L'EQUIVOCO di © Daniela Tuscano da Il Tulipano - Il Web Magazine indipendente

Su una definizione, almeno, le testate occidentali concordano: Thomas Mair, l'assassino di Jo Cox, è un "pazzo", uno psicopatico, un asociale. Detto altrimenti: malgrado i legami ormai acclarati con gruppi neonazisti, pro-apartheid e anti-Ue, il cinquantenne che ha crivellato di pistolettate (tra cui una in faccia) la deputata laburista e poi, non sazio, ne ha smembrato il povero corpo con un numero imprecisato di fendenti, viene derubricato a episodio, inserito a forza nella categoria dei casi clinici e privato, diremmo denaturato, del suo brodo di coltura. Diversamente dagli Abballa, dagli Abdeslam, dai Mateen, solo per citare gli autori delle ultime stragi nazislamiste, Mair non rappresenta che sé stesso, la sua alienazione e la sua miseria. Questa la narrazione mediatica. Mair come Breivik, due fulminati. Fermi lì. Se non fosse per un trascurabile dettaglio: lo scempio operato dal primo e la mattanza del secondo nulla hanno da invidiare agli sgozzamenti e alle stragi di Daesh e relativi epigoni.
Eppure, li si valuta in modo assai diverso. Per la stessa logica che ha portato a sentirsi Charlie ma non Garissa, o la Siria, o l'Iraq. La Torre Eiffel ha indossato i colori del Belgio ma non del Pakistan. È la stessa logica che, nella sua illogicità, pretende pure d'aver ragione: i morti non sono tutti uguali. E lo proclama apertamente: quelli di Parigi o Bruxelles rappresentano le conquiste della democrazia, della libertà e della laicità; assurgono a simbolo, trascendono il loro corpo. Gli altri vi restano ancorati, nell'insensato disfacimento senza nome, nemmeno abitanti bensì indigeni - come s'indicavano un tempo i popoli colonizzati - di luoghi dove la guerra è pane quotidiano, fattore biologico. Insomma: vi sono abituati...
Mentre qui, nella culla della civiltà, scoppiano al massimo episodi di "follia". Così tutto s'accomoda, anzi, non c'è nulla di rotto. Si ragiona in termini di numeri e statistiche. Chi osi avanzare obiezioni viene immediatamente tacciato di disfattismo o - accusa ben più temibile - di "buonismo", che declinato altrimenti indica intelligenza col nemico. E i cattivisti, che in questo periodo vanno molto più di moda, stanno all'erta, pronti a sommergerti con sarcasmo belluino: "Se ti piacciono tanto, prova tu ad assaporare la Sharia o le dittature mediorientali! - (le medesime, accennato "en passant", con le quali i cattivisti di cui sopra stringono fruttuose alleanze e lauti affari) - Noi siamo l'Occidente, noi siamo l'Europa".
Già, ma quale Europa? Non quella di Jo Cox, che è poi l'unica per cui vale la pena di vivere e morire, l'unica per cui il sacrificio non sarebbe vano. L'Europa dell'umanesimo ricordata da papa Francesco e non quella delle banche e delle multinazionali, delle guerre e dello sfruttamento. L'Europa dei diritti, della laicità, delle libertà, certo! Ma per ognuno, sennò si chiamano privilegi. Ma senza disprezzare l'umanità altrui, sennò si chiama razzismo. L'Europa delle donne e delle minoranze, che dà un senso al nostro orgoglio, l'Europa che non cambieremmo per nulla al mondo - tantomeno per la Sharia. Ma è esattamente questa l'Europa ripudiata dall'europeo Mair. È esattamente questa l'Europa che l'europeo Mair ha inteso spegnere nel minuto e combattivo corpo di Jo Cox. È esattamente in spregio alle libertà e ai diritti che l'europeo Mair ha infierito sulle membra di Jo, con un accanimento pari solo al suo odio.
Ma non sono forse gli stessi obiettivi dei jihadisti? E quell'urlo farneticante, "Prima la Gran Bretagna", cos'ha di diverso dall'"Allahu Akbar" del terrorismo blasfemo (mutuato da quell'altra empietà, anch'essa europea. "Gott mit Uns")?
Ritenere quest'ultimo tara ereditaria d'una religione, d'una cultura, d'interi popoli, e il primo il mero frutto d'una mente insana, dimostra cecità etica oltre che intellettuale.
L'odio non è questione di numeri o di percentuali. Di qua poco, di là tanto. L'odio è sempre "troppo". Ed è estremamente razionale.
