APPUNTI PER UN'ORESTIADE FALLITA - Affabulazione "pasoliniana" su un femminicidio di © Daniela Tuscano



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Gela, 1987. Liborio, un bambino di sei anni, torna da scuola e non trova più mamma Rosaria. Mamma è giovane, 22 anni appena, il viso inghirlandato da riccioli, un sorriso immediato, come quello degli adolescenti. Ma, come gli adolescenti, ingannevole. Che nei tratti ancor puerili può velare drammi estremi. 
Mamma dunque è così, una bimba anch'essa. Ha avuto Liborio a sedici anni. Lui la cerca, gli manca la sua risata, ma lei, quel giorno, non gli va incontro. Non si vede, è scomparsa. L'appartamento, sempre in penombra per il caldo accecante, ha un tuffo di silenzio. Il padre Vincenzo, in un angolo, lo aspetta. Lo sguardo attraversato da una trave cupa. Poche, terribili parole: è l'ultimo giorno. Andranno via da Gela.




Pesaro, quattro anni dopo. Liborio non sorride più. Nella sua nuova casa la luce s'effonde inutile e leggera. Sono soli, lui e il padre. Lui è solo col padre. Lui è solo. Vincenzo gli ha rivelato la spaventosa realtà: mamma li ha abbandonati, è fuggita con un altro uomo. Vincenzo l'ha pure denunciata e chiesto il divorzio per abbandono del tetto coniugale. Nel frattempo ha avuto un altro figlio dalla cugina di lei, con cui si è risposato. 
Liborio cresce col fratello/cugino e tanta rabbia in corpo. O dolore. O entrambi. Rosaria gli pesa. È presente. Ossessiva nella sua assenza. Non riesce a liberarsene. Ha usurpato quella casa, con la sua fuga desacralizzante e scandalosa. L'ombra della matriarca lo perseguita e per questo si butta negli studi, poi nel lavoro. No, non le permette di rovinargli l'esistenza. Vuol rinascere. Ce la fa. Si sposa. Lei è una professionista, una giovane avvocata dai tratti gentili. 
Una vita, tante vite. Liborio è un altro Liborio. Ma ogni tanto una calamita, una sorta di grido insanguinato lo riporta laggiù, a Gela, dove aveva lasciato un piccolo bambino, e il mondo gli scorre davanti come un cannocchiale a rovescio. Il rancore lo consuma. Se la ritrovasse, ora... E lo ripete, lo urla alla nonna, a quella che gli restituisce l'ombra di lei. È sempre stata silente, rassegnata, in questo secolo di ricordi. È che adesso, basta. Adesso non riesce più a sopportare l'ennesima, invasiva furia del nipote. Le sale qualcosa alle labbra. Rivela. Piano. No, tua madre non t'ha abbandonato, tua madre è morta. L'hanno uccisa.
Liborio è attraversato da un lampo. Si domanda perché a lui, perché così. Non vuole crederci, va oltre ogni sopportazione. Ma sa rinascere, Liborio. Torna a casa. Racconta tutto alla moglie. Partono le indagini. Sì. È andata proprio così.
Liborio ha vissuto quasi trent'anni con Vincenzo, quel tetro Vincenzo abbandonato, di cui aveva accettato la relazione con la zia perché in essa rivedeva Rosaria, una Rosaria senza macchia e al tempo stesso distante. Invece Vincenzo, con quella cugina si appartava già, la incontrava già in quel 1987 a Gela, mentre lui era a scuola, mentre Rosaria preparava il pranzo. Vincenzo e la cugina erano amanti e Rosaria li aveva scoperti. Lei sfoggiava una collana d'oro regalatale da Vincenzo. 
Rosaria era stata sepolta in un terreno poco distante da casa. Di lei, ora, non resta che una foto. Liborio è rimasto col suo silenzio, se n'è riappropriato, le sue lacrime adesso scorrono fluide. Ha una compagna e una carezza. Dell'assassino, non gl'importa più. Gl'importa aver strappato la maschera, gl'importa esser ancora, nonostante tutto, Liborio, tanti Libori, ma mai Oreste, mai il carnefice d'un ricordo tradito, l'esecutore d'una vendetta sbagliata. Liborio ha rivisto, per un attimo, quel sorriso ricciuto, sulla soglia d'una casa del 1987. Ha voltato le spalle. È orfano solo di madre. 
Due giorni fa la porta del carcere s'è chiusa dietro Vincenzo. Fine pena mai. Continua a ripetere al muro che Rosaria è scappata con un altro.

                                             © Daniela Tuscano

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