Scoprirsi omosessuali essendo ebrei ortodossi in una metropoli come New York. Uno scontro che può rivelarsi devastante per un giovane educato nell'osservanza dei più rigidi dettami religiosi in una città multietnica, multireligiosa e allo stesso tempo totalmente laica. Dopo "I cantautori e la filosofia da Battiato a Zero" (Fabio Croce editore) e "Chiedi di lui" (ed. Lulu), viaggio nell'universo musicale di Renato Zero scritto a quattro mani con Daniela Tuscano, Cristian Porcino, filosofo e critico letterario, si cimenta col romanzo. Shlomo, protagonista di "Un'altra vita" (sempre per Lulu ma disponibile anche su
Amazon), potrebbe rischiare la follia o, per reazione, trasformarsi in un violento fondamentalista. Il suo spirito, però, ha conservato un nucleo di spontaneità che lo previene da questi pericoli. E il suo carattere dolce non lo rende remissivo, ma curioso di esplorare se stesso e il mondo che lo circonda. Mentre incontriamo l'autore del romanzo, ci domandiamo se un domani leggeremo anche la vicenda di uno Shlomo palestinese e musulmano...
- "Un'altra vita" è ambientato nella comunità ebraica newyorchese. Perché non in Israele?
«La scelta di ambientarlo nella comunità ortodossa e tradizionalista di New York nasce da una conoscenza diretta che ho sperimentato negli anni durante la mia permanenza nella Grande Mela. Ho sempre nutrito un gran rispetto e interesse verso l’ebraismo e il mio desiderio di conoscenza mi ha fatto spesso accostare alle loro festività. Naturalmente la comunità ebraica di NYC, pur trovandosi ad una distanza molto ravvicinata da Manhattan, affascina e disorienta. Solamente a pochi chilometri dalla comunità in cui risiede il protagonista del romanzo, la realtà è ben diversa da quella che gli ebrei ortodossi si sforzano di tenere lontana, pur frequentandola per affari. Mi chiedi se poteva esserci uno Shlomo israeliano; be’ credo di sì, però se consideriamo il percorso esistenziale del mio protagonista dubito fortemente che si sarebbe adattato a quel contesto. Sono sicuro che prima o poi sarebbe finito anche lui lontano dalla sua comunità di appartenenza. Ma non avendo mai visitato Israele non potevo ambientarlo in una situazione geopolitica che non conosco personalmente.»
- Perché hai voluto proprio un ebreo educato religiosamente come protagonista del tuo romanzo?
«Non è stata certamente una casualità. Osservando alcuni ebrei ortodossi mi chiedevo come si sarebbe trovata in mezzo a loro una persona non propriamente corrispondente ai loro canoni. Principalmente le loro famiglie sono caratterizzate da una prole numerosa e sembra quasi che il principale obiettivo di un maschio adulto consista nello sposarsi e generare altri piccoli da allevare nella tradizione e nel proprio credo. L’educazione ultraconservatrice di Shlomo era necessaria per delineare, nel romanzo, la frustrazione e il senso d’inferiorità che qualsiasi precetto religioso può generare nei bambini con gravi ripercussioni nella loro vita da adulti. E poi se consideriamo i legami che l’ebraismo ha con il senso di espiazione della colpa mi interessava sviluppare questa prospettiva.»
- I personaggi sono ovviamente frutto della tua fantasia, ma qualcuno o qualcosa ti hanno comunque ispirato?
«Shlomo si è semplicemente presentato a me, e mi ha chiesto di raccontare la sua storia. Ovviamente lui non esiste nella realtà ma questo personaggio non mi ha abbandonato un solo attimo e con insistenza mi ha ripetutamente invitato a forgiarlo, a dargli vita. Non credo di essermi ispirato a qualcuno. Volevo solo dare la parola ad un personaggio che a causa di assurdi preconcetti di stampo religioso doveva, in qualche modo, abdicare alla sua felicità, inclusa quella sessuale, per compiacere vecchi precetti scritti in un testo redatto in epoche lontane dal suo tempo. Un lettore, recentemente, mi ha detto di aver intravisto in Shlomo un po’ dell’anarchia e ribellione del giovane Holden ideato da Salinger. Naturalmente il paragone mi ha lusingato molto ma i due personaggi agiscono in tempi diversi e le loro storie hanno un background culturale differente, e poi “Il giovane Holden” è un capolavoro della letteratura mondiale e io non posso competere con un classico. Comunque, come ho scritto nei ringraziamenti, devo molto alla città di New York perché ogni qual volta la visito mi regala sempre emozioni fantastiche e stimola la mia creatività.»
