Senza nome

Quel giorno proprio non ne poteva più. Fradicio fino al midollo per le cateratte che mai e poi mai volevano richiudersi. Scuro tra gli alberi scuri, fra le foglie che sembravano anch'esse liquefarsi come gelido piombo. Pioveva, e pioveva, e pioveva. Era la sua vita, si avvicinava il momento in cui non avrebbe più trovato, tra i solchi abbandonati o tra i rami fioriti, una briciola, un seme, un insetto di cui cibarsi. Lui, uno dei tanti passeri clandestini e al tempo stesso familiari in quel nugolo di comignoli, vegetazione, tombini e budelli che gli umani chiamano città.

Dalla scorsa estate lui, lo zingaro volante, aveva un appuntamento fisso sul balcone di alcuni umani. Sebbene sapesse che di loro non ci si poteva fidare, vi si avventurava egualmente. Il gusto del brivido, la fame, la consapevolezza della propria velocità gli avevano infuso un coraggio guascone. Anche perché lì aveva conosciuto due nuovi amici.

Alati come lui, ma con un nome. Cipria e Fiammetta, una coppia di canarini, maschio e femmina. Quando gli avevano chiesto quale fosse il suo, non aveva capito.

Cipria e Fiammetta vivevano prigionieri. In una strana scatola che a loro sembrava confortevole e ampia. In effetti, il vitto era abbondante; l'avevano invitato diverse volte a condividerlo, e lo straniero non si era fatto pregare. Beccuzzava con piacere sia i semi di canapa, sia la succulenta spiga di panico sporgente dalla gabbia. E Fiammetta, col suo sguardo vezzoso e rosato, gli piaceva proprio. Non avrebbe mai offeso il suo ospite, si capisce. Ma si era accorto che il suo fascino randagio aveva colpito la bella reclusa. Ma il nome, che significava avere un nome?

In seguito, capì. Il nome era la prigione.

Cipria e Fiammetta! Sillabe astruse, aliene, impossibili da riprodurre. Loro preferivano modulare trilli, in quel modo leggiadro che anche lui gl'invidiava. Il loro canto oltrepassava le grate della cella, echeggiava nei cieli superni, invocava fratelli sconosciuti, immemore e remoto, limpido e aereo come le ardimentose virate dello straniero. La voce erano le ali che qualcuno aveva loro tarpato, e che adesso gli ricadevano sui fianchi, candide e vane. Il nome li possedeva e li delimitava, perché era un nome umano, scelto dagli umani.

Uh, gli umani! A questa parola, un frizzo più gelido del rigore invernale gli sibilò attraverso le ossa cave.

Eppure, gli aveva spiegato Fiammetta, a loro non mancava nulla: cibo sempre abbondante e di ottima qualità, pulizia, tepore, persino un bagnetto tiepido tutti i giorni. E, d'estate, lunghi tragitti su un oggetto meccanico e tenebroso, un po' terrificante, ma, alla fine, ecco un altro balcone, un altro giardino, un nuovo sole, l'aria marina.
Lo zingaro crollò il capo bruno. Lui conosceva sia il sole dei tramonti urbani sia le albe del Madagascar, e la brezza marina lo conduceva tra eriche e corbezzoli e nuove avventure, trascinato e folle, e aveva spezzato cuori, alimentato speranze, disseminato figli, fuggito paurosi animali. Cipria e Fiammetta vivevano di balcone in balcone, lui era preda dell'aria, cioè di nessuno. Perché non aveva nome.
Certo, però... quella volta, il vento e l'acqua s'erano scatenati come un immenso drago bigiognolo. E i suoi amici lo aspettavano, non più sul balcone, ma nella stanza accanto, al riparo, asciutti e soffici come un nido vaporoso. Fiammetta era più seducente che mai. Li raggiunse. Sorrise. Becchettò. Fece appena in tempo ad avvertire uno strano, circonfuso calore di legno e di spigo.

Ma un'ombra lunga apparve. Un'ombra umana. Lo straniero ebbe un ansito. - Non scappare! - supplicò Fiammetta - Ci vuole bene, ci porta da mangiare...

Ma lui le lanciò un'occhiata triste e fulminea. Il sole, fuori, tornava a rischiarare l'orizzonte. Era nato senza nome, senza patria, senza cibo. Ladro di vita, la vita lo attraversava tutto.

In un attimo, fu di nuovo nell'aria di cristallo. Scappa, fuggi, e salva qualche cosa in te.

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