a dirlo non sono io o i " comunisti no global " ma Il Sole 24 ORE << un quotidiano economico italiano. È il secondo quotidiano italiano per diffusione totale (cartacea + digitale) dopo il «Corriere della Sera»[2]. >>( dalla voce il sole 24 ore di wikipedia ) quotidiano di proprietà della Confindustria
La vicenda Pirelli ha un valore paradigmatico. La sua
acquisizione da parte di Chem China rappresenta la definitiva uscita dal
Novecento industriale italiano. E l'ingresso nelle nuove mappe di un
capitalismo globalizzato in cui Europa e Cina si affrontano con durezza.
L'operazione sancisce la fine di un secolo lungo segnato per
il nostro Paese dalla capacità di essere uomini di fabbrica e da una
spinta all'internazionalizzazione che hanno sempre dovuto fare i conti
con un capitalismo familiare interessato al controllo dell'impresa e
dotato di minori capitali rispetto ai concorrenti stranieri. Un profilo,
dunque, molto italiano. Ma l'operazione di Chem China su Pirelli è
anche l'ulteriore prova del nuovo confronto fra grandi aggregati
politico-territoriali, in cui il nuovo soggetto forte della
globalizzazione – la Cina – sceglie di assimilare pezzi tecnologici e
manifatturieri occidentali, secondo scelte di politiche industriali a
cui invece l'Unione Europea – lacerata da micro politiche nazionali -
non riesce a replicare. Qualcosa che, dunque, riguarda tutta l'Europa.
«Questo episodio – riflette Franco Amatori, decano degli storici
economici della Università Bocconi – si iscrive in una vicenda di lungo
periodo in cui la spinta a crescere sui mercati esteri, essenziale fin
dagli anni Cinquanta vista la piccola dimensione del mercato italiano,
ha sempre avuto un freno in due caratteristiche del nostro capitalismo
nazionale: l'ansia di controllo della famiglia fondatrice sull'impresa e
i mezzi finanziari inferiori alle ambizioni». Franco Amatori, che ha
avuto modo di raccogliere la testimonianza di Leopoldo Pirelli poco
prima della sua scomparsa otto anni fa e che poi ha avuto accesso al suo
archivio, ricorda il passaggio a vuoto del 1971. Allora si arrivò a
pochi centimetri dalla fusione fra Pirelli e Dunlop. In quel passaggio
storico Michelin aveva il predominio commerciale e tecnologico.
L'operazione Pirelli-Dunlop aveva una significativa ragione industriale:
i prodotti erano complementari. Ma Dunlop aveva un azionariato diffuso.
Era una public company. «Leopoldo – rammenta Amatori – non
se la sentì di vedere la sua quota diluita in una nuova impresa in cui
avrebbe faticato non a comandare, ma anche solo a determinare
l'indirizzo strategico». C'è la questione del desiderio del controllo. E
c'è il tema dei soldi. Ai Pirelli e alla Pirelli degli anni Settanta e
Ottanta - «assolutamente centrali nel sistema di Mediobanca», secondo
Giandomenico Piluso, docente di Storia di impresa all'Università di
Siena - non si attaglia il giudizio severo che, su quel mondo ormai
prossimo all'autunno, avrebbe formulato nel 1991 Napoleone Colajanni nel
saggio pubblicato da Sperling & Kupfer “Il capitalismo senza
capitale”. Ma, di certo, Leopoldo comprese la differenza delle regole e
delle misure in gioco quando nel 1988 provò ad acquisire negli Stati
Uniti la Firestone. Un mondo – fra Akron in Ohio, Chicago e Wall Street –
in cui non valeva la frase di Enrico Cuccia «le azioni si pesano, non
si contano». Il tentativo di scalata fallì per l'offerta dei giapponesi
di Bridgestone, di gran lunga migliore sotto il profilo finanziario. Il
tema della capacità finanziaria al servizio dell'espansione
internazionale – cruciale in ogni periodo storico, anche quando i
mercati erano più chiusi come negli anni Ottanta – rappresenta una
continuità di lungo periodo per la Pirelli, che in questo appare davvero
paradigmatica della fisiologia del nostro capitalismo. Fra il 1990 e il
1991 l'impresa italiana imposta una scalata alla Continental.
Una operazione che non ha una origine ostile. «Dopo una fase
iniziale positiva – sottolinea Amatori – i negoziati prendono una
brutta piega non soltanto quando Pirelli mostra di volere comandare non
rispettando il principio di condivisione del potere proprio del
capitalismo renano, ma soprattutto quando la proposta finanziaria viene
formulata parte in denaro e parte conferendo la Pth, la holding quotata
ad Amsterdam che racchiudeva delle attività internazionali. A quel
punto, il sistema tedesco, formato in particolare da Deutsche Bank, da
Volkswagen e da Bmw, dice no». Nella continuità di lungo periodo, gli
anni Novanta e gli anni Duemila sono stati segnati sul piano micro dalla
leadership familiare e societaria di Marco Tronchetti Provera che,
nonostante il vulnus rappresentato dall'investimento in Telecom Italia,
ha perversato in Pirelli nella strategia di risanamento e di sviluppo,
di razionalizzazione delle procedure e dei processi interni e di
internazionalizzazione. Questa consistenza industriale ha fatto il paio
con il binomio formato dal controllo della società attraverso catene
societarie e dalla ricerca di investitori in grado di apportare,
appunto, nuovi capitali.
Una ricerca di nuovi capitali, all'interno delle ragioni e
degli interessi sia della famiglia che dell'impresa, che alla fine ha
appunto portato all'arrivo dei cinesi. Invece, sul piano macro, nella
dialettica fra particolare e generale fra gli anni Ottanta e gli anni
Novanta in Europa è successo qualcosa i cui effetti perdurano ancora
oggi. E che mostrano le cause dell'assenza di una risposta sistemica
europea – di qualunque genere, beninteso - di fronte a una Cina che
procede, rispettando le regole del mercato, come un cingolato, in questo
come in altri casi. Fra il 1985 e il 1994 Jacques Delors da presidente
della Commissione Europea prospettò la necessità di politiche
industriali comunitarie. «Il suo consigliere Alexis Jacquemin – nota
Franco Mosconi, docente di Economia industriale all'Università di Parma –
dimostrò che era necessario abbandonare politiche industriali difensive
su base nazionale. I singoli Stati preferirono, invece, procedere in
autonomia. Il risultato è che, oggi, manca una politica industriale
comunitaria, all'interno della quale si muovano i grandi gruppi
industriali come Pirelli, che non sono italiani, ma europei». Che non
erano italiani, ma europei, viene da dire. Dato che, ora, sono cinesi.
«Pirelli doveva crescere. Aveva bisogno di capitale nuovo, per aprire
per esempio un mercato come quello cinese che, fra il 2020 e il 2025,
varrà quanto quello europeo», afferma Roberto Crapelli, amministratore
delegato di Roland Berger Italia. Che aggiunge: «Non ha più senso
parlare di Paesi. Ormai il confronto è fra piattaforme produttive di
grandi dimensioni, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie Industry
4.0. Dunque, anche le policy devono misurarsi su queste scale. I cinesi
si muovono con decisione. L'Europa non sempre sa che cosa vuole dalla
sua identità manifatturiera». E se non lo sa l'Europa, figuriamoci
l'Italia.
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