22.10.14

La Sardegna nel cuore di De André di matteo tassinari


Tenuta dell'Agnata di Fabrizio De André 
De Andrè:
più sardo dei sardi
Macondo, luogo ideale per Gabriel Garzia Marquez

Faber,
il contadino

di Matteo Tassinari

Ho sempre  pensato che l’uomo, più  della donna, viva un bisogno più intenso: quello di avere nella propria memoria universale, un punto fermo dove ritirarsi all'uso, come fa il lupo nei momenti che vuole isolarsi dal gruppo per starsene da solo nella propria tana. Soprattutto quando questi intuisce che sta per vivere l’ultima porzione della sua vita o vede allorizzonte una buriana tsunamica e di sovente, questi luoghi, sono i posti della propria infanzia, ma anche no. Pavana per Guccini, Macondo per Marquez, Samarcanda per Vecchioni, Porto Empedocle per Camilleri e tanti altri.
Roberto Vecchioni, Luci a san Siro
La definisco,
in quanto non è che sia una patologia, ma una mia virata mentale che vale il momento che serve per dirla, poi basta: “nostalgia dell’innocenza”. Diceva di essere più sardo di Mario Segni e Francesco Cossiga: “che in Sardegna ci tornano due volte all’anno per 15 giorni”. Fabrizio De André, in Sardegna, precisamente nella tenuta dell’Agnata, in mezzo alle campagne di Tempio Pausania, ci viveva 8 mesi su 12 da circa 25 anni  assieme a Dori Ghezzi, con la quale ha trascorso tre di questi mesi proprio nel cuore (malato) della Sardegna, ha detta degli stessi sardi: LAnonima Sarda. Lui, quel periodo, lo chiamò “Hotel Supramonte”, una catena montuosa dell'entroterra sardo, nascondiglio dei più famosi latitanti dell’isola, dove Faber vide la neve col freddo, ma la sua maglia era per Dori, e non è romanticismo balordo.
Martino Moreddu (nella foto all'epoca del processo per il rapimento De Andrè-Ghezzi), presunto compagno di scorribande del cantante e poi noto per essere stato il "vivandiere" del sequestro. Poi
è stato assolto da ogni accusa perché il fatto non sussiste
L'odore del sangue
Intervistato il giorno dopo della liberazione di Faber e Dori da un gruppo di cronisti, De André tracciò un racconto pacato dellesperienza: “ci consentivano, a volte, di rimanere a lungo con le mani slegate e senza i cappucci che ci avevano messo in testa per non vedere alcun segno che poteva diventare di riferimento”. Ebbe parole di pietà per i suoi carcerieri: “Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai e se lo faranno, è per prendersi un colpo di pistola in testa. Dopo questa tragica esperienza vissuta con Dori, posso dire di conoscere meglio il popolo sardo”.
Questi     erano
i suoi     pensieri,
le sue conclusioni, come si trattasse di un fatto come un altro. Dopo il sequestro, in molti gli hanno chiesto perché decise di rimanere in Sardegna e se aveva paura del reiterarsi del rapimento: No, ormai non ci rapiscono più. Nessuno me l'ha detto a voce, ma gli occhi hanno parlato chiaro. Sono protetto ora! E guai a chi mi tocca!”, dice ridendo. Potrei urlare: GRANDE FABER! Il suo rapporto con la vita, natura, persone, codici di cultura e loro rispetto, una persona che intuiva lo stato d'animo, e non voglio fare di Faber una sorta di veggente, per carità e per essere precisi evitando fraintendimenti anche pelosi, non veri in breve, è che davvero, come nel caso di Princesa, il travestito a cui s'affezionò come amico, fino a fornirgli un'ingente parte della somma per l'operazione, il suo desiderio della vita, ora morta di aids da circa 10 anni.
L'aiutò     in altre situazioni,
 e spesso si vedevano e quando Princesa arrivava, Fabrizio De André, diceva ad alta voce: "Ed ecco arrivata la nostra principessa", da qui il titolo della stupenda canzone sul travestismo scritta con Ivano Fossati cosa che faceva con altre persone, ma non mi pare il caso di fare l'elenco delle buone azioni di De Andrè, lui per primo non lo accetterebbe pugnalandomi per come l'ho conosciuto. Si nutriva dell'intimità che creava il rapporto fra lui la persona, chiunque fosse e da qualsiasi parte del mondo arrivasse. Diceva che con la vita aveva un tipo d'approccio spiritualistico, cosa che in città non riusciva neanche ad immaginare, troppo distratto da tutto: “L’ambiente influisce sulla crescita di ogni persona, e a volte viene dato per scontato ciò che è sbagliato, come fare una stalla col tetto d'Eternit, ne ho viste. E’ da pazzi lasciare le pecore sotto l'Eternit nel luglio nuorese".
Fabrizio c'è, oltre il ricordo
Senza      Dori

