunque, serve la «nostra cultura»? 


Mentre finivo di scrive di getto questo post leggo la critiche di Soumaila Diawara e di Osservatorio Italiano sul Neoliberalismo che riassumono  insieme a    quanto hanno detto Daniela  Tuscano & Marina Terragni nel post : << Daje guerrieri !! >>  pubblicato ieri  su  questo blog   questo mio sfogo


[...]Questa è una visione profondamente eurocentrica della cultura. Trovo che la tua risposta sia una sintesi perfetta di un principio fondamentale: la cultura è universale.La letteratura, come ogni forma d’arte, appartiene all’umanità intera, non a una singola civiltà. Limitarsi a considerare la grandezza culturale solo attraverso nomi occidentali significa ignorare la vastità della produzione intellettuale mondiale. Come si può non citare i giganti della letteratura russa, araba, africana, asiatica o latinoamericana? È proprio questa diversità a rendere ricco il pensiero umano.Se guardiamo alla storia, molte idee che hanno plasmato il pensiero europeo sono nate dall’incontro con altre culture. La filosofia greca stessa è stata profondamente influenzata dai saperi egiziani e mesopotamici. Il Rinascimento, che Vecchioni probabilmente considera un apice della cultura europea, non sarebbe esistito senza la trasmissione del sapere arabo e persiano.La letteratura e l’arte non possono essere racchiuse in classifiche gerarchiche basate su confini geografici o etnici. Chiunque abbia letto Gibran sa che la poesia non ha patria. Chiunque abbia attraversato le pagine di Achebe o Soyinka sa che la letteratura africana possiede la stessa potenza evocativa di qualsiasi altra tradizione.L’idea che “gli altri” non abbiano cultura non è solo falsa, ma anche pericolosa: legittima una divisione tra chi si considera superiore e chi viene visto come inferiore. E nella storia, questo tipo di pensiero ha sempre portato a discriminazione, colonialismo e oppressione.Chi ama davvero la letteratura sa che essa è un dialogo aperto tra civiltà. E se la cultura deve essere uno strumento di unione, allora discorsi come quello di Vecchioni vanno contrastati con forza.


