Un'eco. No, un ruggito. Lontano e possente. Se
n'è andato a settant'anni, non giovane, ma nemmeno troppo vecchio, poco
più che attempato, si direbbe oggi con un eufemismo che gli farebbe
orrore. Carlo Monni s'è portato via un'Italia sanguigna e primordiale.
Un'Italia sepolta, composta di mura, crani, sangui, frutti e bestemmie.
Un'Italia terragna e pagana, sempre minore, ribollente, come il cuore
metallico dei palloni da basket. Un'Italia vernacola e arcimbolda.
Carlo non era colto. Era cultura. Coltivazione, campo. Magari riarso da
un sole implacabile. La incarnava in quel suo corpo a volte possente a
volte flaccido, talora Ercole, talaltra Bertoldo.
Monni era anima
perché corpo. Riassumeva tutto: la colta oscenità del Panormita e
l'atarassia dell'operaio frustrato, forse comunista, forse solo alla
ricerca d'un riscatto, d'un amore. In silenzio senza capire di fronte a
una storia più grande di lui. Che faceva forse l'amore qualche volta, ma
in fondo anelava alle donne sfuggenti con desiderio e rimpianto feroci.
E rifugiato suo malgrado fra le gonne ambigue della matriarca, come
splendidamente immortalato nel capolavoro dell'amico Benigni, che non è La vita è bella ma Berlinguer ti voglio bene. E poi naturalmente
Monicelli, Benvenuti, Virzì, L'uomo la bestia e la virtù e,
immancabile, Cecco Angiolieri. Ma consentitemi pure un ricordo magari
minore, certo non incidentale: il ruolo di manager-squalo nell'unico
film scritto e interpretato da Renato Zero, Ciao Nì: personaggio che
Monni rivestì con leggerezza e ironia, aprendo uno spiraglio (subito
ahimé chiuso) sulle potenzialità profondamente sovversive di certa arte e
musica popolari.
Carlo è sempre rimasto alla periferia della
notorietà, pur se tanti lo amavano. Pure qui in silenzio, per una sorta
di mistico pudore. Un fiore di campo, di quelli che adornavano
l'Etruria. Oggi al posto suo sorgono anonime autostrade, qualche
fast-food riempito di anonimi volti, evanescenze lisce e senza fine,
prive d'inizio, mai degne, quindi, di configgersi nella storia. Tutto è
stato bruciato. E non dal sole cocente, ma dalla cenere dell'amnesia.
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