non ce l'avrei        fatta
Il suo   essere quasi sardo, per così dire, non era il risultato del trascorrere del tempo di un’abitudine, né un effetto del trauma relativo al sequestro, ma semmai un percorso nel contempo lineare e tortuoso. A pagare il riscatto, 600 milioni di lire nel 1979, fu il padre, dirigente industriale, già braccio destro di Attilio Monti (quello che poi diventò il Gruppo Montedison del ravennate e dal sangue davvero romagnolo Raul Gardini). La presenza di Dori è stata fondamentale, - dice Fabrizio - affinché non succedessero fatti che avrebbero finalizzato molte cose, nel senso che avrei certamente cercato di scappare fossi stato solo. E' stata la mia salvezza e io la sua, per sua ammissione.
Hotel 
Supramonte

"E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome, ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme, ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano, cosa importa se sono caduto se sono lontano. Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole, perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole, ma dove dov'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore".
Faber, il giorno del processo
Ho paura di    Brassens

Durante il processo, fu rilevato il paradosso del cantautore anarchico rapito dai banditi verso cui simpatizzava e salvato dal capitale famigliare. Furono in pochi a sapere, allora, che De André Senior, come Fabrizio avrebbe raccontato all’amica Fernanda Pivano, era un mazziniano convinto, quindi non lontano da idee libertarie. Quando tornava a casa dalla Francia per i suoi impegni di lavoro come A.D. dell’Eridania, non dimenticava mai di portare a Fabrizio un disco di George Brassens, a cui piaceva non solo come cantante, ma era per lui un riferimento culturale, che non volle mai incontrare per paura di rimanerne deluso, questo è quello che diceva, ma io non ci credo. Credo più alla sua universale timidezza che lo immobilizzava, pur riuscendo sempre a trovare il modo brillante per uscire da situazioni imbarazzanti.
De Andrè durante il processo dove sembra irridere in faccia al giudice

Un    piede in terra
l’altro in      mare
Qualcosa di  simile è successo con la Sardegna. Tra De André e l’isola esisteva un sostrato comune, una comune concezione del mondo, come se l’antistatalismo “naturale” di De André (caratterialmente, oltre che ideologicamente anarchico) e quello storico della Barbagia si fossero ad un certo punto incontrati e avessero deciso di stringere un patto di ferro. Un’amicizia poi cementata dall’amore per le sughere e per il vino, per il granito, il pane, il mare e le vecchie leggende che ad ogni racconto s’infarcivano di ulteriori aneddoti. Un mondo che fai fatica a scoprire in corso Buenos Aires a Milano. Un idem sentire che neppure il sequestro cominciato il 27 agosto e finito il 22 dicembre 1979, riuscì a spezzare. Anzi, per certi versi, la rese ancora più radicato e forte il culto della Sardegna in Fabrizio, definendo quella sarda un’etnìa rivolta al futuro e rispettosa del loro passato. “Gente - diceva – che ama i bambini e rispetta i vecchi”. 
La Barbagia è una vasta regione montuosa della Sardegna centrale
che si estende sui fianchi del massiccio Gennargentu.

Li per circa 3 mesi, all'aperto, hanno vissuto Fabrizio e Dori


Vado a correggere
la       fortuna
Murales di De André Orgosolo Associazione Cuncordu
E    questo potrebbe far sorgere il sospetto d’un approccio romantico, l’approccio che può permettersi chi ha fama e soldi ed una splendida famiglia. Una specie di recupero barbaricino del mito del buon selvaggio. Il fatto è che De André in Sardegna si è sporcato le mani, rischiando forse troppo,  ha combattuto, durante i primi anni della tenuta Agnata con le normative agrarie ed i contributi Cee di cui poteva beneficiare in quanto coltivatore diretto.
Colui, che    per 
isottoscritto è
stato il maggiore poeta italiano del secolo scorso, il più grande distillatore di emozioni in versi, spesso si svegliava presto al mattino per dare mangimi e latte alle sue bestie. Questa immagine incantevole, oltre che seducente fino alla meraviglia, mi offre il senso della grande bellezza nel silenzio, da solo con i suoi animali da allevare e di cui era innamorato. Ognuno è fatto a modo suo, no? Ha letto decine di libri sulle tecniche di coltivazione e di allevamento, ha tentato di far quadrare i conti della sua azienda agricola, l’ha cresciuta, sviluppata e ingrandita. Se nel 1978 decise di cantare in pubblico alla Bussola Viareggio per la prima volta, fu proprio per i debiti accumulati a causa dell’azienda Agnata. Avrebbe potuto chiedere aiuto alla famiglia, ma non volle neanche sentire parlare di questa opzione troppo comoda: “Hanno già fatto troppo col sequestro e adesso gli vado a chiedere altri soldi perché ho l’azienda in difficoltà? No, non si può”.

