Entrambe le storie sono , prese daprese da REPUBBLICA DEL 8\3\2015 da repubblica di Milano la seconda
Esse testimoniano come c'è gente che scelgono di non emigrare ( come fece anche mio bisnonno che andò , non voleva debiti era troppo orgoglioso , ando a lavorare in Argentina per 5 anni ) come si faceva allora e fanno molti oggi . Gente che ha scelto con il loro gesto di ( vedere sotto il finale di in via delle murate c'è uno scalino di Sergio Staino tratto dal volume Bobo Novecento ) non lasciare o almeno provare a lottare il nostro paese in mano certi scemi
Ma bastga partlare io e lasciamo parlare le storie
Io precaria domani firmo il nuovo contratto felice sì ma fra 3 anni possono licenziarmi”
MILANO
.«Felice? Ovvio. Anche se mi resta un po’di amaro in bocca». Damiana Dipasquale ha 28
anni, una laurea in Scienze della Comunicazionee un impiego in un’azienda milanese di consulenza
e selezione del personale. Domani firmerà il primo contratto a tempo indeterminato della sua vita. Ed è anche uno dei primi in senso assoluto nella versione riveduta e corretta dal Jobs Act, il cosiddetto “a tutele crescenti”.
Che contratto aveva prima?
«Un tempo determinato, che mi era stato fatto partire lo scorso settembre e che scadeva a luglio. Che a sua volta era stato il primo contratto “serio” da quando lavoro».
E adesso?
«Venerdì scorso il datore di lavoro mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha dato la bella notizia. Ma io sinceramente me lo aspettavo. Ci occupiamo proprio di questi temi in azienda, quindi era evidente la convenienza dal punto di vista economico».
Come festeggerà?
«Non penso di farlo a dire il vero, ma di sicuro il cuscino sarà un po’ più comodo...».
Cosa non le torna?
«Premesso che sono comunque contenta di questo avanzamento, premesso che amo ciò che faccio e il mio ambiente di lavoro, a me rimane l’amaro in bocca».
Perché?
«Perché
per tre anni, quelli dello sgravio fiscale,mi assicuro una crescita
professionale in un contesto che mi piace. Però mi domando: e fra tre
anni? Cosa succederà? Quando cioèll’aziendacosterò“davvero”? Insomma, metto inpreventivo che possa perdere il miolavoro.
La firma di lunedì (domani,ndr) mi dà la possibilità di stare tranquilla adesso, ma il dopo mi angoscia,devo essere sincera».
Faccio l’avvocato del Diavolo:lei non si accontenta mai.
«No,
anzi. Però le cose stanno così,è evidente. L’azienda incassa il bonus
iniziale e risparmia sulla mia assunzione.Ora, non dico che sia
umiliante,però sapere che un domani puoi essere liquidata con uno
schiocco delle dita mi inquieta. Sono realista:questo è un passo avanti,
ma ametà».La firma di lunedì (domani,ndr) mi dà la possibilità di stare tranquilla adesso, ma il dopo mi angoscia,devo essere sincera».
Faccio l’avvocato del Diavolo:lei non si accontenta mai.
La sua è una riflessione legata a una concezione poco flessibile del mercato del lavoro? Ha il
mito del posto fisso?
«Ma
no, sono flessibile da una vita.Ho avuto molti contratti con altre
imprese, hofatto la cameriera e la barista con il classico contratto a
chiamata. Poi i famosi contratti a progetto, tutti fasulli, in società
di marketing. Appena finivano ti salutavano e ricominciavi daccapo. Non è
un problema di cambiamento, la nostra è una generazione di
camaleontici, sappiamo cambiare, sappiamo cosasignifica la mobilità ».
E allora qual è il punto?
«La tutela della persona. La mia non è insoddisfazione,è che io do tanto, perché tu Stato o azienda non mi garantisci altrettanto? Io voglio essere tutelata sempre e questo conviene a tutti: perché la crescita professionale è mia ma se ne avvantaggia anche l’impresa. Il miglioramento non può fermarsi qui. Aggiungo che sapere di
avere un futuro garantito nel tuo posto di lavoro ti fa dare di più, ti fa sentire partecipe. Io la vedo così».
