2.11.11

Autostrada


La mia vita è tutta un rumore. Un rombo sordo. Una fuga dentro tunnel bui, affamati budelli di balena. Non si ha tempo di assaporarli, i colori. E quando solo ti fermi un attimo, e ti piovono addosso tutti assieme, ti senti aprire il petto in due, e il pianto t'invade. Come accadeva a mio padre, in Kossovo. "Il topo", lo chiamavano. Scuro scuro, ha avuto un figlio chiaro come me. Capelli gialli e ispidi, spine tra la paglia. "Il topo" lavorava in una cava e sterrava sabbia e sabbia, accecante e vetrosa. Poi la sabbia se l'è inghiottito. Di piangerlo non ho avuto tempo. Ancora rumore. Spari, bombe, malta, informità granulosa, questa era la nostra vita. Sono scappato dalla guerra e mi sono ritrovato su un camion. Trasporto ogni cosa, o forse niente. Solo le palpebre, ogni tanto, si chiudono lente, e allora rivedo un paio d'impannate verdi, un riposante orticello dietro casa, una sposa bambina dalla gonna a quadri. Mentre m'inforco tra le gallerie dei monti, ricordo quella prima notte, c'erano le stelle e le carrube dolci. Anche allora era buio, ma lo penetravo con calma e rassegnazione, quasi pregando, vicino all'abito splendente della cerimonia. I miei attimi di silenzio, di lenta straordinaria attesa.

Tornerò, un giorno. Dalla sposa sdraiata là, sulla panchina dove rubava il sole. Da un giovane carrubo con le gambette sghembe, stessi capelli gialli e il sorriso fuligginoso di mio padre. Frutto di quell'attimo di silenzio, di quella notte più lunga di mille autostrade. Che mi ha solo intravisto dalla nebbia di occhi barbaglianti, e che ora, dopo quasi otto anni, deve ancora scoprirmi. Tornerò, un giorno, lasciandomi dietro il chiasso informe. E saremo felici. Forse.

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