dall'amica e compagna di viaggio Daniela Tuscano
In fondo, non ci sarebbe molto da commentare. I fatti sono li', lampanti. La conclusione, anche. Feroce quanto si vuole, disumana al massimo ma, purtroppo, né imprevedibile né sensazionale.
I soliti analisti riprendono la salmodia sulla comunità planetaria, che per Realpolitik si è mossa tardi e, allentata la tensione, ha abbandonato Reyhaneh al suo destino.
Sì, tutto vero. Com'è vero che il suo caso non provocherà alcuna rottura diplomatica fra Stati, e verrà presto, già di fatto lo è, archiviato. Le rituali frasi inutilmente sdegnate e si volterà pagina. Poveraccia, le è andata male, amen.
Eppure qualcosa, o meglio qualcuno, è cambiato. Quel cambiamento si chiama Reyhaneh Jabbari. Appesa a una trave, "giustiziata" come in modo osceno si continua a ripetere, adesso è più viva e presente che mai.
È stata la morte a eternarla. Cioè il martirio. La testimonianza. Perché Reyhaneh, in quella giustizia che l'ha "giustiziata", aveva creduto. Perché alla fine, dopo un processo-farsa e sei anni di detenzione, ha rifiutato di ritrattare. Non ha barattato l'esistenza fisica col piatto di lenticchie della menzogna e della viltà. Le avevano "consigliato" d'inventarsi lo stupro per aver salva la vita. Ha risposto di no. Quante di noi ne sarebbero state capaci?
Reyhaneh sapeva che quella successiva non sarebbe stata vita. Avrebbe forse scapolato l'impiccagione ma non la vergogna, la solitudine, il ripudio di parenti e amici, la vendetta. Perché una donna stuprata, o comunque sospettata di esserlo, rimane pur sempre un disonore. Non una vittima da proteggere. Disonore. Merce scaduta. È sempre lei la colpevole. Rea d'essere ancora su questa terra, senza contare più nulla.
A Reyhaneh insomma si prospettava una sola alternativa: la morte. L'avrebbero eliminata se avesse subito la violenza in silenzio, l'hanno eliminata perché ha parlato.
Ci piace pensare l'abbia fatto perché ne aveva piene le scatole. Era stanca. Come Rosa Parks cui nella lontana estate del 1955 dolevano i piedi e si sedette in prima fila sull'autobus, fottendosene della paura e dimostrando l'imbecillità, prima ancora del razzismo, delle "leggi" allora vigenti.
È quella stanchezza a vincere ogni paura. Dietro quella stanchezza c'è un percorso. La cognizione della propria dignità. La coscienza di non essere un oggetto.
Per questo hanno voluto tacitarla. Reyhaneh non aveva accettato la sua condizione di "oggetto". E poco conta se abbia ucciso o no il proprio aguzzino. Se con lui avesse o no in precedenza intrecciato una relazione.
Non era Maria Goretti ma una donna con pregi e difetti, una giovane donna amante dei libri e della vita, che a un certo punto ha detto basta a una determinata situazione, nella quale non sappiamo - e NON IMPORTA SAPERLO - come fosse finita.
Non importa, anzi, importa moltissimo, non per lei, ma per l'anima del suo aggressore - un importante membro dell'intelligence iraniana -, che quest'ultimo sia stato pugnalato "mentre pregava". Stupro e preghiera, violenza e devozione: tutto corretto, tutto normale in una società dove il maschio è onnipotente e modella Dio a propria immagine e somiglianza.
Il maschilismo questo è: bestemmia contro Dio e la sua creazione. Venerazione del Male camuffata da pietà. E questi i suoi frutti. Nelle società dov'esso ha piena cittadinanza, e dov'era toccato vivere a Reyhaneh, si manifesta nella forma più virulenta. Ma, come radice d'ogni ingiustizia, razzismo e prepotenza, alligna ovunque.
I femminicidi in Italia, ad esempio, non sono opera di pazzi isolati ma il risultato d'un atavico disprezzo verso le donne divenuto mentalità comune. Siamo un Paese dove la Cassazione decreta impossibile lo stupro se una donna porta i jeans, dove la pena, già molto tenue, per il violentatore s'abbassa ulteriormente se la vittima-accusata non è più vergine. Foss'anche una ragazzina. Cercate sui libri a quando risale il nuovo diritto di famiglia. Fin quando è rimasto in vigore lo ius corrigendi. Quali le pene riservate agli adulteri e alle adultere. In quale anno lo stupro è stato dichiarato reato contro la persona e non contro la morale. Date un'occhiata ai programmi scolastici. Verificate lo spazio riservato a scrittrici, artiste, scienziate, religiose, politiche, attiviste. Guardate un programma televisivo, e non voglio scomodare i varietà "per famiglie" dove si dimenano fanciulle seminude a fianco di compunti conduttori supercoperti, né le inchieste voyeuristiche dei tranquilli pomeriggi casalinghi. No, parlo di quei bei quiz preserali dove il presentatore perbene non manca mai, davanti alla concorrente incinta, di sciorinare con un radioso sorriso il suo "Auguri e figli maschi!". Osservate i cartelloni pubblicitari.
Senza quindi togliere responsabilità alcuna alla "cultura" dell'attuale Iran e d'altri paesi dove le donne sono crudelmente e legalmente oppresse, è fuorviante, e intellettualmente disonesto, limitarsi a condannare a parole, di volta in volta, il fondamentalismo islamico, l'inerzia della comunità internazionale, ecc. Questa è mera autoassoluzione, modo parziale, furbesco (e maschile) d'aggirare il problema, nascondendo i motivi profondi d'un odio MONDIALE e MILLENARIO.
Ma l'odio non trionferà. E se oggi piangiamo la perdita fisica di Reyhaneh, auspicando sia l'ultima - per ragioni diverse, ma eguale certezza del proprio valore di persona e di fede, rischia la stessa sorte la pachistana Asia Bibi - la sua vicenda c'infonde anche una grande speranza. La speranza che non potranno mai più sottometterci e zittirci. Se anche da luoghi in cui il maschio crudamente impera si levano echi di resistenza, significa che la trasformazione è inarrestabile, che un sistema decrepito e inumano è stato colpito al cuore e nessun cappio, lapidazione, lama sul collo ne impedirà la rovina. Non si può imprigionare il vento. Sta a tutte noi, frattanto, soffiare più forte. Unite.
© Daniela Tuscano
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