La piazza europeista di ieri 15 marzo ha espresso una vocazione guerrafondaia subdola e celata, e quindi ancora più pericolosa. Al di là della presenza delle bandiere ucraine, che ormai sono un fattore di cattivo gusto presente in ogni evento “europeista” - l’Ucraina degli ultimi 10 anni, quella che è finita nella guerra civile prima e nella guerra contro la Russia poi, non rispetta mezzo requisito di democrazia e Stato di diritto per poter accedere all’Unione Europea -, non sono state infatti pronunciate parole esplicitamente belligeranti - e d’altra parte, mica gli organizzatori sono scemi.
Incredibilmente - o forse no, dato che gli “intellettuali” stipendiati dalla Rai sono oggi la maggiore rappresentazione del conformismo politico-culturale italiano - è il discorso di un intellettuale, Vecchioni, e non quello di un politico, a darci il riassunto migliore di questa subdola e pericolosissima forma di vocazione belligerante.
Voglio soffermarmi su due aspetti del breve discorso di Vecchioni. Breve, ma particolarmente esemplificativo.
1. La differenza tra pace e pacifismo, per fare la solita sparata contro i “pacifinti” che, pur un puro gusto orrido dell’assenza di conflitto, sarebbero disposti ad accettare “qualsiasi pace” anche “non giusta”.
2. L’esaltazione della cultura europea, con la sciorinatura dell’elenco degli artisti e dei pensatori del passato, che non avrebbe uguali all’estero (“gli altri tutte queste cose mica ce l’hanno”).
Vale la pena commentare questi due punti insieme, perché sono sintomo della stessa vocazione che si può definire “suprematista”, che d’altronde è parte del patrimonio culturale occidentale esattamente come il metodo scientifico, l’arte neoclassica, l’illuminismo, la democrazia, et cetera - ed è, a differenza di tanti altri valori, un principio culturale “bipartisan” nelle tradizioni politiche occidentali: lo troviamo nel nazifascismo con il razzismo e il colonialismo, come anche nella vocazione liberal-progressista dell’esportazione di libertà e democrazia con le bombe “per il bene degli altri popoli”.
Ha fatto bene Vecchioni a sottolineare la differenza tra pace e pacifismo, perché questo permette a noi presunti “pacifinti” di sottolineare un aspetto cruciale del pacifismo vero: l’attitudine alla sistematica valutazione degli interessi altrui, alla cooperazione, al tentativo di non applicare la logica dei doppi standard, in altri termini: la ricerca costante della giustizia nelle relazioni, sia tra individui che tra popoli e Stati. È una vocazione intrinsecamente anti-imperialista, che va di pari passo con il principio universalistico secondo i parametri e criteri che applichiamo a noi, li applichiamo anche agli altri, e viceversa: il pacifismo reale è l’esatto contrario della linea politico-culturale che l’Occidente ha avuto nel corso dei decenni, anche in riferimento alla Russia, e cioè “noi ci espandiamo come e quanto vogliamo, perché lo facciamo per l’affermazione del Bene nel mondo, e se gli altri si permettono di reagire, allora dobbiamo affermare che c’è un aggressore, gli altri, e un aggredito, noi”.
Il pacifismo reale, in altri termini, oltre a denunciare il groviglio di materialissimi e cinici interessi economici di ristrette oligarchie dietro alle belle parole sulla civiltà e sui diritti che si diffondono nel mondo, per quanto si debba accompagnare all’orgoglio per la storia culturale europea e “occidentale” più in generale, rifiuta proprio l’idea suprematistica che l’Occidente abbia una qualche forma di superiorità rispetto alle altre culture e civiltà del mondo, un’idea che prima o poi porterà proprio alla negazione della pace perché è uno dei mezzi più potenti per poter dire “noi, in quanto superiori, abbiamo il diritto di affermare la nostra volontà sugli inferiori; noi abbiamo diritto a fare cose che gli altri, invece, non sono legittimati a fare”. L’imperialismo va a braccetto con il suprematismo; la diffusione di una esplicita o implicita mentalità suprematistica nella testa della “gente comune” è tra le condizioni di possibilità del colonialismo e delle politiche imperalistiche.
Rispetto a questo pacifismo reale, al contempo universalista (“i criteri che applichiamo a noi, li applichiamo anche agli altri”, “dobbiamo ispirare le relazioni tra persone e popoli all’idea della giustizia e del bilanciamento tra interessi”) e relativista (“non ci sono civiltà superiori, ma solo differenti a causa di sviluppi storici diversi”), l’idea di pace che il Vecchioni gli contrappone si rivela, come al solito, una forma di affermazione unilaterale della volontà di una delle due parti: cosa che avviene ogni volta che nelle relazioni, sia tra persone che tra Stati, si pensa di poter agire senza considerare la volontà e gli interessi altrui, e si finisce quindi per arrivare agli schiaffi o alla guerra - come avvenuto con l’allargamento ad est della Nato, in violazione di ogni richiesta e posizione della Russia, da cui la guerra in Ucraina. Hai voglia, poi, a chiamare la pace da ottenere “giusta”: negato l’impianto universalistico del pacifismo reale, negato l’altro poiché inferiore a noi che siamo la civiltà superiore che ha diritto di imporre la propria volontà senza che l’altro abbia alcuna legittimità nella risposta, non resta che il conflitto e a quel punto si è superata ogni possibilità di affermazione di qualcosa di “giusto”.
Senza pacifismo reale, quello rifiutato dai Vecchioni & suprematisti liberal-progressisti belligeranti vari, non c’è alcuna forma di “pace giusta” possibile. All’interno dell’impianto politico-culturale suprematistico ben esemplificato dal discorso di Vecchioni, l’esaltazione della cultura europea ed “occidentale”, che è senza dubbio qualcosa da difendere e di cui andare orgogliosi, diventa una pericolosissima forma di fierezza che riempie il cuore dei guerrieri desiderati da Scurati, altro intellettuale prestatosi alla cultura della guerra che ritorna in Europa, e che spinge l’esercito del Bene contro i nemici. È il servizio peggiore che si possa fare alla tradizione culturale europea, usarla quale combustibile per alimentare il fuoco della guerra.


14.2.25

i pacifinti Noa e Mira Awad deturpano per san remo 2025 Immagine di J. Lennon

Non fare di me un idolo mi brucerò, se divento un megafono mi incepperò”.(  lindo  ferretti )  




 discutendo mentre  pulivamo le  rose      con mio  padre  su    San remo  mi  ha  consigliato  ( cosa   che  sono  andato a fare   )     di leggermi   questi post   

