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21.7.25

VOLEVO UCCIDERE TUTTI MA POI HO PERDONATO . LA STORIA DELL'EX SEQUESTRATO GIOVANNI GLORIO

  DA 

GIOVANNINO GLORIO

«Mi hanno chiuso in un baule, bendato e incatenato», rievoca il protagonista della nostra storia. «Salvo grazie all'agente segreto Nicola Calipari, dopo la liberazione coltivavo un'ossessione omicida». «Ora, finalmente, ho fatto pace con me stesso»

Rapito a 14 anni: volevo uccidere tutti, ho perdonato

«Avevo solo 14 anni quando fui rapito. E in quel baule dove mi rinchiusero, senza ossigeno e con gli occhi coperti, erano rimasti tutti i miei fantasmi. Mi ci misero con la forza, fu un male sia fisico sia mentale. Tanto che, nella mia testa, quella cosa è poi diventata la mia prigione per 31 anni e non solo per quei terribili 31 giorni». Giovannino Glorio riparte da quel drammatico 16 novembre 1993. I sequestratori entrarono nell’abitazione romana dei genitori, li presero a calci e pugni e «io mi sono ritrovato con la faccia per terra, legato».

 Il padre, Giovanni, era un facoltoso industriale nel settore cosmetico chimico. Pagò un riscatto di 2 miliardi e 200 milioni di lire per riavere il figlio amatissimo, nato dopo la perdita a soli 6 anni di un maschietto, per leucemia fulminante. Glorio, 45 anni e un lavoro nel settore immobiliare, ha ora scritto un libro autoprodotto: Libero come il vento (su Amazon), «perché oggi questo sono». «Paradossalmente, quando mi liberarono cominciò il mio periodo buio. Ho iniziato a sentire un brivido di rancore che mi percorreva la schiena. Odiavo le persone, anche quelle che mi amavano, e odiavo me stesso».

È comprensibile dopo il trauma terribile che le era toccato.

«Tutto ha avuto inizio dopo un incidente in auto. Avevo 22 anni, ho affrontato due interventi al volto. Quando sono uscito dall’ospedale sentivo addosso un’ossessione omicida, una rabbia incontrollata. Avevo realizzato che la mia vita stava andando a rotoli, sia sul piano sentimentale sia universitario: non avevo dato neanche un esame. Così passavo ore a consultare riviste di armi, non uscivo di casa, non rispondevo al telefono. Pianificavo il modo migliore per uccidere. Volevo farmi giustizia e il rancore mi

stava intossicando». 
Quando sentì il primo istinto omicida?

«A scuola. C’era un bullo che mi perseguitava con violenza e, ogni giorno, pretendeva che gli pagassi la colazione

umiliandomi. Alla fine reagii dandogli una testata in pieno volto. Fui sospeso. In quel momento il mio odio si era materializzato».

Giovannino, come l’hanno trattata durante il sequestro?

«Ero sempre incatenato con la benda sugli occhi, in una stanza buia. Ogni tanto mi buttavano un panino sul letto per mangiare. Quando dovevo fare i bisogni, mi allungavano le catene così da poter arrivare al bagno chimico lì vicino. Mi sono trovato anche con una pistola alla tempia, in un video messaggio destinato a mio padre: il riscatto chiesto inizialmente era di 5 miliardi di lire, ma lui non ne aveva. Allora s’innervosirono, volevano tagliarmi un orecchio».

Le trattative diventarono complicate.

«Per arrivare ad arrestare i malviventi, il magistrato fece inserire una microspia nella valigetta con i soldi. Ma i rapitori costrinsero mio padre a buttare giù da un ponte la valigetta e così la microspia si ruppe. Quando i sequestratori se ne accorsero, iniziarono a minacciarmi di morte. E a minacciare i miei familiari. Allora intervenne l’agente segreto Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq nel tentativo di riportare a casa la giornalista Giuliana Sgrena, ndr): è l’uomo che mi ha salvato».

È rimasto in contatto con Calipari dopo la liberazione?

«Sì. Veniva a trovarmi, s’interessava a come stessi: aveva capito che qualcosa non andava. È stato molto protettivo».

Nelle sue pagine parla dei fantasmi del passato che per tanto tempo l'hanno tenuta prigioniero.