- In un periodo di tensioni e conflitti come l'attuale, quale messaggio di pace può lanciare un personaggio come Shlomo (che la pace la contiene nel nome ma, se pensiamo al re biblico, anche la passionalità)?
«La prima edizione del romanzo è uscita nel 2012 quando l’inasprimento della guerra fra palestinesi e israeliani non appariva sulle prime pagine dei giornali. Shlomo reca in sé un messaggio di pace. Lui ricorda al lettore che se credi davvero nei principi di una religione non puoi accettare divieti e imposizioni che si scontrano con gli impulsi insiti nell’essere umano. Credere è possibile purché questo non diventi una discriminante nei confronti di chi non crede o è semplicemente interessato a vivere questa esistenza senza intermediari terreni o divini. Se un Dio esiste non vuole odio, guerre, disparità o battaglie in suo nome ma solo Amore.»
- Se dovessi trasporre cinematograficamente il tuo romanzo quale attore sceglieresti e perché?
«Anche in questo caso un docente universitario, dopo aver letto il libro, mi ha detto di aver riscontrato notevoli suggestioni cinematografiche. Chiaramente è il sogno di ogni scrittore quello di vedere rappresentata sul grande schermo la propria opera. La gioia di veder vivere i propri personaggi, attraverso le sensazioni e gli occhi del regista, deve essere un’esperienza indimenticabile. Come attore mi piacerebbe James McAvoy. È un talento straordinario, in grado di entrare nei panni dei personaggi con grande disinvoltura. Oppure Gregory Smith, attore conosciuto per la sua partecipazione in serie televisive di successo. Ma ciò che conta di più è il regista. Woody Allen sarebbe perfetto per dirigerlo. In qualche modo lui conosce perfettamente l’ebraismo e l’ateismo. E poi sarebbe una buona occasione per vedere il genio di Allen alle prese con il tema dell’omosessualità quasi mai trattato nei suoi film. Mentre come attore italiano mi piace molto Elio Germano, un giovane molto preparato. Altri registi direi Ozpetek, Moretti, Faenza. Ma so che non accadrà mai, in Italia si seguita a fare film basandosi esclusivamente su storie che sono pubblicate dai soliti nomi e dai consueti colossi dell’editoria.»
- Lo ritieni un testo adatto a degli studenti? Può essere un valido contributo contro l'omofobia?
«Certamente. Il romanzo si rivolge ad ogni tipologia di lettore e soprattutto agli studenti. È proprio a scuola che si deve imparare il rispetto per ogni forma di diversità e combattere le varie stereotipie legate all’identità di genere. Proprio nel 2013 è uscito un mio saggio intitolato “6 canzoni contro l’omofobia e la violenza sulle donne” che conteneva al suo interno un progetto formativo da attuare negli istituti scolastici, per contrastare l’omofobia e il femminicidio. Il linguaggio da me utilizzato in “Un’altra vita” è divulgativo e riesce ad arrivare a tutti. Questo fattore, in un paese come il nostro, è un vero problema. Tutto ciò che è immediato è visto con sospetto. Ne sa qualcosa lo scrittore Luciano De Crescenzo che è stato il primo a parlare di filosofia in termini popolari attirandosi le antipatie dei colleghi e dei filosofi. Arrivare a tutti è un pregio e non un difetto. Mi auguro che attraverso l’esperienza di Shlomo i giovani possano riacquistare più fiducia in se stessi e magari tagliare i ponti con antiche e retrive usanze in grado solamente di ostacolare la loro felicità.»
Franco Vivaldi
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