Con il vecchio tempo indeterminato legato all’articolo 18 sarebbe stata più contenta immagino.
«Sì, quello che firmarono a loro tempo a mamma e di papà. Diciamo che non ho potuto pensare come loro, “adesso mi faccio una famiglia, tiriamo su la nostra casa”, perché non è esattamente la stessa cosa. E lo dico ben sapendo che non era l’articolo 18 a risolvere i problemi, né lo sarà il Jobs Act».
A proposito: ma i suoi genitori cosa dicono?
«Sono più tranquilli adesso. Mamma, da brava siciliana, mi fa: “Intanto prenditi questo”».
Il suo stipendio rimarrà lo stesso?
«Credo di sì, non mi hanno parlato di aumenti. Ma comunque per la mia età guadagno bene».
Quanto?
«1.200 euro netti al mese».
E allora qual è il punto?
«La tutela della persona. La mia non è insoddisfazione,è che io do tanto, perché tu Stato o azienda non mi garantisci altrettanto? Io voglio essere tutelata sempre e questo conviene a tutti: perché la crescita professionale è mia ma se ne avvantaggia anche l’impresa. Il miglioramento non può fermarsi qui. Aggiungo che sapere di
avere un futuro garantito nel tuo posto di lavoro ti fa dare di più, ti fa sentire partecipe. Io la vedo così».
Con il vecchio tempo indeterminato legato all’articolo 18 sarebbe stata più contenta immagino.
«Sì, quello che firmarono a loro tempo a mamma e di papà. Diciamo che non ho potuto pensare come loro, “adesso mi faccio una famiglia, tiriamo su la nostra casa”, perché non è esattamente la stessa cosa. E lo dico ben sapendo che non era l’articolo 18 a risolvere i problemi, né lo sarà il Jobs Act».
A proposito: ma i suoi genitori cosa dicono?
«Sono più tranquilli adesso. Mamma, da brava siciliana, mi fa: “Intanto prenditi questo”».
Il suo stipendio rimarrà lo stesso?
«Credo di sì, non mi hanno parlato di aumenti. Ma comunque per la mia età guadagno bene».
Quanto?
«1.200 euro netti al mese».
Dottore in legge, 42 anni, vive a Milano: Luca Nicolazzi è un “adattabile”
Dopo diversi impieghi precari ha comprato una licenza: “Così sono autonomo”Il tassista laureato che cita Pascal “Ho cambiato vita per avere un lavoro”
LA SCELTA
Luca Nicolazzi, 42 anni,è laureato in giurisprudenza. È diventato tassista suo malgrado. Dopo anni di precariato ha comprato la licenza a Milano per avere un lavoro vero
MILANO
UNA mosca bianca su un taxi bianco, che guida morbido e tiene pulito come la stanza
di una sposa. In un'ampia vaschetta sul lato passeggero, una
quarantina di cioccolatini ben assortiti di cui si rifornisce da un
eroico caramellaio superstite, in viale Toscana. «Gradisce?». Il
conducente ha 42 anni, capelli e filo di barba entrambi molto curati,
cita Pascal e Keynes, porta in giro per Milano il suo Bari 78, una
500L che sembra appena uscita di fabbrica, con la pacata rassegnazione
di chi ha sognato altro, studiato per altro, ma che al momento ha
accettato l'evidenza che questo altro non c'è, e quindi si adatta. La
nuova Italia degli "adattabili", fratelli maggiori degli "sdraiati" di
Michele Serra. Visto il tasso innaturale di disoccupazione e la massa
crescente di quanti stanno scendendo la scala sociale, la mosca bianca
sul taxi bianco è, se non altro, in nutrita compagnia. Ma il suo resta
un caso piuttosto unico. Sul biglietto da visita, in cartoncino
plastificato traslucido, c'è tutto in una riga, l'aspirazione mancata e
la negazione, per quanto possibile, dello status presente: Dott. Luca
Nicolazzi, seguono indirizzo e mail. La parola "taxista" non compare.