Il pensatore argentino Silo, nel lontano 1994, preconizzava: "Il pensiero perderà la sua capacità d'astrazione, che verrà rimpiazzata da una forma di funzionamento analitico passo dopo passo sempre più conforme al modello informatico. Si perderanno le nozioni di processo e di struttura, per cui la produzione intellettuale si ridurrà a semplici studi di linguistica e di analisi formale. [...] Ma proprio allora l'antica speranza di uniformare tutto nelle mani di un solo potere svanirà per sempre. In quella notte della ragione, in quella stanchezza della civiltà, avranno campo libero i fanatismi d'ogni genere, la negazione della vita, il culto del suicidio, il fondamentalismo nudo e crudo. [...] Risorgeranno i localismi e le lotte etniche, e i popoli dimenticati si riverseranno sui centri di decisione come un uragano...".
Il motivo per cui non si comprende, o si valuta superficialmente, l'uccisione di Jo Cox è precisamente questo. La tecnologia ha soppiantato il pensiero, ma i fanatici, orfani di pensiero, ragionano benissimo.
Quello di Cox non è però stato solo un assassinio politico, la distruzione d'una filosofia: è stato anche un femminicidio.
Cox sarebbe stata uccisa anche se uomo, certo; di fatto, però, si trattava d'una donna. Una donna simboleggiava il progresso, un uomo la reazione più feroce. Una si batteva per un'Europa umanista, uno l'ha atterrata; come quei mariti, fidanzati, amici che non sopportano la libertà delle loro compagne. È un delitto politico, ma anche sociale, antropologico. Incarnatosi in un incubo: quello dei muri, delle chiusure e delle separazioni. Del possesso. Dell'egoismo. L'incubo d'un piccolo austriaco vissuto un centinaio d'anni fa, pericope del patriarcato violento.
La cui "Bibbia" - non commentata e riedita nell'edizione del 1934 - è stata regalata dall'identico quotidiano che ieri ha pubblicato il titolo a tutti ormai noto. Operazione di marketing perfettamente riuscita: è sufficiente parlarne! Per chi ripone la propria divinità nel guadagno, poi, tutto rientra nella norma. E risulta oltremodo divertente dato che si tratta di soggetti particolarmente invisi a chi dirige quelle pagine.
Ci si è sdegnati per l'apertura, ma pochi, credo, hanno badato ai due articoli di taglio basso intitolati rispettivamente "La patria della minigonna mette il burqa alla bellezza" (riferito alla decisione del neosindaco musulmano di Londra d'intervenire sulle pubblicità sessiste) e "Ma quelle superdonne ci rovinano la giornata", a mo' di commento. Entrambi, uniti al servizio principale, la dicono lunga sulla visione delle donne - anzi, della donna - da parte del "Giornale": essenzialmente un oggetto decorativo per il sollazzo del maschio (chi non ricorda, del resto, le intemerate pro-Berlusconi?). Per "Il Giornale", la "donna" è sempre e comunque "donna": e non per esaltarne le peculiarità morali e intellettuali o la sua completezza di persona, ma al contrario per ricondurla nei ranghi: mai e poi mai avremmo letto, nemmeno per un avversario politico, "Tre colpi di pistola contro un uomo". Ma la donna, secondo "Il Giornale", è donna o meglio femmina, faccia la femmina, non s'immischi in politica - se poi milita nella sponda opposta, apriti cielo... - o nella letteratura, o nell'arte, sport, scienza. Suo scopo è compiacere l'uomo - quello e basta. Almeno in gioventù. Perché non va neppur dimenticato che lei è "a scadenza", il maschio no.
Naturalmente ora fioccheranno i distinguo, le irrisioni verso chi ha frainteso, quando come minimo quel titolo meriterebbe uno zero in italiano; ma un dieci in ambiguità: i protagonisti sono infatti divenuti i tre colpi di pistola, e parrebbero quasi i salvatori "contro una donna" che, fra l'altro, si opponeva alla Brexit (sostenuta con forza dal "Giornale").
Se poi si pensa che un titolo simile esce in un periodo squassato da un'ondata di femminicidi senza precedenti, una coltre di ghiaccio cala sul cuore.

                                        © Daniela Tuscano  da Il Tulipano - Il Web Magazine

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