«Da quasi un anno vado dallo psicologo che è stato fondamentale per scrivere questo libro: dovevo tirare fuori i miei traumi. Lui mi ha detto: “Chiamali con un nome”. E io: “Sono i Bastardi Infami”. “Va bene”, mi ha risposto. Piano piano, giorno dopo giorno, mi accorgevo che non abitavano più nella mia testa. E finalmente sono uscito dal mio passato, dal baule dei rapitori».

Ma come ha potuto superare l’ossessione omicida?

«Mi ha aiutato uno sguardo. Durante

l’università, tutti i giorni facevo colazione nello stesso bar. E fissando lo specchio dietro al bancone, vedevo alle mie spalle sempre un uomo che mi osservava in silenzio. Ogni sacrosanta mattina. Alla fine l’ho riconosciuto: quelli erano gli occhi del mio carceriere e il suo era uno sguardo che chiedeva perdono. Non voleva altro. Poi mi sono ricordato che durante la prigionia aveva mostrato un po’ di compassione per me: ero pur sempre un ragazzino».

E lei lo ha perdonato?

«Sì, ho perdonato tutti. Soprattutto lui. Ma prima di arrivare al perdono, parola fino ad allora non contemplata nel mio vocabolario, ho compiuto errori nella vita sentimentale, professionale e con i miei figli. L’odio m’impediva di vedere tutto il bello della vita».

Lei è tre volte padre. Nel 2019, i fantasmi l’hanno portata anche a perdere la responsabilità genitoriale.

«Me l’hanno tolta a causa di un gesto di rabbia. Per due anni e mezzo sono stato allontanato dai miei figli e nei primi dieci mesi non li ho potuti vedere. Poi li incontravo una volta a settimana in una stanza, con un assistente sociale».

Che rapporto ha oggi con i suoi figli?

«Condividiamo una bellissima intesa e spesso mi chiedono del mio passato. Io sono cauto. Hanno 17, 14 e 12 anni. Vorrei che crescessero liberi da ogni emozione negativa e sicuri di se stessi. Consapevoli che non si può vivere rinchiusi in un baule».

Com’è riuscito a conquistare la libertà che dà il titolo al suo libro?

«Guardandomi dentro, cercando di capire chi fossi e dove avessi sbagliato, perché ne ho sbagliate parecchie».

Ma lei era condizionato da un trauma, non può farsene una colpa.

«Dovevo accorgermene prima. Ho sbagliato tanto nel mio matrimonio, con lei che era una surfista e mi ha trasmesso l’amore per il mare e il vento, e anche nella mia seconda relazione (con la nota attrice Simona Cavallari, ndr). Sotto il profilo sentimentale sono stato un disastro. In queste donne vedevo una possibile soluzione ai miei traumi, come se dovessero salvarmi dallae sofferenze. Ma l’amore non è questo. Ero una persona irrisolta per amare».

Quanto tempo è durata la sua relazione con Simona Cavallari?

«Quattro anni, fino a giugno 2023. E dopo quattro mesi dal nostro incontro, convivevamo già. Per Simona esistevo solo io, mi ha dato tantissimo. Ma alla fine non riuscivo più ad andare d’accordo con lei. Non ero capace di valorizzare quello che provava per me. È finita così. Non ci siamo più visti né sentiti».

Un giorno, improvvisamente, è andato via di casa per raggiungere Assisi.

«Lì ho cominciato a scoprire la fede. Ho camminato scalzo. Ho passato la notte al freddo, in un angolo della città, assieme a un altro pellegrino che mi ascoltava e raccomandava di cambiare completamente l’approccio alla vita. Ora, nella chiesa che frequento al Divino Amore, c’è un sacerdote che parla spesso di “perdono”. Vado ad ascoltarlo due volte alla settimana e mi si è aperta l'anima. È quello di cui avevo bisogno. Il mondo ora lo vedo a forma di cuore e con tutti i suoi colori. Sono diventato veramente libero solo quando ho imparato a perdonare».

L’acqua, il vento del suo libro. Lei pratica il wing-foil, una disciplina vicina al surf con la tavola che si alza in volo grazie a una vela.

«È una sensazione meravigliosa di libertà, quasi mistica. Con i miei figli stiamo per partire in camper, direzione Sardegna: andiamo a prendere il vento».

Mi tolga una curiosità, Giovannino. Il libro finisce con una «Grazie a Lei perché ha messo fine al mio ultimo brivido d’odio». Chi è questa persona?

«Simona. Lei con la L maiuscola. Mi ha aiutato a rinascere e spero che con questa intervista le arrivi il mio pensiero».

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