Però è quello che lui fa da due anni e mezzo. Perché non lo scrive?
«Perché sono dottore in Legge, 88/100 a fine corso con una tesi sullo
sfruttamento della prostituzione, e guidare un'auto pubblica non è
esattamente la mia aspirazione».
Dottore in Legge e quindi
avvocato. «No, ce n'erano già troppi
quando so- no uscito
dall'università, mi sono scoraggiato. Sono entrato nello studio di mio
padre, un commercialista con una decina di dipendenti, a occuparmi di
paghe e sicurezza del lavoro. Poi lui è morto di colpo, un infarto in
ufficio. Abbiamo venduto l'avviamento e io ho cominciato a girare per
trovare un posto. Girare in senso letterale, da Moncalieri al Veneto.
Mi ricordo che a Vertemate, nel comasco, per una posizione nel
recupero crediti, eravamo in 40. Dopo tanti contratti di collaborazione
in piccole assicurazioni, l'ultima mi ha lasciato a casa. Un po' di
disoccupazione e poi mi sono buttato in questa impresa del taxi. Per
disperazione». Beh, c'è di peggio. «Vero. Però questo è un lavoro per
niente prestigioso, parecchio faticoso e poco valutato. Il mio indice
di successo con le donne, per esempio, è drasticamente diminuito». Come
mai? «Vengo da una famiglia benestante e abito ancora in una zona di
buona borghesia. Da quando torno a casa col mio Bari 78, mi guardano
diversamente, non dico storto ma insomma, va' che fine ha fatto il
Luca».
Nessuno sa esattamente quanti siano i taxisti in Italia,
40mila, forse 50. Si sa però che sono forti, compatti, una lobby su cui
si sono puntualmente infranti i progetti di liberalizzazione dei vari
Bersani, Monti e adesso Renzi, che ha astutamente evitato, o rimandato,
lo scontro con loro. Ma "loro" chi sono? L'unico studio ufficiale in
materia è una relazione della Banca d'Italia, datata 2008 ma basata su
dati del 2006: diceva in sostanza che abbiamo meno della metà di taxi
per abitante rispetto alle metropoli europee. Roma viaggerebbe intorno
alle 7.500 licenze attive (Londra supera le 20mila, Parigi le 15mila) e
Milano, uno dei rari numeri precisi all'unità, 4855. Domanda: quanti
sono i taxisti laureati? Risposta nazionale: boh. Risposte locali, dei
sindacati o degli uffici comunali: e chi li ha mai contati. Anche nella
città che ha appena issato l'Albero della Vita, svettante chioma
argentata dell'ormai imminente Expo, il titolo di studio di chi dovrà
accompagnare dalla vecchia Madonnina alla nuova Fiera l'atteso popolo di
turisti è tema insondato e insondabile. Che il signor Nicolazzi sia
l'unico "dottore"? Magari proprio l'unico no, però, chissà, forse c'è
un ingegnere o un altro avvocato, potrebbe, non sappiamo.