Una, Noa, è effettivamente israeliana doc, infatti i figli sono dediti a servire l'esercito di occupazione. Quello che per mettere fine al conflitto fa briciole di qualunque cosa odori di Palestina. Bambini inclusi. Insomma, una ambasciatrice di pace quantomeno bizzarra. Cantante che, nemmeno troppo tempo fa, ebbe modo di definire, quello del suo paese, come “esercito dell'amore”. Me cojoni, pensa un po’ se fosse stato dell'odio. L'altra, poi, è Palestinese non meno di quanto Trump adori i poveri. Talmente palestinese che già nel 2009 rappresentava Israele all’Eurovision e, si sa, Tel Aviv notoriamente sceglie le proprie icone da spedire in giro per il pianeta attingendo dal popolo a cui nel frattempo nega la vita. Mira Awad, il suo nome, è nata in un villaggio druso nel nord di Israele. Ah, ecco. I drusi, invisi ai musulmani e viceversa, sono fedeli servitori dello stato israeliano e, ovviamente, anche delle forze armate per le quali prestano tre anni come riservisti e, sebbene non fosse necessario

 news  confermata      dall'editoriale  di  Lutazzi   su il  fatto  quotidiano d'oggi   


CON “IMAGINE” A SANREMO HANNO VOLUTO CANCELLARE L’URLO DI GHALI DEL 2024

E ora, per la serie “Imagine there’s no hasbara”,

Cla aro Daniele, Noa e Mira Awad hanno cantato Imagine sul palco di Sanremo. La sola idea era raccapricciante: a Gaza c’è una pulizia etnica in corso, ovvero carnefici e vittime, non una guerra. Poi, a parte che Noa cantò per i soldati Idf in partenza per Gaza, e che Mira con lei rappresentò Israele all’eurovision 2009, hanno cambiato pure il testo. “Immagina che non ci siano minacce alla mia sicurezza”, “vivere in sicurezza”: sono frasi di Netanyahu. Questa è hasbara, propaganda sionista. L’onta di Ghali (“Stop al genocidio”) doveva essere cancellata e l’ hanno fatto. Alla faccia del Sanremo non politicizzato! (Pino S.). Il commento migliore sull’episodio vergognoso è quello di Nabil Bey, docente di Storia della musica araba, cantautore, fondatore dei Radiodervish: “Quando l’arte smette di essere voce di verità e si trasforma in un ingranaggio ben oliato della propaganda, diventa il più abietto degli strumenti di manipolazione. Diventa un palcoscenico di ipocrisia, un’operazione di maquillage per coprire le macerie e il sangue con un velo di retorica pacificatrice. Sanremo, con la sua platea di milioni di spettatori, non è solo un festival musicale: è una vetrina, un riflettore acceso su ciò che il sistema vuole rendere accettabile, su ciò che vuole far digerire all’opinione pubblica. Quando sullo stesso palco salgono due artiste provenienti da parti in conflitto, senza che il contesto venga chiarito, senza che venga nominato l’elefante nella stanza – ovvero che si tratta di un genocidio, di un’aggressione coloniale, di un crimine che si consuma ogni giorno sotto gli occhi del mondo –, allora quell’esibizione non è più arte, ma un atto osceno di rimozione collettiva. È un’operazione di marketing emozionale che serve solo a narcotizzare le coscienze, a suggerire che ‘siamo tutti uguali’, che il dolore è simmetrico, che la violenza è una questione astratta e non il risultato di un sistema di dominio, oppressione e apartheid. Quando l’arte diventa un’arma di distrazione di massa, il suo scopo non è più quello di elevare la coscienza, ma di svuotare il senso delle parole, di neutralizzare il conflitto tra oppressore e oppresso, di confondere la vittima con il carnefice. Non è un inno alla pace, ma un atto di complicità con il potere. È la stessa logica che negli anni ha prodotto iniziative pseudo-culturali, alle quali avevo sinceramente creduto, per addolcire l’immagine di regimi oppressivi, per spacciare una parità che non esiste, per farci credere che la soluzione sia nel ‘dialogo’ a condizione del più forte, mentre le bombe continuavano a cadere su Gaza, mentre l’occupazione proseguiva indisturbata, mentre l’apartheid si intensificava a livelli di inaudita brutalità. No, non è arte. È propaganda. È una messinscena macabra dove le vittime hanno già perso due volte: una sotto le bombe e l’altra sotto il silenzio complice di chi preferisce la favola della riconciliazione alla verità del colonialismo”.