Ad ogni concerto 
una bottiglia di whisky per cercare di sedare quel mostruoso batticuore e paura di ritrovarsi all’improvviso davanti a migliaia di persone che non aspettavano altro che ascoltare il cantautore più conosciuto, ma anche il più sconosciuto, vista la sua ritrosia, timidezza, riserbo, l’estrema paura di sbagliare, qualche accordo non acciuffato. Disse: “Se non era per l’Agnata ed i debiti, non so se mi sarei sbloccato, perché per me era un blocco cantare davanti a migliaia di volti oscurati e nessuno conosciuto, non era usuale per me. Sarebbe come prendere Toro Seduto e sbatterlo davanti ad un computer, che ci fa?”. Ma l’Agnata aveva bisogno di mangime e le bestie non potevano aspettare certo le date dei tour e le vacche volevano essere munte. Chiese un credito ad una banca, nell’arco di 5 anni lo liquidò e i trattori che zollavano la terra divennero cinque.
Fabrizio, Dori e la figlia Luvi nella stalla della tenuta


I Marinai di foresta
Dopo  il sequestro, De Andrè coniò la fuorviante “Hotel Supramonte”, mentre un poeta sardo, nuorese per giunta, Sebastiano Satta, definì i banditi “belli, feroci e prodi”. De André li definì, più sobriamente: “marinaio di foresta”, i latitanti della Barbagia che negli anni '70 erano quasi una decina. Poi collaborò alle indagini senza incertezze e si costituì parte civile, però solo contro i capi, i mandanti, quelli che non si sono sporcate le scarpe di fango, ma da Milano, ogni tanto facevano un salto all’Hotel Supramonte per vedere come andava il sequestro e non contro i gregari, che in pratica facevano la vita di Faber e Dori, freddo, sole, acqua, neve e disagi enormi come imboccare i due sequestrati che hanno tenuto quasi sempre un cappuccio in testa.
Fabrizio "tra" le sue mura
Il      Giorno
del    Giudizio
Ma c’è un altro Satta, un altro sardo che ha qualcosa in comune con Fabrizio De André: Salvatore Satta, insigne giurista, poi scrittore. Se De André vedeva nei racconti dei vecchi di Tempio qualcosa che gli faceva pensare a Gabriel Garcia Marquez, Satta nel suo “Giorno del giudizio”, ha descritto un sistema di valori e di rapporti che sembrano parlare col mondo di De André. “Il pastore appartiene alla dinamica della vita, il contadino alla statica. Nessuna legge può impedire al pastore di considerare la sua proprietà in tutto quello che l’occhio può abbracciare”. Ha detto De André parlando dei suoi sequestratori: “Era come se dicessero: a me non manca nulla ma perché mi metti sotto il naso la tua villa con piscina, il SUV, tutti con i Rolex ai polsi, valigie di Louis Vuitton e di fianco sempre pronto per partire con l’aereo privato?

I codici imposti
“Mi pare che sempre di più sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano”. (Fernanda Pivano, consegnando il Premio Lunezia 1997 a Smisurata preghiera). De André, giunto in Sardegna da contadino, è diventato pastore, sublimazione stupenda, soprattutto sul piano dell’immaginazione collettiva e la figura costantemente imprevedibile di Faber, come l'amico Gaber. Ha considerato “suo” quell’intero mondo, dove mari e odore salmastro, lo difendevano dal caos e dalle maggioranze silenziose ma assordanti delle grandi città del Continente.
Fabrizio al lavoro
"Eravamo fratelli"
Imparò alla perfezione il sardo, come fosse naturale saperlo, in neanche un anno e lo parlava da sardo, racconta il contadino che gli ha insegnato tutto dei lavori di un’azienda agricola. Oggi, questo anziano signore, quando parla di Faber, piange, dicendo con la voce interrotta dal pianto: “Eravamo due fratelli e respiravamo il rispetto che ognuno aveva per l’altro”. Arrivò a condividere anche le rabbie, i disagi, le illusioni fino ad aderire ad un movimento indipendista sardo, fino ad aprire la sua casa a tutti i visitatori facendone un agriturismo speciale, dove non ti sentivi ospite ma amico. E io sono ancora qui a mangiarmi le punta delle dita per non aver accolto nel 1998, al Teatro Turismo di Riccione, il suo invito ad andarlo a trovare a casa sua per tutto il mese d’agosto. Purtroppo avevo già prenotato un altro viaggio, pensando che avrei potuto esaudire questa grande emozione, quella di vivere a 360 gradi per un mese la vita del cantautore e poeta migliore del secolo scorso. E se qualcuno pensa che esageri, non me ne frega proprio nulla.

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