Neanche lui lo sa. I rapporti con i colleghi sono fugaci. In qualche
caso, anche pugnaci. Come quella volta che non aderì allo sciopero
anti-Uber, l'applicazione che dall'aprile 2013 fa concorrenza non
gradita ai taxi regolari. «Mi hanno bloccato in tre energumeni in piazza
della Repubblica, hanno fatto scendere la cliente e mi hanno spiegato
con le brutte che dovevo smetterla. Madonna, che paura. Ho rimesso il
taxi nel box». Ma Uber non rappresenta una minaccia per la sua
categoria? «La vera minaccia è la crisi. Il lavoro è diminuito sì, ma
perché la gente ne ha sempre di meno. Io sto con Keynes, lo conosce,
no? L'austerità che ci impone l'Europa, e che noi supini subiamo, non
paga. Quando c'è deflazione, cioè se produci perdi, deve intervenire
lo Stato, fare spese in deficit, investire in opere pubbliche, la
scuola pubblica, la sanità. Mi sono preso un'infezione a un dito, sono
andato alla mutua, esami, tempi biblici per l'appuntamento con un
chirurgo. Se non pagavo un privato, l'infezione mi arrivava al
cervello». Renzi le dà speranza? «Figurarsi. Ho votato Forza Italia,
pentendomi. Se proprio devo, scelgo il Matteo della Lega, Salvini. Ma
sono più per la destra sociale». Il vecchio Msi? «Una cosa così. Forse
si lega col fatto che io sono molto cattolico, di quelli che vanno a
messa ogni domenica. E il sabato pomeriggio, volontariato con gli
anziani ricoverati al Don Orione: così si sgrava un po' il lavoro degli
infermieri». Renzi no. Papa Francesco? «Moltissimo. Lo accusano di
essere comunista, stupidaggini. Lui sta al Vangelo, e il Vangelo quello
è. Pascal scriveva che la scelta dell'uomo è tra il nulla eterno e
l'eternità. Nel mio piccolissimo, scommetto sulla seconda». Nelle
pause, il dottor Nicolazzi va al Planetario perché gli piace
l'astrofisica oppure legge quotidiani (dal "Foglio" al "Sole 24ore",
dal "Corriere della Sera" alla "Repubblica" al "Fatto") o libri come la
storia di Matteo Ricci, edita dal Mulino, sulle gesta di un gesuita,
matematico e cartografo, che nel 1500 partì per evangelizzare la Cina, o
i saggi di Alberto Bagnai, pubblicati dal Saggiatore, sui rischi
dell'euro e di questa Europa. E poi studia, ostinatamente, per l'esame
di broker
assicurativo. «Il mio sogno da bambino era mettere i timbri sulle
carte nello studio di papà. Adesso, di aprire un'agenzia di
assicurazioni». E se va male? «Una volta ho caricato un professore di
Economia. Mi ha spiegato che il Cile è la Svizzera del Sudamerica, il
Paese più stabile e con la crescita più promettente. Ecco, se va male,
tento col Cile». Parla da uomo senza legami: famiglia, figli? «Niente,
per adesso. Mi piacerebbe tanto, ma manca l'altra parte, la compagna, la
sposa. E non è che guidando un taxi le possibilità di incontri
aumentino. Certo che salgono anche delle belle ragazze, donne bene, ma
non ti considerano: tu sei lo sfigato che guida».
Scusi, dottore,
ma chi gliel'ha fatto fare? «L'assenza di alternative. Mi sono
comprato la licenza per 178mila euro, fortuna che li avevo. Ho
ereditato la sigla, Bari 78, dal proprietario precedente e l'ho tenuta
per pigrizia. Ci aggiunga 16 mila euro per la vettura, più i soldi al
sindacato e i 3mila per diventare socio di una cooperativa. Con 200mila
euro mi sono pagato un lavoro indipendente, sicuro, dove nessuno possa
cacciarmi. Non è il mio massimo, neanche il mio medio, ma mi adatto.
Nelle giornate fiacche, porto a casa 120 euro per 10 ore di turno, dalle
8 alle 18; in quelle buone, 200; nelle super, quando a Milano c'è la
moda o il design, sfioro i 280-300. Tolte le spese, ci campo. E dal
primo maggio comincia pure l'Expo». Semaforo rosso, pausa. «Speriamo che
parta, o riparta, anche l'Italia». Ma lo dice con una smorfia di
sfiducia che resta impressa nello specchietto retrovisore. Cosa non la
convince, dottor Nicolazzi, taxista suo malgrado? «È che questo Paese
non lo capisco più. Mi capita di parlare con dei clienti anziani, di
solito i più cortesi. Mi raccontano dell'Italia del dopoguerra, della
miseria che c'era, della povertà che non è diversa da quella che stiamo
assaggiando oggi. Ma allora c'era una cosa che adesso non c'è più: la
solidarietà tra le persone. Magari in Cile ne è rimasta ancora un po'».
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