Ieri ho ucciso mio marito percuotendolo a più riprese con la sculturina di Giacometti che teniamo in salotto. (Un bronzo che aveva un grande valore. E tornerà ad averlo, dopo che l’avrò raddrizzato). Nessuno mi ha scoperto e mi sento benissimo. Ha finito di soffocarmi. Ha finito di mettermi sotto i piedi. D’ora in poi, lo giuro, non sposerò più nessuno che abbia un corpo. Trascorrerò il resto dei miei giorni in California, ad abbronzarmi e a fare l’amore con le squadre di beach volley. Mi sentirò in colpa? (Anita P.). Se succedesse, pensa ai crimini di Netanyahu: in confronto, il tuo sparisce. E perché la California, quando presto ci sarà la riviera di Gaza a tua disposizione?


  e     poi   da  altre ricerche in sui social   sull''ipocrita    duetto   di  Noa  e   di Mira Awad . E come san Tommaso sono andato a verificare ed a cercare conferme . Ed ecco coasa ho trovato


Copio da Emme Pi, tramite Marisa Ziparo e ringrazio entrambi
RAI, toccare il fondo e proseguire scavando
La televisione di regime ha toccato ieri sera vette inesplorate di asservimento padronale. Non che sia una novità, ma nell'occasione ha probabilmente dato il meglio di sé. A Sanremo, e già ci sarebbe da ridire così, è il momento degli ospiti. Internazionali, dicono, che internazionali non sono. Il conduttore, quello che nella conferenza stampa della vigilia si è detto antifascista (che fa un sacco figo tra la gente che piace) e nell'accezione woke-macchiettistica imperante probabilmente lo è davvero, senza fare un plissé introduce sul palco quelle che il mainstream corrotto si è affrettato a definire “un’israeliana e una palestinese”. E mentre ai gonzi della pace guerreggiata scende una lacrima all'idea che le due sedicenti pacifiste canteranno “Imagine” di Lennon, la loro vita gli sbatte in faccia senza ambiguità la messa in scena di un potere impegnato con ogni mezzo nella normalizzazione del genocidio in atto. Una, Noa, è effettivamente israeliana doc, infatti i figli sono dediti a servire l'esercito di occupazione. Quello che per mettere fine al conflitto fa briciole di qualunque cosa odori di Palestina. Bambini inclusi. Insomma, una ambasciatrice di pace quantomeno bizzarra. Cantante che, nemmeno troppo tempo fa, ebbe modo di definire, quello del suo paese, come “esercito dell'amore”. Me cojoni, pensa un po’ se fosse stato dell'odio. L'altra, poi, è Palestinese non meno di quanto Trump adori i poveri. Talmente palestinese che già nel 2009 rappresentava Israele all’Eurovision e, si sa, Tel Aviv notoriamente sceglie le proprie icone da spedire in giro per il pianeta attingendo dal popolo a cui nel frattempo nega la vita. Mira Awad, il suo nome, è nata in un villaggio druso nel nord di Israele. Ah, ecco. I drusi, invisi ai musulmani e viceversa, sono fedeli servitori dello stato israeliano e, ovviamente, anche delle forze armate per le quali prestano tre anni come riservisti e, sebbene non fosse necessario, se n'è avuta conferma anche all'indomani del famigerato 7 ottobre con l’impennata del numero dei soldati drusi impegnati nel massacro di Gaza. Che dire, una comunità, quella della cantante, che ha a cuore senza riserve le sorti della Palestina. Il bello, si fa per dire, è che gli israeliani li detestano epidermicamente e li sfruttano. Come manovalanza bellica, appunto, e come specchietto per le allodole, millantando una inesistente inclusività. E non si capisce se sia peggio chi lo fa o chi si presta al teatrino da istituto Luce. Ma tant'è che per la maggioranza bulgara dei nostri connazionali la buffonata di ieri sera è il trionfo del bene. Così, mentre il servizio pubblico si vanta di promuovere la pace con il supporto pure del Papa, dà il fianco spudoratamente all’occupazione nel momento di massimo ascolto, tutto per compiacere i padroni di Washington e i loro sgherri.
Mira Awad, peraltro, è la stessa che già in tempi non sospetti attaccò duramente Roger Waters per il suo impegno pubblico nella causa palestinese, accusandolo di inasprire i toni a scapito del dialogo. Dialogo con i cacciabombardieri, forse. In soldoni, come vendere l'anima sulla pelle di un popolo martoriato che si finge di rappresentare. Insomma, l'Italia vassalla non perde mai l'occasione di genuflettersi al cospetto dei reali governanti sovranazionali e lo fa, ogni volta, con inesausta e rinnovata fantasia. Chi cazzo se ne frega se per ottemperare a un diktat si cavalca l'onda di un genocidio perletrato in diretta streaming con la coscienza buttata nel cesso. Tanto i buoni siamo sempre noi.

Un occasione per poter lanciare un vero messaggio di pace e coesistenza andato a vuoto

Destinazioni lontanissime da raggiungere a velocità moderate: viaggiare in scooter è un’esperienza unica, diversa da tutte le altre

in sottofondo Vespa 50 special - Cesare Cremoni Culture Club - Karma Chameleon