E tornerà Natale, un Natale austero, un Natale triste, dicono. Semplicemente un Natale, una festa rubata, sovrapposta, ammonticchiata sulle ceneri di tante altre, di dèi non più riconosciuti dagli uomini. In questi giorni passeggio per le vie della mia città e m'imbatto in molti dei simboli più cari e rivoluzionari della nostra tradizione, i presepi. Presepi essenziali, fastosi, ricercati, artistici, minuziosi, sempre irraggianti quel calore d'attesa, quel sapore di ricongiungimento e di vite perenni, lunghe e monotone come carovane, sterminate stelle dell'universo terreno. E' lì che noi scalziamo la natura, la reinventiamo. Mi soffermo davanti al lavoro d'una famiglia di negozianti ora in pensione. Figure immancabili del paese antico, popolari icone mai scrostate dal tempo riottoso e frenetico dell'oggi. Adesso il loro presepe è protetto dietro la vetrina del vecchio esercizio. Ma, fino a poco fa, sorgeva in mezzo agli orti, infrattato nel buio muschioso di verzura, presso una fonte. L'irrompere d'un nuovo credo in un paesaggio di rustiche ninfe, e un bambino venerato al posto d'inquieti satiri. Dietro, si spianano lunghe seminagioni: più che tempo rappreso, continuità rurale. Sentimento di pace sterminata, rimpianto di quiete perduta.
E' questo il Natale, la gioia d'un incanto, la meraviglia e la maestà del quotidiano. Un quotidiano che vuol abbracciare ognuno: in ciò consiste la sua beltà. Dio è comunità e relazione. La senti, quella relazione, in mille anfratti diversi e obliati, svicolata dallo sguardo rassicurante, vicina ma anche invisibile. Credo questo Dio, credo questa Chiesa come comunità, affanno e consolazione, invasione di luce, mano perenne. Credo nell'entusiasmo che non ci lascerà mai, malgrado le nostre menti avvelenate di solitudine, inquinate da sguardi muti.Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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10.12.11
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